Di
fronte all’aumento delle crisi aziendali, dall’industria alla
distribuzione, il Governo continua a rilanciare proclami senza mettere
in campo l’unica soluzione concreta: intervento pubblico e statale a
garanzia dell’occupazione, del reddito e dello sviluppo economico.
Dalle
ultime vicende che riguardano la FCA (ex Fiat), l’ex
ILVA/ArcelorMittal, Whirlpool (ex Indesit), TIM, Alitalia ma anche
imprese come Mercatone UNO, diventa evidente che ci troviamo dentro una
ulteriore fase di declino e di predazione da parte delle multinazionali.
Di
fronte a fallimenti, chiusure e delocalizzazioni, mancati piani di
rilancio, riduzioni di personale e cassa integrazione in aumento
esponenziale, il Governo segue la “tradizione” dei suoi predecessori,
affrontando caso per caso le varie vertenze ma senza dimostrare di avere
una strategia complessiva per poter invertire la situazione. Continuano
ad accumularsi tavoli di crisi su tavoli di crisi, annunci su annunci
ma un piano vero e proprio di intervento nazionale non viene
individuato.
La
ragione è che il punto di partenza per una vera inversione di tendenza è
ancora un tabù, sia per il Governo, sia per le opposizioni in
Parlamento: intervento diretto dello Stato e del settore pubblico
nell’economia e nella politica industriale.
Un
tabù imposto da decenni di politiche liberiste, dove l’intervento dello
Stato è inteso solo come attore e garante per la demolizione delle
precedenti regole e norme (sul lavoro, sulla finanza, sulla produzione),
per sostenere con soldi pubblici i processi di ristrutturazione e
privatizzazione e per foraggiare in mille maniere profitti privati con
risorse pubbliche.
Un
tabù imposto non solo a livello nazionale ma soprattutto sul piano
internazionale dalla stessa Unione Europea, dove però le regole non sono
vincolanti per tutti come nel caso di Francia e Germania: dove
l’intervento economico e politico dello Stato è molto evidente e si
consolida. Il caso dell’accordo mancato FCA e Renault è solo l’ennesima
conferma ma possiamo anche ricordare la vicenda Fincantieri per
l’operazione Stx.
Per
capire di cosa stiamo parlando, basterebbe contare i miliardi di euro
di fondi pubblici erogati ai privati negli ultimi 10 anni a sostegno
delle campagne di licenziamento e di vari incentivi concessi ai piani
industriali, la gran parte dei quali risultati fallimentari (vedi solo i
casi eclatanti Alitalia-Cai e Sai, Whirlpool e l’ultima evoluzione di
ArcelorMittal)
Così
come potrebbe aiutare a comprendere la diversità d’approccio sapere
quante e quali partecipazioni in industrie nazionali hanno nel
portafoglio lo stato francese o tedesco anche attraverso le loro
articolazioni.
Per
noi non si tratta di difendere il padronato italiano contro il
padronato europeo, francese o tedesco ma di capire e reagire ad un
processo di devastazione del tessuto economico italiano dove a perderci
sono le lavoratrici e lavoratori e le prospettive di un possibile
sviluppo eco-sociosostenibile nel nostro territorio.
Un
padronato italiano che ragiona in una logica parassitaria e ha puntato
tutto sullo sfruttamento del lavoro, che spinge sulla
deregolamentazione, che si avvantaggia con la rendita di posizione, che
esige il sostegno diretto o sfrutta il silenzio/assenso dello Stato per
far galleggiare una economia “privata” finalizzata ai soli dividendi
azionari.
Un’impostazione
che divora risorse pubbliche e non si preoccupa dei disastri
ambientali. L’esatto contrario di quello che oggi occorre per lo
sviluppo degli investimenti, della ricerca e l’innovazione tecnologica
per la soddisfazione degli interessi generali mettendo al centro il tema
dello sviluppo sostenibile e della cura dell’ambiente.
Sappiamo
che questa crisi e i relativi processi di ristrutturazione e di
distruzione non sono un evento che riguarda solo il nostro paese ma la
stessa “globalizzazione”, con l’aumento della competizione
internazionale, fino alle guerre commerciali in atto tra USA, UE, Russia
e Cina.
In
questo contesto generale è sempre più evidente che il nostro paese è
preda e terra di conquista dei settori strategici da parte delle
multinazionali, che non trovano nessuna resistenza politica sia da parte
dei governi precedenti ma neppure dall’attuale governo giallo verde.
Una economia lasciata coscientemente alla deriva e concentrata sui
settori secondari del “Made in Italy”.
L’unica
eccezione, a dimostrazione delle nostre posizioni, sono le grandi
aziende italiane sopravvissute alla stagione delle privatizzazioni e
dello smantellamento dell’IRI avviato dai governi dei primi anni 90:
stiamo parlando delle aziende a partecipazione pubblica come ENI,
SAIPEM, ENEL, LEONARDO (ex FINMECCANICA) e FINCANTIERI, che operano in
settori strategici con investimenti importanti in termini di innovazione
e sviluppo, a differenza delle aziende “sorelle” ex IRI privatizzate,
smantellate e cannibalizzate.
Quindi,
se teniamo conto degli effetti dell’abbandono di qualsiasi politica
industriale nel nostro Paese e consideriamo le ingenti somme pubbliche
erogate dietro richiesta di imprenditori privati senza alcun ritorno
positivo in termini sociali, non può più essere tabù parlare del bisogno
di una nuova fase di ricostruzione industriale e dello strumento
necessario come una nuova IRI.
Perché
se da una parte è normale che il padronato e le multinazionali operino
nel loro esclusivo interesse in termini di profitto e di speculazioni
finanziarie, dall’altra non può più essere accettabile che tutto questo
avvenga senza mettere in campo tutti gli strumenti politici ed economici
che la stessa nostra Costituzione mette a disposizione dello Stato e
dell’interesse generale.
Ma
il punto centrale è se c’è la volontà politica di rompere con le
politiche liberiste e se c’è la volontà di rompere con i vincoli della
stessa Unione Europea che vieta ad alcuni e permette ad altri
l’intervento diretto della Stato nell’economia.
Finora
sia i vari Governi, sia CGIL CISL UIL sono state parti attrici se non
in alcuni casi complici veri e propri della destrutturazione industriale
del Paese, limitandosi ad abbaiare senza mordere, e senza, senza dare
un orizzonte diverso al quadro di insieme, uniti quando va bene dalla
logica della sola riduzione del danno.
Se si accettano le gabbie è difficile ragionare diversamente.
Per
questo, USB ritiene sia giunto il momento di rimettere in agenda lo
studio dell’intervento pubblico nella politica industriale in Italia e
degli strumenti necessari per farlo.
Lo
ribadiamo come abbiamo fatto con la manifestazione nazionale del 20
ottobre 2018 a Roma e con gli scioperi generali di categoria delle
scorse settimane: non esistono soluzioni alternative, la
nazionalizzazione, la ripubblicizzazione delle aziende strategiche,
delle aziende in crisi, di quelle che si vogliono delocalizzare è il
punto di partenza per una nuova stagione industriale e produttiva, per
l’occupazione e per i diritti di tutte e tutti.
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