lunedì 7 maggio 2018

Mattarella prepara un “governo neutrale”; vita breve, ma “decidano i partiti”.

Adelante, al voto! Con juicio…

Sergio Mattarella ha interpretato nel modo più notarile e formale possibile il suo ruolo costituzionale. Di fronte all’impossibilità di formare un governo “politico” per i veti incrociati di grillini, lega, Pd e Berlusconi, il presidente della Repubblica ha tirato fuori l’idea del “governo di garanzia”.
Un governo – ha precisato – con l’incarico specifico di traghettare il paese verso nuove elezioni, in modo “neutrale” e composto di personalità che giurino di non candidarsi alla fine del mandato. Questa, in effetti, è una novità. E anche il segno del punto di putrefazione della situazione politica.

Mattarella ha lasciato ai tre partiti la decisione riguardo alla durata di questo governo. Possono scegliere di andare a luglio (“ma sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica e renderebbe complicato il libero esercizio del voto”); ma sarebbe una iattura anche perché in giugno l’Italia sarebbe pressoché inesistente nella discussione europea sulla Ue “a due velocità”, con decisioni che saranno poi vincolanti su redistribuzione dei migranti sul continente, moneta unica (e possibili forme di politiche ancora economiche più stringenti), bilancio europeo che varrà per i prossimi sette anni.
Possono certamente decidere di andare al voto “ad inizio autunno”, ma Mattarella segnala che in questo modo si andrebbe all’esercizio provvisorio, con annesso aumento dell’Iva (una delle principali “clausole di salvaguardia” messa a garanzia da possibili sforamenti del deficit pubblico, dagli effetti ampiamente “recessivi”) e altrettanto inevitabili assalti della “speculazione finanziaria sui mercati”.
Oppure – e questa è l’ipotesi largamente preferita e suggerita ai tre partiti – arrivare a fine dicembre, approvare la legge di stabilità e quindi far dimettere il “governo di garanzia” per andare a nuove elezioni.
Con la sagacia del vecchio democristiano, Mattarella ha presentato questa dilatazione dei tempi come un’occasione per le tre forze politiche di “raggiungere accordi per la formazione di un governo politico”. Della serie: due mesi non vi sono bastati, ma ve ne posso concedere altri sette. Unica condizione: lasciate governare un mio esecutivo, di cui garantisco io l’uscita di scena quando e se vi sarete messi d’accordo. Non serve neanche votare la fiducia, perché potrebbe andare avanti come governo dimissionario – come quello Gentiloni, che però rappresenta una maggioranza parlamentare che non esiste più.

Per Lega e M5S, in particolare, può essere la sirena per far loro digerire – se non un suicida voto di fiducia – la sopravvivenza tranquilla di questo “governo di garanzia”, una sorta di infermiere dal passo felpato che si toglierebbe dai piedi non appena il malato si sente in condizione di alzarsi dal letto e camminare.
Manca il nome del premier provvisorio, ma non è questo che angoscerà Berlusconi, Salvini, Di Maio e Renzi. Di certo, dal suo cappello uscirà fuori una figura sufficientemente incolore da non far sentire oscurato nessuno di loro.
La palla resta dunque – persino correttamente, dal punto di vista costituzionale – ai partiti. Che però non sono tali (tranne forse, in qualche misura, la Lega) e vivono tutta la crisi della “politica” da quando le decisioni fondamentali riguardanti la vita e il futuro del paese sono prese altrove. A Bruxelles, Francoforte, Washington, nelle borse o nelle sedi dei fondi speculativi. Dappertutto, insomma, meno che a Palazzo Chigi.
La portata della partita è questa. E fanno sinceramente ridere quei “sinistri” che ancora consultano gli aruspici per “combinare” un contenitore elettorale per salvaguardare, in fondo, soltanto se stessi. L’unica forza credibile per provare a rappresentare con la dovuta coerenza gli interessi di classe è Potere al Popolo. Qualsiasi altra “pensata” è una barzelletta scaduta, come quelle berlusconiane.

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