Non esiste più una “questione ebraica”, quella di cui parlava Karl Marx, a metà degli anni Quaranta, del secolo XIX. Ed è riduttivo parlare oggi di una “questione palestinese”, alludendo a una situazione che va chiamata col suo nome: l’ultimo esempio di oppressione coloniale, praticata, al di fuori di ogni legalità, da un avamposto euro-americano in Medio Oriente. Ed è ora di dire, a gran voce, basta!
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micromega Angelo d'Orsi*
Basta al ricatto dell’antisemitismo, l’accusa sfoderata ad ogni
occasione dagli israeliani e dalle loro infinite estensioni mondiali, a
cominciare dalle Comunità ebraiche sono ormai compiuta espressione,
megafoni dei governi di Israele. È ora di smentire la narrazione
corrente che vede lo Stato nato ai danni dei palestinesi nel maggio
1948, come un riflesso della Shoah, ossia un risarcimento allo sterminio
di milioni di ebrei da parte dei nazisti. È ora, piuttosto, di fare un
ripasso di storia, invece che un bagno di lacrime, che possono essere
false e capziose, come aveva accusato Norman Finkelstein rivolta ad una
studentessa che si era messa a piagnucolare mentre lui denunciava la
politica israeliana: lui, ebreo, con i familiari sterminati in un lager,
sul quale, in modo scientifico, è ricaduta l’accusa di “ebreo
antisemita”, appena ha cominciato a denunciare “l’industria
dell’olocausto”.
Ebbene il ripasso di storia ci dice che il sionismo precede la
Shoah, ci dice che il destino dei palestinesi fu deciso nel 1916-17,
dalla Gran Bretagna, prima con gli accordi segreti con la Francia, detti
di Sykes-Picott, quando le due potenze imperialistiche si spartirono
l’intera regione mediorientale, prendendosi il Regno Unito, appunto, la
Palestina, la Francia, per esempio, la Siria (donde l’attenzione che da
Sarkozy a Hollande fino al bellimbusto Macron, dedicano a quella
nazione, per tenerla sotto controllo). L’anno successivo, il terribile e
grandioso 1917, vide la famosa Dichiarazione Balfour, dal nome del
ministro degli Esteri di Sua Maestà Britannica, nella quale, anche sulla
base della fortunata predicazione sionistica precedente, veniva
riconosciuto il principio di una “jewish home” in Palestina: “un
focolare ebraico”. Nella dichiarazione si alludeva comunque alla
necessità di salvaguardare i diritti delle popolazioni arabe
preesistenti. Quei diritti finirono invece immediatamente nel
dimenticatoio grazie a Hitler, e alla “soluzione finale”. La
persecuzione nazista ha trasformato un intero popolo in vittima
sacrificale, e questo, nel complice silenzio del mondo, negli anni della
guerra mondiale, ha prodotto l’agghiacciante esito di trasformare
quelle vittime in carnefici.
Con troppa facilità le Nazioni Unite, Urss compresa, riconobbero
nel 1948 lo Stato di Israele, dopo una campagna di terrore portata
avanti da gruppi ebraici in Palestina, alcuni inquadrati nelle forze
armate britanniche, compresa quella “Brigata ebraica” che da qualche
tempo si ridesta il XXV Aprile, pretendendo di partecipare alle
manifestazioni, millantando un proprio ruolo determinante nella guerra
di liberazione. Una Brigata che fu poi tra i protagonisti di quel
sistematico tentativo di “pulizia etnica” ai danni dei palestinesi, come
ha documentato, inoppugnabilmente, un altro intellettuale ebreo,
israeliano, Ilan Pappe, costretto poi a lasciare la sua università
(Haifa) e a trasferirsi in Gran Bretagna, dopo che intorno a lui –
“ebreo antisemita”, naturalmente – si era fatta terra bruciata.
Da allora, da quel maggio 1948, Israele ha compiuto una costante
politica di allargamento dei propri confini semplicemente con la forza
del proprio esercito, e con l’aiuto decisivo degli Usa, sia delle
amministrazioni sia delle lobbies ebraiche, determinanti nelle campagne
elettorali statunitensi, in specie in quelle presidenziali. Davanti a
loro, un mondo arabo frantumato, disorganizzato, con mezzi militari
modesti e male gestiti, al quale peraltro della causa del popolo
palestinese poco o nulla importa.
Alla fine lo spazio territoriale odierno israeliano è il doppio di
quello di settant’anni or sono. Uno spazio acquisito illegalmente, dopo
la prima acquisizione ottenuta con la violenza. Ma non è bastato. Mentre
si facevano entrare ebrei di ogni parte del mondo, secondo un
inquietante criterio etnico-religioso, per cercare di rafforzare una
popolazione dai modesti tassi di natalità, si procedeva agli
insediamenti di molti di costoro nelle zone, sempre più esigue, concesse
ai palestinesi, che a un ceto punto furono violentate dalla costruzione
del muro della vergogna, altra azione (e opera) illegale, ma tollerata
dalle Nazioni Unite che pure ne hanno “deplorato” l’edificazione. Le
oltre 70 risoluzioni dell’Onu contro atti dei governi israeliani non
hanno sortito alcun effetto, e i governanti di Tel Aviv non si prendono
neppure la briga di replicare ormai, giudicando, non a torto, quello
delle Nazioni Unite, un rituale privo di valore.
