Sullo sfondo della crisi ci sono le nomine: il nuovo vertice del salvadanaio di Stato. Il presidente uscente, Costamagna, sta usando la carta Telecom per farsi riconfermare approfittando del vuoto a Palazzo Chigi.
L’ultima volta che Telecom Italia fu sul punto di mettere in vendita la rete, cioè i cavi che trasportano voce e dati, ci fu un mezzo terremoto politico. A Roma, nei palazzi del potere, si gridò ai barbari alle porte (il magnate australiano Rupert Murdoch) e alla fine non se ne fece niente. Correva l’anno 2006, mese di settembre, e per non restare con il cerino acceso in mano, Marco Tronchetti Provera, all’epoca azionista di controllo dell’azienda telefonica, avviò una ritirata strategica con l’aiuto delle banche amiche, Mediobanca e Intesa. Ora siamo daccapo, ma questa volta l’azionista straniero, un fondo come Elliot che legittimamente fa della speculazione la sua ragion d’essere, viene accolto come il salvatore della patria, anzi di Telecom, minacciata dalle oscure manovre di Vivendi, il gruppo francese guidato da Vincent Bolloré, descritto, lui sì, come un finanziere rapace che più rapace non si può.
I barbari alle porte, quindi. Proprio come 12 anni fa. Questa volta però è andata a finire diversamente. L’assist decisivo per la vittoria di Elliot è arrivato dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), la holding di Stato, controllata all’83 per cento dal ministero dell’Economia, che nell’assemblea di venerdì 4 maggio ha votato a favore della lista di consiglieri d’amministrazione presentata dal fondo americano. Il dado è tratto. Cdp ha usato soldi pubblici, nella fattispecie il risparmio postale, per salvare quello che viene descritto come un asset di rilevanza strategica per il Paese, cioè la rete di Telecom. E per l’occasione la Cassa si è messa in società con un investitore come Elliot, che di norma punta a un guadagno di breve termine e per questo vede con favore la vendita dei pezzi migliori delle aziende su cui scommette. Insomma, il primo azionista, con una quota del 10 per cento circa, dell’ex monopolista telefonico è un fondo speculativo, un hedge fund, un fondo avvoltoio, per usare il linguaggio dei suoi numerosi detrattori, anche se in questi giorni si è conquistata spazio nelle cronache dei giornali la rassicurante definizione di “fondo attivista”.
Il fatto più sorprendente dell’intera vicenda è però un altro. Dopo anni di stucchevole dibattito sul ritorno dello “Stato padrone”, il ribaltone è andato in scena nel pieno di una crisi politica, con un governo depotenziato e il virtuale via libera di tutte le maggiori forze politiche. Carlo Calenda ministro uscente, targato Pd, dello Sviluppo Economico, ha salutato addirittura la nascita di una public company con il marchio di Telecom Italia, di recente ribattezzata Tim. Silente Silvio Berlusconi, ben contento di mettere in difficoltà il suo ex alleato Bolloré che tanti problemi gli ha dato in Mediaset. Senza contare, guarda un po’ la coincidenza, che Elliot è lo stesso fondo che, finanziando l’acquirente cinese, gli ha permesso di liberarsi del Milan, fonte inesauribile di perdite. Cinque Stelle e Lega, invece, pur di promuovere le buone ragioni del sovranismo e dello Stato interventista, hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte all’identità del nuovo alleato di Cdp, un fondo targato Wall Street, espressione di quella finanza rapace che è da sempre uno dei loro bersagli polemici preferiti.
Dietro questo gioco delle parti, all’ombra di un muro di dichiarazioni di circostanza che nascondono i reali obiettivi delle varie parti in causa, si snoda un intreccio di potere che ci riporta molto indietro nel tempo. Curiosamente, l’anello di congiunzione tra i fatti di questi giorni e la vicenda di 12 anni fa, quella della Telecom di Tronchetti, porta il nome di Claudio Costamagna, l’ex banchiere d’affari che dal 2015 siede sulla poltrona di presidente di Cdp. Costamagna, 62 anni, è un professionista di grande esperienza, che ha coltivato amicizie e alleanze trasversali sin da quando, ormai due decenni fa, era uno dei top manager europei della più famosa banca d’affari Usa, la Goldman Sachs.
Nel 2006 il futuro presidente di Cdp si trovò a interpretare il ruolo di consulente di Murdoch nelle trattative con Tronchetti, mentre allo stesso tempo era accreditato di ottimi rapporti con l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi. Rapporti stretti a tal punto che Costamagna fece da testimone di nozze, insieme a Prodi, di Angelo Rovati, il consulente che aveva recapitato al patron di Telecom il progetto di separazione e vendita della rete, con lo Stato pronto a rilevarne il controllo. «Non sapevo niente di quel piano», ha sempre ribattuto il banchiere ex Goldman Sachs a chi all’epoca fece maliziosamente notare un suo potenziale conflitto d’interessi.
