Con tale
neologismo le autrici intenderebbero riferirsi al nuovo uso nel mondo
accademico italiano di organizzare convegni incentrati sul pensiero di
Karl Marx partecipati da soli uomini. In particolare il riferimento è al
“Marx 2Day”, ovvero la Bicentennial Conference organizzata dal 2 al 4
maggio 2018 presso le Università della Cattolica del Sacro Cuore di
Milano e di Milano-Bicocca, portata come esempio di ciò che all’estero
viene definito “All male panels”, convegni appunto organizzati e
partecipati da soli uomini. Il “marxilismo” italiano avrebbe inoltre
delle proprie caratteristiche peculiari: esso sarebbe composto da una
cricca di uomini che si autorappresenterebbero come l’avanguardia del
pensiero critico radicale di sinistra (pur essendo, nella realtà,
espressione del più bruto maschilismo conservatore).
Questa
piccola querelle potrebbe forse essere considerata di poco conto e
superata, proprio perché marginale rispetto al più ampio dibattito
sviluppatosi negli ultimi anni attorno al tema del ruolo della donna
nella società contemporanea. Tuttavia, a parere di chi scrive, essa
suscita interesse proprio perché manifestazione più compiuta delle
contraddizioni che fondano le nuove forme di femminismo coagulatesi
negli ultimi anni attorno allo slogan “non una di meno” e diffusesi su
ampia scala fino a raggiungere le alte vette di Hollywood.
Ciò a cui in primo luogo ci rimanda l’articolo del magazine
femminista è la tradizionale richiesta di quote rosa. Il problema si
limiterebbe alla conta dei partecipanti (partecipant*?) ai convegni e
all’ammontare di coloro che tra di essi siano di sesso femminile.
La
questione pertanto non riguarderebbe il fatto che l’ambiente accademico
sia sempre di più un ambiente di precarietà del lavoro, che chiunque
voglia tentare di entrarci debba necessariamente avere alle spalle una
condizione di agio economico per permettersi di mantenere a proprie
spese l’attività del libero pensiero, che i convegni abbiano spesso un
costo di partecipazione molto alto (cosi come il costo degli
spostamenti, degli alloggi, ecc).
Il
problema evidentemente non è quindi come tutto questo potrebbe
rappresentare un reale ostacolo all’inserimento in questo ambiente di
una qualsiasi donna che abbia ambizioni di vita, lavoro e stabilità
economica. La sola presenza di qualche donna al dibattito avrebbe
risolto la questione femminista.
Questo
ci rimanda alla seconda e ben più importante contraddizione: la
questione femminile viene affrontata esclusivamente come identità di
genere in astratto, svincolata dai rapporti socio economici in cui è
inserita. Ed è proprio su questo punto che Marx (e i beceri e
maschilisti studiosi di Marx) ci verrebbe in aiuto: il ruolo ricoperto
dalla donna nella società e la sua subalternità, così come ogni altra
identità sociale e ogni altro tipo di subalternità, sia essa di genere,
di identità sessuale o etnica, può essere definita e compresa soltanto
in relazione alla sua collocazione all’interno dei rapporti socio
economici esistenti in una determinata società.
L’emancipazione femminile, come ci ricorda sapientemente Nancy Fraser nel suo Fortune del femminismo,
non può prescindere dall’analisi economica della condizione femminile e
deve saper unire le preoccupazioni culturali a quelle dell’uguaglianza
sociale, abbandonando il discorso fondato esclusivamente sull’identità e
sul riconoscimento. Questo perché, forse, se di femminismo ha senso
parlare oggi – e noi crediamo che ne abbia -, esso dovrebbe essere un
movimento sociale progressivo che porti all’uguaglianza economica e
politica tra generi. A dover mutare sono le gerarchie di potere
esistenti nella società in cui, solo in seconda istanza, la differenza
di genere si inserisce e non la semplice posizione che il genere assume
in esse.
Il
discorso di genere privo del discorso di classe rimarrebbe monco e,
ancora peggio, rischierebbe di contribuire alle disuguaglianze sociali
di cui esso stesso è vittima. Ne sono un esempio le forme di femminismo
“pop” che il racconto egemonico filtra attraverso i mass media, i talk
show politici e l’industria cinematografica. L’emancipazione femminile
tutta interna al capitalismo, apologetica delle grandi imprenditrici,
delle manager d’affari e di qualsiasi posizione di potere, stavolta
incarnata da una donna, assume qui la forma di un semplice ribaltamento
del ruolo dei generi (il film biografico The Iron Lady che
dipinge Margaret Thatcher come rivoluzionaria soltanto in quanto donna
forte al comando ne è forse l’esempio più evidente).
Ma
a questo, nella rappresentazione mediatica dell’emancipazione
femminile, si intreccia un secondo elemento che tende a rovesciare in
senso inverso le tradizionali forme di dominazione maschile: alla
mercificazione del corpo femminile corrisponde l’altrettanta
mercificazione del corpo maschile, allo sfruttamento sessuale della
donna corrisponde lo sfruttamento sessuale dell’uomo. A ciò
occasionalmente si accompagna l’umiliazione economica dell’uomo da parte
della donna arrivata ai vertici della scala sociale (a questo proposito
basterebbe citare le numerose scene di frustrazione delle figure
maschili nella notissima serie televisiva Sex and the City).
Anche
in questo caso qualche cosa potrebbe farci tornare alla mente il
filosofo che ammoniva riguardo alla capacità dell’ideologia di far
accettare e addirittura far assumere come proprie dal dominato le stesse
categorie del dominante. In questa rappresentazione culturale
l’emancipazione femminile non sarebbe la forza promotrice di un
mutamento strutturale dei rapporti di forza tra generi verso
un’eguaglianza di fatto ma soltanto il triste tentativo di assumerne il
ruolo di dominante, lasciandoli sostanzialmente immutati.
Questo
tipo di emancipazione, complice del perpetuarsi di rapporti di
disuguaglianza sociale ed economica, è poco più che niente. La lotta
femminista, per voler bene a se stessa, deve perciò essere
necessariamente anche lotta di classe, forzandosi a individuare quali
siano i reali nemici del proprio progetto emancipatore e abbandonando
una visione cieca e identitaria contro quei pochi ambienti che invece le
potrebbero essere i principali alleati.
* studentessa della magistrale di Storia all’Università di Pisa
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