L’operazione “Margine protettivo” dell’estate 2014 è già quasi
dimenticata, ma non dagli abitanti di Gaza, che hanno pagato un prezzo
altissimo, in termini di vite, di sofferenza, di distruzione. Quali
conseguenze ebbe quell’efferata azione durata tre settimane ai danni di
Gaza? Nessuna. Israele si sta occupando della “ricostruzione”,
arrivando, col massimo del cinismo, a lucrare anche sulle morti e sulle
devastazioni da essa procurate.
E ora da settimane la protesta palestinese nella marcia del
ritorno, che è culminata, dopo uno stillicidio di morti e di mutilati
tra i giovani e giovanissimi (per ammissione di un generale israeliano i
cecchini hanno l’ordine di sparare alle gambe, per far sì che i ragazzi
perdano la possibilità di esser offensivi, e sono decine ormai coloro
che hanno perso uno o entrambi gli arti inferiori), siamo giunti
all’Armageddon: Trump e famiglia si recano a Gerusalemme, per sancire in
una giornata dichiarata di festa, il trasferimento dell’ambasciata da
Tel Aviv, mentre l’esercito “più morale del mondo” spara ad alzo zero:
donne ragazzi bambini, vecchi; gente pacifica e militanti che gridano il
loro diritto al ritorno. Fotografi e giornalisti, anche occidentali,
sono stati colpiti. La fondazione di Israele non poteva trovare migliore
sanzione. Uno Stato nato dalla violenza estrema, si autocelebra con la
medesima violenza, moltiplicata; e due carnefici, Trump e Netanhyahu
gongolano.
Il trasferimento dell’Ambasciata è un atto illegale che accetta e
santifica un altro atto illegale: la dichiarazione di Gerusalemme
“capitale unica eterna e indivisibile di Israele”. E il mondo cristiano
si lascia scippare così una città sacra? E tutti i paesi arabi e
islamici, a loro volta? Gli ebrei israeliani dettano legge, con l’orso
americano alle spalle, e tutti piegano la testa. Ma chiediamoci se si
possa ancora tollerare tutto questo.
Si può tollerare quello che sta accadendo? Si può tollerare che uno
degli eserciti più potenti del mondo compia, indisturbato, un terribile
massacro di gente inerme o armata forse di fionde e copertoni
incendiati? Si può tollerare che un popolo, quello palestinese, privato
della terra, dei beni, della memoria, della libertà, venga non solo
schiacciato e oppresso, ma sterminato? Si può tollerare che i resistenti
palestinesi che vogliono ritornare sulle terre a loro sottratte con la
violenza e l’inganno, vengano bollati come “terroristi” e schiacciati
come scarafaggi (espressione ricorrente fra gli ebrei israeliani che si
riferiscono ai palestinesi di Gaza)? Si può tollerare che Israele violi
ogni legge internazionale, che usi armi proibite agli altri Stati, che
sfrutti l’Olocausto per legittimare il lento sterminio di un altro
popolo? Si può tollerare che chi denuncia tutto questo venga chiamato
“antisemita” e minacciato di sanzioni anche penali, in tutta Europa?
Si può tollerare il silenzio della “comunità internazionale”,
davanti all’ultima spaventosa ondata di morti e feriti e mutilati, è
diventato, infine, un timoroso belato di pseudo-protesta? Si può
tollerare che i governanti di Israele, sostenuti dall’Amministrazione
Usa, in un sfacciato gioco delle parti tra Netanhyau e Trump, sfidino il
resto del mondo? Si può tollerare tutto questo carico di infamia,
d’ingiustizia, di prepotenza contro il popolo oggi martire per
antonomasia, quello palestinese? Quanti morti, quanti mutilati, quanti
derubati dei loro beni e delle loro case, quanti internati in campi di
concentramento dobbiamo ancora accettare, tra i palestinesi, quanti
ulivi sradicati, quante case rase al suolo dai caterpillar, per dar vita
a una azione internazionale, di popoli e di nazioni, contro Israele?
Un’azione che non dovrebbe “rinunciare a nessuna opzione”, come amano
dire i governanti israeliani, quando enunciano il proprio diritto/dovere
di “difendere Israele”, in tutto il mondo, anche contro tutto il mondo.
Ma il mondo, che fa? Non è tempo, infine, che gridi il suo “Basta!”?
* da “Alganews”
(16 maggio 2018)
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