Il recente libro di Valerio Martinelli illustra con chiarezza e rigore il dibattito che portò alla formulazione degli articoli della nostra Costituzione riguardanti il lavoro.i In un capitolo finale, l’autore mette in luce l’importanza delle politiche attive che aumentino le possibilità di trovare un lavoro attraverso la formazione professionale e la riqualificazione delle persone in cerca di occupazione. E’ convinzione dell’autore che “il lavoro come diritto, come dovere, come valore, deve riacquistare la sua centralità”.
Al lettore di questo
libro non sfuggirà la contraddizione tra la visione del lavoro espressa
nella nostra Costituzione e la visione che è alla base dei trattati e
degli accordi europei stipulati a partire dagli anni ’80.ii
Nella visione dei
padri costituenti, la politica ha il compito di perseguire la piena
occupazione in modo da garantire il diritto al lavoro e a una
retribuzione che permetta una vita libera e dignitosa. L’obiettivo della
piena occupazione rispecchia una visione fondamentalmente keynesiana:
nel caso di elevata disoccupazione il governo può e deve intervenire
aumentando la domanda aggregata mediante un’espansione della spesa
pubblica. L’aumento della domanda aggregata ha effetti moltiplicativi
che portano a un aumento del reddito nazionale e quindi delle imposte e
del risparmio che permettono di ripagare la manovra iniziale.
L’espansione della spesa pubblica si arresta una volta raggiunta la
piena occupazione.
Negli anni ‘50 e ’60
del secolo scorso le politiche keynesiane di sostengo alla domanda
aggregata ̶ insieme all’espansione di un welfare pubblico e
all’attuazione di politiche redistributive a favore dei redditi più
bassi ̶ avevano favorito ritmi di crescita economica molto elevati con
un conseguente aumento del numero di occupati. Alla fine degli anni ’60,
il tasso di disoccupazione aveva raggiunto livelli vicini alla piena
occupazione. I salari reali erano cresciuti sensibilmente. Il potere
contrattuale dei sindacati si era notevolmente rafforzato.
Dai primi anni ’70
il quadro economico muta radicalmente. Gli aumenti salariali e dei
prezzi delle materie prime portano a una crescita dei prezzi dei beni
finali, che a sua volta innesca nuovi aumenti salariali.
Il primo shock petrolifero del 1973,
oltre a provocare un’impennata dell’inflazione, determina un
rallentamento dell’attività produttiva e un aumento del numero dei
disoccupati. Le autorità di politica economica si trovano di fronte a un
nuovo fenomeno: la stagflazione, ossia la micidiale combinazione di
elevata inflazione e alta disoccupazione. La teoria keynesiana così
entra in crisi perché le politiche economiche keynesiane si dimostrano
incapaci di risolvere i problemi posti dalla stagflazione. Infatti, le
politiche keynesiane contro la disoccupazione, basate su un aumento
della spesa pubblica, avrebbero, comportato un aumento dei salari che
avrebbe inevitabilmente aggravato il problema dell’inflazione.
In quegli anni
ritornano in auge le teorie pre-keynesiane secondo le quali, per
regolare il ciclo economico sono sufficienti le politiche monetarie,
ossia le variazioni della quantità di moneta, mentre sono inefficaci e
nocive le politiche fiscali, come l’espansione della spesa pubblica.
L’intervento dello stato mediante le politiche fiscali è considerato
dannoso perché distorcere il funzionamento dei mercati. Alla fine degli
anni ’80, con la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi
comunisti in Europa, la teoria dello Stato minimo, sintetizzabile con lo
slogan “lo stato è il problema e il mercato è la soluzione”, si
rafforza dominando il dibattito economico.
La teoria dei mercati efficienti, che si autoregolano, si diffonde anche nei partiti della sinistra e nei sindacati.iii Prevale l’idea che le politiche keynesiane siano superate.
Dagli anni ‘80 in
poi la politica abbandona l’obiettivo della piena occupazione. Secondo
la visione che si diffonde nell’Unione Europea, la politica deve
limitarsi a garantire il funzionamento dei mercati e la stabilità dei
prezzi. Questa visione è alla base dello statuto della Banca Centrale
Europea secondo il quale l’unico obiettivo della BCE è la stabilità dei
prezzi. Inoltre si è stabilito che la BCE deve essere indipendente dai
governi, nel senso che non svolge il ruolo di prestatore di ultima
istanza.
