Siamo
nati e cresciuti annusando l’aria che tira, spesso elaborando
intuizioni frutto del fiuto più che di ponderose analisi, magari
arrivandoci successivamente.
Volendo
essere onesti, lo dichiariamo anticipatamente. Ancora non abbiamo una
analisi dettagliata, ma un pò di fiuto si.
E sulla base di questo,
sentiamo che dentro la residualità della sinistra e delle
sue molte anime “sociali”, si sta facendo strada una insana voglia di
inserirsi, adeguarsi, adattarsi all’”ombrello” politico del Pd. E’ una
dinamica molto fluida, liquida potremmo dire, proprio perchè deve
inserirsi in interstizi – anche istituzionali – molto più ridotti e
tortuosi che in passato.
In
una recente assemblea, un esponente tra i più lucidi di questa sinistra
residuale, ha parlato di un passaggio di fase, dalla “resistenza alla
resilienza”. Il concetto di resilienza è nobile ed efficace. La natura è
resiliente perchè si adatta continuamente alle mutate condizioni.
Alcune popolazioni, sia rurali sia metropolitane, hanno sviluppato una
enorme capacità di resilienza che consente loro di andare avanti anche
in un habitat completamente diverso.
Ma
parlare di resilienza in politica assume tutt’altro significato. Indica
una voglia e una capacità di adattamento all’esistente che somiglia
molto più ad una “mutazione genetica”.
E’ sotto gli occhi di tutti che un piccolo mondo antico non esiste più. La sinistra radicale,
e i suoi satelliti con orbita propria (alcuni centri sociali e frange
di “movimento”, per esempio), in questi dieci anni sono stati via via
trasformati fuori dalla dimensione in cui si erano adagiati a partire
dai primi anni Novanta.
Per
quasi venti anni aveva funzionato un modello in cui l’unica funzione
politica reale era quella di “tirare per la giacca” i Ds/Pd –
all’opposizione o al governo – e la Cgil, svolgendo una azione a volte
un pò autonoma, altre un pò collaterale, ma senza mai strappare. Quando
tali strappi sono avvenuti (dall’ingoiamento del “rospo” Dini alla
caduta del secondo governo Prodi), si sono verificati psicodrammi
politici che hanno prodotto dolorose scissioni nel maggiore partito
della sinistra: il Prc.
Poi,
nel 2008, è iniziato l’avvitamento, con l’uscita dalla dimensione
parlamentare e l’ossessione di ritornarvici ad ogni costo nel più breve
tempo possibile.
Dopo dieci anni di tentativi falliti, è iniziato un doloroso redde rationem. Ma dentro gli
uomini e le donne di questo pezzo della politica sembrano ormai
esaurite le energie, le idee e soprattutto la visione; ossia la capacità
di costruire un punto di vista e una soggettività politica indipendenti.
C’è
smarrimento e c’è paura. Lo spettro di una destra aggressiva, la
riduzione degli spazi democratici e di agibilità politica, per un verso
accentua gli aspetti di psicodramma, dall’altro stimola e legittima
l’idea che, esaurito uno spazio politico autonomo, convenga mettersi al
riparo dentro o dietro un soggetto più grande: il Pd, in questo senso, è l’unica possibilità immediata.
Non
è la prima volta che assistiamo a questo adattamento nella sinistra
radicale tanto simile al trasformismo. E’ accaduto già nel 1976 verso il
Pci e fu una tragedia. Ripetendosi oggi non può che somigliare alla
farsa.
Il
fatto che oggi il Pd sia all’opposizione, colloca nell’oblìo le sue
malefatte quando è stato al governo e quelle che farà una volta che
riuscisse a tornarci. Già oggi su salario minimo, Tav, subalternità a
Confindustria e banche, obbedienza ai diktat europei, etc. mostra quale
sono e saranno i suoi assi strategici per il domani.
La
discussione cui assistiamo sembra avere per oggetto, più che il “se”,
solo il “come” e il “quando” mettersi sotto l’ombrello del Pd. C’è chi
lo declina sul piano del muncipalismo e chi sul piano dell’antifascismo,
chi sul piano dei diritti civili e chi sul piano della riduzione del
danno in termini sindacali.
E, quando qualcuno prova a segnalare questa “impressione”, si scatena spesso una reazione quasi isterica, con frequenti exscusationes non petitae e la netta sensazione di aver pestato la coda a molti non detti.
In fondo, le ultime elezioni europee hanno giocato molto sulla ingannevole contrapposizione tra europeisti liberali ed euronazionalisti.
I risultati dicono che hanno vinto i primi, facendo sopravvivere la
composita famiglia socialista e democristiana come egemonica sui
processi decisionali europei.
Ma
alcuni settori della sinistra radicale in Europa quella
contrapposizione non l’hanno vissuta come ingannevole; piuttosto come un
destino e un orizzonte politico ineluttabile dentro cui, d’ora in poi, adattarsi.
Qualche segnale si è visto prima
e dopo le elezioni nella Spagna di Podemos, dove uno dei leader –
Errejon – ha scelto l’abbraccio con i socialisti a Madrid; e poi con la
medesima scelta da parte di Ada Colau a Barcellona.
Qui
in Italia il fiuto ci dice che molta di questa “resilienza” si giocherà
sul piano locale (comuni, regioni) ancora prima che sul piano
nazionale. Le motivazioni saranno molteplici e articolate, all’insegna
del realismo politico, un pò come si è visto in diversi ballottaggi
nelle ultime elezioni amministrative.
Potremmo
sbagliarci, certo. Ma, se non ci sbagliamo, i prossimi mesi vedranno
una crescente “resilienza” manifestarsi sul piano politico, con esodi
verso gli interstizi che un Pd tornato in mano alla “Ditta” (gli ex Pci)
cercherà di riaprire a chi vuole mettersi definitivamente alle spalle
le ragioni sociali dell’antagonismo di classe e dell’antifascismo
militante.
Se
fossimo dei semplici osservatori potremmo sederci sulla riva del fiume
ed aspettare. Ma siamo dei soggetti politici attivi, magari in
controtendenza, spesso con un pizzico di ruvidità, e quindi non possiamo
che misurarci ancora una volta con la sfida.
Intendiamo continuare ad agire nella costruzione di un soggetto politico indipendente e di una rappresentanza di interessi popolari in conflitto con gli assetti esistenti.
Domenica
c’è l’assemblea nazionale di Potere al Popolo, una sperimentazione
concreta che sta cercando di evitare la palude “facendo tutto al
contrario”. Non è vero che ormai ci sia solo il deserto.
Solo gli epigoni di uno scetticismo diffuso a piene mani
dall’avversario, o i furbissimi “resilienti”, possono affermare il
contrario per giustificare gli scheletri del passato e quelli del
futuro.
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