Nei giorni scorsi, la multinazionale Unilever ha aperto le procedure di licenziamento
di 76 lavoratori dello stabilimento di Sanguinetto, in provincia di
Verona. L’azienda ha deciso di delocalizzare la produzione del dado
Knorr, che precedentemente aveva luogo in quello stabilimento, in
Portogallo. Negli stessi giorni la Whirlpool, multinazionale
statunitense di elettrodomestici ha dichiarato di voler lasciare gli stabilimenti di Napoli
per delocalizzare in Polonia lasciando per strada oltre 400 lavoratori!
Queste notizie drammatiche hanno acceso i riflettori su un fenomeno,
quello delle delocalizzazioni, sempre di più all’ordine del giorno. Per
capire le ragioni per cui avvengono le delocalizzazioni, dobbiamo andare
al di là della retorica neoliberista, in base alla quale il fenomeno in
questione, fornendo un incentivo per i policy-maker affinché
ammodernino le proprie economie, sarebbe senz’altro salutare. In realtà,
come vedremo, le delocalizzazioni non sono altro che uno degli
strumenti attraverso i quali si esercita lo sfruttamento non solo dei
lavoratori, ma anche dell’ambiente.
Ma facciamo un passo indietro e
chiediamoci in cosa consista una delocalizzazione. Con questo termine si
designa il fenomeno per il quale le imprese di un determinato paese
trasferiscono la produzione, o parti di essa, in un altro paese al fine
di trarne un vantaggio. Un vantaggio, si intende, in termini di profitto
– quindi limitato a chi ha la proprietà dell’impresa – e a scapito dei
lavoratori, che subiscono il ricatto della delocalizzazione, essendo
costretti ad accettare salari sempre più bassi e condizioni di lavoro
sempre peggiori. Si tratta di una delle armi più pericolose
nell’arsenale del capitale: una freccia avvelenata che, dietro la
retorica della sana competizione internazionale tra paesi che creerebbe
efficienza e modernizzazione, mette in verità le economie in perenne
concorrenza al ribasso, con effetti devastanti sui diritti sociali e del
lavoro e sulle normative ambientali e fiscali. Questo stesso veleno non
inquina solamente le vite dei lavoratori e la convivenza tra i popoli,
ma anche l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e la terra che
utilizziamo. Quest’arma, a seguito del progressivo completamento del
processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale, avviato negli
anni Novanta e completato negli anni Duemila, è diventata sempre più
letale, in quanto le opportunità di delocalizzazione si sono estese a
tutti i paesi del mondo.
Sono tre le principali motivazioni delle delocalizzazioni.
Il primo movente è la ricerca, da parte
dei padroni, di paesi caratterizzati da un minor livello di tutela dei
lavoratori: un salario più basso e peggiori condizioni di lavoro
garantiscono alle imprese più ampi margini di profitto. Questo fenomeno
caratterizza il normale funzionamento dell’Unione Europea, laddove vige
la completa libertà di movimento di capitali e merci. Al tempo stesso,
le leggi che tutelano il lavoro ed i livelli salariali sono molto differenti
da paese a paese, creando marcati dislivelli tra le condizioni
lavorative e, dunque, molteplici occasioni per trarre profitto dal
trasferimento della produzione. Non è un caso che la Unilever abbia
deciso di delocalizzare in Portogallo, un paese dipinto come modello dell’austerità che funziona, ma caratterizzato
da salari reali decrescenti e da un’ampia diffusione del precariato. Le
regole europee, presentate come misure utili ad avvicinare i popoli,
abbattendo confini e frontiere, finiscono al contrario per dividere i
lavoratori, creando tra questi una sfrenata competizione al ribasso e
alimentando, dunque, artificiosamente la pericolosa percezione di un
conflitto di interessi interno alla classe lavoratrice, a tutto
vantaggio dei movimenti di estrema destra che di xenofobia si
alimentano.
La possibilità di delocalizzare, inoltre,
crea pressione sui governi dei vari paesi affinché questi ultimi, per
attirare investimenti, creino condizioni fiscali sempre più vantaggiose a
favore del capitale. In condizioni di libertà di movimento dei
capitali, infatti, è difficile stabilire imposte elevate sulle imprese.