Tuttavia la crisi
finanziaria globale scoppiata nel 2008 e la grave recessione che è
seguita portano a un profondo ripensamento. L’idea dei mercati
efficienti basata sull’ipotesi d’individui perfettamente razionali è
clamorosamente smentita dai fatti. Le vicende economiche degli ultimi
dieci anni dimostrano che le politiche keynesiane sono tuttora un
elemento fondamentale per combattere la recessione e ridurre la
disoccupazione.iv
Di fronte alle
conseguenze della crisi finanziaria del 2008, l’amministrazione Obama ha
aumentato la spesa pubblica fino ad arrivare al 12% di deficit sul PIL
(ben 4 volte il limite del 3% stabilito dal trattato di Maastricht). La
ripresa statunitense è stata più rapida (con un rientro del deficit) di
quella molto tardiva e anemica dell’Unione Europea costretta a
rispettare prima la regola del 3% di deficit massimo, poi addirittura la
norma sul fiscal compact che impone il pareggio di bilancio.
Questi vincoli,
stabiliti dall’Unione Europea, non sono una necessità, ma sono una
scelta politica. Tutto l’assetto istituzionale dell’Unione Europea
rispecchia la visione neoliberista tedesca ed è molto diverso da quello
giapponese e statunitense. La banca centrale negli Stati Uniti e in
Giappone non ha solo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, ma deve
tener conto anche dell’obiettivo dell’occupazione. Inoltre, le banche
centrali di questi due paesi garantiscono il pagamento del debito
mediante l’emissione di dollari e yen, impedendo così speculazioni sul
debito che possono innalzare i tassi d’interesse a livelli
insostenibili.
In concreto, quali sono le politiche economiche neoliberiste adottate nell’Eurozona?
Deregolamentazione, riduzione delle imposte sui redditi alti, il dumping
fiscale con accordi in alcuni casi segreti per non far pagare le
imposte alle grandi multinazionali, aumento della flessibilità, pareggio
di bilancio imposto per legge anche nei momenti più duri di una crisi
economica, divorzio della banca centrale dal governo, drastica riduzione
dei finanziamenti alla ricerca.
I risultati di queste politiche sono sotto gli occhi di tutti.
La
deregolamentazione è stata una delle cause principali dello scoppio
delle bolle finanziarie che hanno innescato la grande recessione.
La riduzione delle
imposte sui redditi alti ha aumentato le diseguaglianze. La stagnazione
dei redditi medio-bassi ha portato a un crescente ricorso
all’indebitamento che ha contribuito a gonfiare le bolle speculative.
Enormi sconti
fiscali alle multinazionali si traducono in una concorrenza sleale sui
prezzi di vendita a molte imprese commerciali nazionali che rischiano
per questo di chiudere con gravi effetti occupazionali.
Il divorzio tra la
banca centrale e il governo espone gli Stati a speculazioni sui titoli
di Stato che possono far impennare i tassi d’interesse sul debito
pubblico, provocando gravi crisi di insolvenza. Tutti ricorderanno il
problema dello spread tra il tasso d’interesse dei bond italiani e il tasso di interesse dei bond tedeschi.
Tra l’altro va detto
che negli anni ’80 il divorzio della Banca d’Italia dal governo è alla
base del forte aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato, che ha
determinato, a sua volta, a una notevole crescita del debito pubblico.
Quanto alla
flessibilità, studi dell’OCSE dimostrano che non c’è alcuna relazione
statistica significativa tra aumento della flessibilità del mercato del
lavoro, crescita economica e performance occupazionale.v
D’altra parte
l’esperienza italiana parla chiaro. Negli ultimi vent’anni in Italia si è
accresciuta notevolmente la flessibilità del lavoro, ma i risultati in
termini di riduzione della disoccupazione sono stati deludenti.
