Il
lavoro nel novecento si era iscritto in una contraddizione che le
istituzioni della società industriale si sono impegnate a governare non
senza far registrare straordinari effetti emancipativi. Da un lato il
lavoro circoscriveva lo spazio dello sfruttamento e della
eterodirezione, dall'altro, lo spazio della costruzione della
solidarietà sociale e dalla fuoriuscita dalla miseria. È nello spazio
dialettico di questa contraddizione che si è prodotto lo sviluppo
economico-sociale di quel periodo. Il portato della gestione di questo
rapporto è stato infatti lo sviluppo di forme avanzate di protezione e
assicurazione sociale; la nascita cioè di sistemi di welfare e una
redistribuzione della ricchezza capaci di contrastare la diseguaglianza
che il capitalismo, se lasciato funzionare senza freni, produce
inesorabilmente.
Il
lavoro ha svolto in questo processo una funzione fondamentale. È
infatti a partire dalla organizzazione collettiva e solidaristica del
lavoro che si è trovata la forza politica di contrattare e realizzare
l'orizzonte della sicurezza sociale fordista. L'esito di questa
progettazione è stata cioè il frutto dei conflitti e delle lotte che la
classe lavoratrice ha durante il '900 avuto la forza di muovere contro
la "cupidigia" (permettetemi questo riferimento a Marx vista la
celebrazione per il suo bicentenario) della classe proprietaria e che ha
permesso di scrivere alcuni diritti sociali fondamentali, diritti che
parevano acquisiti per sempre. Dico parevano perché l'umiliazione e il
ricatto del lavoro che abbiamo oggi sotto gli occhi hanno prodotto un
arretramento che apre davanti a noi un periodo di "incertezze
crescenti".
Dobbiamo
accettare il fatto che il lavoro così come lo abbiamo conosciuto in
passato non esiste più. Globalizzazione e dominio neoliberale dei
mercati, processi di automazione di quarta generazione, debolezza delle
organizzazioni di rappresentanza del lavoro, e tanto altro ancora, hanno
tolto al lavoro quella centralità nella produzione della identità
sociale che abbiamo appena descritto. Come trasformare allora quella che
sembra diventare una drammatica tragedia collettiva?
La
soluzione a mio avviso c'è. Ma bisogna avere il coraggio di lasciare
andare la nostalgia che tutti noi proviamo nei confronti del lavoro
salariato. Questa opportunità si chiama reddito di base incondizionato
(da distribuire a tutti coloro che vivono al di sotto della soglia di
povertà relativa). La credenza diffusa che questo dispositivo possa
indurre passività sociale o che non ci siano le risorse economiche per
sostenerne l'applicazione è al limite del risibile.
Basterebbe
andarsi a vedere quanta ricchezza pubblica è stata spesa in tutto il
mondo per salvare le banche o per finanziare negli ultimi anni programmi
di "workfare" totalmente inutili. Inoltre è inconcepibile oggi non
provare a realizzare nuovi e più efficaci regimi di fiscalità capaci di
distribuire la ricchezza prodotta e attraverso le spropositate rendite
finanziarie e dallo sfruttamento incessante della "operosità sociale". È
doveroso, in altre parole, trovare risorse per remunerare chi oggi
produce valore a profitto di imprese che si arricchiscono attraverso
internet e i preziosismi "dati" (pensate ad esempio allo
scandalo di Cambridge Analytica) che ciascuno di noi produce ogni giorno.
Il
reddito di base, oltre a contrastare le sempre più drammatiche
condizioni di povertà, avrebbe soprattutto, a parere di chi scrive, la
funzione di sostenere la progettazione sociale di un lavoro, o di una
attività cooperativa sociale, capace di ricucire lo strappo tra progetto
individuale e progetto collettivo cui oggi drammaticamente assistiamo.
Il reddito di base fornirebbe il sostegno per progettare percorsi di
inserimento sociale adeguati ai tempi. Percorsi in cui la formazione e
la sperimentazione, l'innovazione sociale e culturale devono poter
tornare a giocare un ruolo da assoluti protagonisti.
Propongo
dunque di pensare il lavoro del futuro, contro la precarietà e le
sempre più diffuse prestazioni professionali gratuite o semi gratuite,
come a uno spazio che accolga la scommessa di una nuova e collettiva
progettazione sociale, dove non trova alloggio il timore verso le nuove
tecnologie automatiche ma anzi potendo contare su di esse come alleate
per diminuire l'impatto della produzione sull'ecosistema, la
diseguaglianza sociale e la brutale fatica mentale e muscolare del nuovo
lavoro salariato. Affinché questo sia possibile è però necessario che
il lavoro trovi oggi un nuovo alleato nel dispositivo del reddito di
base. A partire da questa alleanza, tanto spregiudicata quanto a mio
avviso irrinunciabile, potremo tornare a riscrivere il legame sociale
che si sta sgretolando sotto i nostri attoniti occhi.
(
Questo
post di Fondazione G. Feltrinelli è a cura di Federico Chicchi,
Professore Associato presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto
dell'Economia, dell'Università di Bologn
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