Non falliremo, vi spiego perché.
Ci risiamo. Si confida nei mercati e nei nodi economici per cambiare una maggioranza di governo. È accaduto spesso in Italia. Ad assaggiare l’amaro calice delle congiure fu per primo Romano Prodi. Il suo esecutivo cadde sulle pensioni dei lavoratori precoci, erano i tempi di quota 90, usate come pretesto da Rifondazione Comunista perché semplicemente lo si voleva sostituire. C’era la lira e c’erano pochi vincoli esterni. Poi con la moneta unica e la globalizzazione è cambiato tutto e non siamo stati più liberi di farci male esclusivamente da soli, anche se ne siamo specialisti mondiali. Così è toccato a Silvio Berlusconi, che per la verità ci ha messo molto del suo, finire, costretto alle dimissioni dall’inizio della tirannia dello spread. Ed ora nell’occhio del ciclone, tra lettere, smentite e gialli epistolari con Bruxelles, c’è il gabinetto di Giuseppe Conte, terremotato da smottamenti interni dopo la vittoria della Lega di Matteo Salvini alle Europee, la debacle dei Cinquestelle, tutto nella stessa maggioranza. Sulla febbre alta di Palazzo Chigi si riverbera il fattore “E”, come Europa, “E” come Euro. È un film che conosciamo, dal 2011.
I mercati, fatti di carne e ossa, di gente trentenne che legge in rete le notizie sulla proverbiale instabilità politica del Belpaese, giudicano, vendono, comprano, influenzano, ma non vanno mai molto a fondo nel leggere lo stato di salute del paziente.
Volendo provare a fare un ragionamento non ideologico, chiediamoci se l’Italia è davvero così inaffidabile e sempre prossima al burrone come per ultimo ha lasciato intendere il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco e come, prima di lui, hanno paventato nei saloni porpora di Palazzo Koch, Antonio Fazio (l’euro sarà un Purgatorio, disse, profeticamente) e Mario Draghi (abbiamo poco tempo, ammonì, eppure siamo ancora qui). Divido in tre il breve ragionamento:
le nostre colpe, le nostre forze, la causa della paura sui mercati.
Sul primo punto è sicuramente la finanza pubblica il tasto dolente, da quando non si può più stampare denaro e si è ceduta la sovranità monetaria. Facciamo debito in una moneta che non controlliamo e la regia delle emissioni spesso è affannata, spesa alla ricerca dal primo gennaio di ogni anno di una settantina di miliardi solo per pagare gli interessi, impiccata ai vincoli di bilancio del Fiscal Compact e ostacoli di ogni genere a cominciare da una vergognosa evasione fiscale mai doma e mai perseguita sul serio, che rappresenta di fatto il primo motivo di indebitamento. Questo avviene da vent’anni, da quando è nata l’Unione monetaria. Un debito oltre il 133% che cresce più del Pil è però sufficiente a scatenare di nuovo il dibattito sul rischio Italia, prezzato ora incredibilmente sopra la Grecia, paese fallito un paio di volte e con un un Pil molto inferiore alla Lombardia? Non credo, come non ci credevo otto anni fa.
Vediamo quindi cosa va in Italia e quali sono le sue qualità, la sua forza. La settima economia al mondo e la terza nell’Unione ha uno stato patrimoniale invidiabile. Il debito privato, di famiglie e imprese, è ben sotto la media europea e mondiale, tanto che centrerebbe ampiamente il tetto del 60% sul Pil previsto dal Trattato di Maastricht. L’export è la forza trainante e ha toccato nel 2018 i 500 miliardi di euro, la sua bilancia è in surplus di quasi 40 miliardi, l’avanzo primario è all’1.6% del Pil, il Tesoro dipende solo per il 24% dall’estero per quanto riguarda i titoli di stato che emette. In questo contesto, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è quasi vicina a 10.000 miliardi di euro, mentre aumentano i depositi. Insomma, siamo un paese ricco con uno Stato povero. La forza dei fondamentali dell’Italia, non è in discussione. Ma questo quadro, fatto più di luci che di ombre, non convince chi guarda solo i conti del settore pubblico. E i gestori ci fanno pagare di più il denaro rispetto a Madrid, Lisbona, Berlino, Parigi e ora anche Atene. Se nessuno ha il coraggio, lo dico io: un’assurdità.
E veniamo infine al terzo punto, le cause delle turbolenze finanziarie. Anche se il litigioso governo gialloverde sembra ormai far di tutto per giustificare la sfiducia di chi deve prestargli 400 miliardi l’anno, quello che spaventa le altre capitali e che si cela dietro la paura di un rischio epidemia è proprio la forte integrazione europea del sistema Italia. Il 60% delle nostre importazioni proviene dagli altri paesi dell’Ue e il 56% dell’export è invece ad essi destinato, la loro incidenza sul Pil negli ultimi 20 anni è passata dal 13 al 18%. I due terzi degli investimenti esteri diretti e di portafoglio nella penisola provengono poi dai paesi Ue, che a loro volta ricevono il 60% di quelli italiani. Se si aggiunge che l’Italia tra prestiti bilaterali e finanziamenti al fondo salva-Stati (Esm) impegna 58 miliardi di debito in più, e che negli ultimi dieci anni con i tassi bassi ha risparmiato 500 miliardi di euro sugli interessi, il quadro di una totale partecipazione alle sorti dell’Unione Europea e viceversa è evidente.
Se cade l’Italia, dunque, cadono anche gli altri. Simul stabunt, simul cadent. Questo temono Parigi, Berlino, Bruxelles: essere trascinati nel baratro con noi. Il fattore “E” può perciò essere la nostra forza segreta, se riusciremo mai a volgerlo a nostro favore, prendendo il meglio dall’integrazione comunitaria e da quello che rappresentiamo per essa, come lo shock che ci porterà a fondo se lo subiremo passivamente addebitandogli, come un nemico alle porte, la causa di tutti i nostri mali.
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