A distanza di 12 anni, va in scena un copione molto simile. Cambiano gli attori, salvo uno, Costamagna, che questa volta sembra avere carte migliori da giocare. Cdp già partecipa, al 50 per cento insieme a Enel, alla società Open Fiber, che sfruttando la copertura capillare della rete elettrica punta a creare un’infrastruttura, la più estesa possibile, in fibra ottica per telecomunicazioni. L’unione della rete Telecom con quella messa a disposizione dalla Cassa e dal suo alleato finirebbe per consegnare alla mano pubblica il controllo di un asset strategico per le telecomunicazioni nostrane. Questo è l’obiettivo finale di un progetto che si trova solo alle battute iniziali e appare esposto a molteplici incognite. A cominciare dagli interrogativi sul ruolo che vorrà giocare Elliot, per sua natura orientato a far cassa nel più breve tempo possibile.
Intanto però Costamagna ha già centrato un primo obiettivo importante. Ha portato Cdp al centro dei giochi, cogliendo al volo l’occasione, pressoché irripetibile, offerta dal consenso unanime dei partiti. E siccome, almeno nell’immediato, appare improbabile che in Parlamento si formi una effettiva maggioranza politica, il presidente della Cassa potrà giocare al meglio la carta Telecom per spuntare il rinnovo del suo mandato al vertice.
La nomina è all’ordine del giorno dell’assemblea di Cdp del 23 maggio, ma è probabile che si vada in seconda convocazione al 20 giugno. Al momento c’è nebbia fitta su quali saranno gli orientamenti del governo in carica tra 40 giorni. Costamagna però può già contare su un alleato di peso come il presidente di Cariplo, Giuseppe Guzzetti, la voce più autorevole del mondo delle fondazioni bancarie, che controllano circa il 13 per cento del capitale della Cassa. L’intramontabile Guzzetti, 83 anni, ha già fatto filtrare l’intenzione di appoggiare la candidatura dell’ex banchiere di Goldman Sachs con cui, ha detto, «abbiamo un antichissimo rapporto». Ecco un esempio. Già nel 2006 (ancora il 2006) Cariplo diede a Costamagna un incarico per valutare la congruità dei valori di concambio in vista della fusione tra Banca Intesa, di cui la fondazione milanese era grande azionista, e il SanPaolo di Torino.
L’impressione è che la partita della riconferma al vertice di Cdp si sia giocata più che altro sul banco di Telecom. E mentre l’amministratore delegato Fabio Gallia sembra destinato ad altro incarico, il presidente Costamagna è pronto a passare all’incasso della vittoriosa campagna che ha portato alla defenestrazione di Bolloré. Così, mentre si celebra il nuovo corso del gruppo telefonico e l’inedita alleanza tra un fondo speculativo e una società che investe denaro pubblico, resta sullo sfondo, complice anche l’assenza della politica, la questione forse più importante di tutte. E cioè quale sia la missione da affidare alla Cdp. C’è chi vorrebbe trasformarla in un nuovo Iri, una holding al servizio di un nuovo capitalismo di Stato. Sarebbe un’inversione a u rispetto alla tradizionale politica delle privatizzazioni.
Del resto la trasformazione della vecchia Cassa in qualcosa di molto diverso è già stata avviata da tempo. Per accorgersene basta dare un’occhiata ai conti del gruppo presieduto da Costamagna. Nell’arco degli ultimi otto anni l’attivo di bilancio è più che raddoppiato, superando quota 400 miliardi. Buona parte dei profitti del 2017, pari a 2,9 miliardi, dipende però ancora dalla rivalutazione delle due partecipazioni più importanti in portafoglio, Eni e Poste, mentre altre acquisizioni, come Saipem, Ansaldo Energia, Trevi, hanno fin qui dato risultati deludenti.
In pratica, il raggio di attività di Cdp, che è finanziata principalmente dal risparmio raccolto negli uffici postali, si è via via ampliato sovrapponendo funzioni di interesse pubblico con investimenti, spesso a fianco di soggetti privati, nei più disparati settori. In alcuni casi l’intervento è servito ad alleggerire il deficit pubblico: la Cassa si è fatta carico di quote in società a partecipazione statale. Oppure ha avuto un ruolo in cosiddette operazioni di sistema, per scongiurare possibili salassi a carico del bilancio pubblico. Cdp è così intervenuta per sottoscrivere quote del Fondo Atlante, nato con l’obiettivo di salvare dal disastro Popolare Vicenza e Veneto Banca. È finita male, come noto. Il crac delle due banche è comunque arrivato e lo Stato ha dovuto accollarsi perdite fino a 17 miliardi per finanziare il salvataggio affidato a Intesa.
Intanto però i 400 milioni investiti nel 2015 su Atlante dalla Cassa presieduta da Costamagna sono andati interamente in fumo. Adesso, dopo il blitz vincente su Telecom c’è chi chiede un intervento anche per risolvere la crisi di Alitalia. Come dire che il denaro raccolto agli sportelli postali fornirebbe le risorse per salvare aziende decotte. Niente di male, in teoria. Basterebbe che qualcuno lo spiegasse con chiarezza ai risparmiatori. Se solo ci fosse un governo.
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