Se il sistema impositivo risulta non gradito ai capitalisti, questi
possono agevolmente delocalizzare la produzione. A quel punto lo Stato
da cui il capitale migra o ne prende atto e subisce gli effetti negativi
in termini di disoccupazione e di crollo del gettito fiscale; oppure
abbassa la tassazione sul capitale inseguendo la concorrenza al ribasso
sulle aliquote scontando comunque una diminuzione, presumibilmente
ridotta, del gettito raccolto. In entrambi i casi, a meno da non voler
accettare un forte calo delle entrate fiscali, lo Stato reagirà
aumentando le imposte sui lavoratori. Non è un caso che il peso dei
tributi negli ultimi decenni si sia spostato massicciamente sulle spalle
dei lavoratori, determinando un pesante effetto ridistribuivo dai
salari ai profitti. Laddove invece venga accettato il tracollo del
gettito, ciò, laddove in presenza di stringenti vincoli di finanza
pubblica, come nei paesi europei, comporterà una diminuzione della spesa
pubblica e dello stato sociale che, come è noto, arreca benefici in
primis alle classi sociali svantaggiate. In tutti i casi, quindi, la
delocalizzazione produce un effetto regressivo sulla distribuzione del
reddito nei paesi da cui il capitale migra anche tramite le scelte di
finanza pubblica.
Il terzo motivo alla base delle
delocalizzazioni produttive, molto simile al caso legato alla pressione
tributaria, è connesso alle normative ambientali. Se un paese varasse
leggi che limitano la possibilità di inquinare delle aziende, o
aumentasse i controlli o magari facesse rispettare in maniera seria e
rigorosa le leggi già in vigore, le industrie maggiormente inquinanti
potrebbero delocalizzare la produzione in un altro paese meno attento
alla tematica ambientale o troppo debole per poter far pesare
l’interesse pubblico nei confronti del capitale. È tristemente noto
l’operato delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo: corrompendo
i governi o ricattandoli con la minaccia di una nuova delocalizzazione,
riescono a produrre pagando salari da fame e inquinando praticamente
senza alcun controllo. Ma se spostare la produzione in un altro
continente può creare degli svantaggi e dei costi di transazione,
spostarla in un altro paese UE, che gode di libertà di commercio dei
prodotti senza barriere doganali, è molto comodo e profittevole.
È dunque evidente che tramite la libertà
di movimento dei capitali e le delocalizzazioni si ottiene il duplice
scopo di ricattare i governi dei paesi per evitare ogni traccia di
regolamentazione e dall’altro quello di trovare sempre e comunque
condizioni favorevoli al capitale e tassazione modesta, a costo di
distruggere l’ambiente, i diritti del lavoro e la capacità degli Stati
di disciplinare e regolamentare il sistema economico.
Il modello che è stato prospettato da
decenni a livello europeo e globale e che si va sempre più consolidando è
quello della competizione al ribasso sulla tutela dei lavoratori e
dell’ambiente e sul carico fiscale che ricade sulle imprese. I Trattati
europei sono pieni di bellissime dichiarazioni di principio sulla tutela
dell’ambiente (articoli 3 e 21 del Trattato sull’Unione Europea, TUE;
articoli 11, 114, 191, 194 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea, TFUE) ma nei fatti disegnano (articolo 63 del TFUE)
un’architettura istituzionale fondata sulla libertà circolazione di
capitali interna all’UE (assoluta) ed esterna (comunque molto avanzata),
una libertà inconciliabile con il perseguimento della sostenibilità
ambientale. Non si possono tutelare, insieme, il massimo profitto e
l’ambiente, perché la tutela dell’ambiente ha dei costi che finirebbero
per gravare sui profitti delle imprese. Lasciando i capitali liberi di
circolare alla ricerca delle migliori opportunità di guadagno, l’UE ha
deciso di sacrificare l’ambiente sull’altare di un modello di sviluppo
incentrato sul profitto, un sistema che scoraggia a priori qualsiasi
forma seria ed efficace di tutela del lavoro e dell’ambiente.
La questione delle delocalizzazioni si
pone così come uno degli esempi più fulgidi di come la lotta
ambientalista e la lotta anticapitalista debbano essere la medesima
lotta. Contrastare la libertà di movimento dei capitali e ripristinare
il pieno controllo da parte degli Stati sulla regolamentazione
dell’economia è il primo passo per contrastare sfruttamento e
inquinamento e migliorare le nostre vite da tutti i punti di vista.
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