L’aumento della precarietà del lavoro dipendente riduce il costo del
lavoro, ma non aumenta la produttività e la qualità dei prodotti, che
sono invece i due fattori chiave sui quali puntare per aumentare la
competitività dell’industria manifatturiera italiana in modo da tenere
testa alla concorrenza dei paesi emergenti, che hanno vantaggi di costo
incomparabili e dei partner europei, come la Germania, che producono
beni di qualità ad alto valore aggiunto.
Il limite del 3 per cento di deficit rispetto al PIL e poi l’obbligo del pareggio di bilancio, sancito dal fiscal compact,
hanno comportato una persistente riduzione della spesa pubblica; in
poche parole, il governo ha incassato più di quanto a speso a causa
degli interessi sul debito.
Tale permanente
austerità ha avuto effetti depressivi sull’economia italiana. Le
politiche di austerità hanno notevolmente inasprito gli effetti
recessivi della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Queste politiche
hanno ottenuto l’effetto opposto rispetto all’obiettivo dichiarato dai
loro sostenitori.
Infatti, l’austerità
ha determinato un aumento, non una diminuzione, del rapporto debito/PIL
a causa della riduzione del PIL e un calo competitività internazionale
del nostro paese perché la riduzione dei volumi prodotti fa lievitare i
costi unitari a causa del maggior peso dei costi fissi. La riduzione dei
finanziamenti alla ricerca, perché visti come aiuti di stato che minano
la concorrenza, ha penalizzato la competitività delle imprese europee.
Negli Stati Uniti, come ha spiegato bene Mariana Mazzucato, la ricerca
ha ricevuto invece massici finanziamenti federali approvati anche dai
governi repubblicani.vi
La visione neoliberista adottata dall’Unione Europea sotto la leadership tedesca, non solo è in palese contraddizione con la nostra Costituzione,vii
ma ha portato a politiche economiche che hanno aggravato le conseguenze
della crisi, portando a un aumento della disoccupazione e del numero di
persone in condizioni di povertà.
Un risultato molto
preoccupante di queste politiche è che l’aumento dell’esclusione sociale
e del disagio economico induce un crescente di persone ad abbracciare
idee xenofobe e a individuare in chi sta peggio la causa dei loro mali.
ii Sul tema del conflitto tra la nostra Costituzione e i trattati europei si veda l’approfondita analisi di V. Giacché, Costituzione Italiana conto trattati Europei. Il conflitto inevitabile, Imprimatur Editore, Reggio Emilia, 2015.
iii In un’intervista apparsa su L’Espresso (11 aprile 2018), Fabrizio Barca racconta questo processo di conversione:
« … noi della sinistra – anche nel
Pci – sapevamo benissimo che il “socialismo reale” non era il modello
giusto per liberare le persone. Eppure dopo la caduta del Muro abbiamo
pensato che fosse finito tutto quello in cui avevamo creduto:
l’avanzamento sociale, la lotta contro le disuguaglianze,
l’emancipazione delle classi deboli. Abbiamo pensato … che la vittoria
del neoliberismo fosse definitiva. C’è stato un totale ripudio del
passato e un’adesione interiore al neoliberismo. Un’intera generazione
di sinistra – la mia – dopo il 1989 si è convinta che i suoi ideali di
uguaglianza fossero una sorta di romantico errore di gioventù…»
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/04/11/news/fabrizio-barca-sinistra-suicidio-1.320464.
iv Si veda al riguardo l’interessante libro di W. Mitchell e T. Fazi, Reclaiming the State. A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World, Pluto Press, Londra, 2017.
v OCSE-OECD, “Short-term labour market effects of structural reforms: Pain before the gain?”, Employment Outlook, 2016; si veda anche A. Kleinknecht et al., “Is flexible labour good for innovation? Evidence from firm-level data”, Cambridge Journal of Economics, vol. 38, pp. 1207-19.
vii Sulle
ragioni che hanno indotto i governi dell’Eurozona ad adottare politiche
di austerità e sugli effetti di queste politiche, si rinvia al primo
capitolo del mio libro Nulla è come appare. Dialoghi sulle verità sommerse della crisi economica, Imprimatur Editore, Reggio Emilia, 2016.
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