Procediamo spediti e nonostante la nebbia vediamo chiaramente il gigantesco iceberg che si staglia lungo la nostra rotta. Ma, come il capitano che nella canzone di De Gregori tranquillizzava il suo mozzo, le classi dirigenti continuano a darci pacche sulle spalle per convincerci del fatto che tutto va bene. Si intitola Titanic l’ultimo libro di Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di Relazioni Internazionali nella facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano. Lo ha scritto, racconta, per tentare di dare una sveglia a tutti i mozzi che si accontentano degli inviti ad andare “avanti tranquillamente” e per stimolare un dibattito in grado di partorire un “paradigma nuovo” che possa scardinare quella corrente dominante di idee – basate sul capitalismo finanziario fine a se stesso – lungo la quale l’imbarcazione procede inevitabilmente contro il mostro di ghiaccio.


A partire dagli anni ’80, scrive Parsi, l’ordine internazionale liberale è stato “progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale e il vascello sul quale l’Occidente si era imbarcato dopo la fine della seconda guerra mondiale è stato portato fuori rotta. Su questa rotta, diversa e molto più pericolosa, si staglia minaccioso un iceberg”. Che ha 4 facce: “la crisi della leadership americana e l’emergere delle potenze autoritarie in Russia e Cina”, la polverizzazione della minaccia jihadista, la deriva revisionista degli Stati Uniti e l’affaticamento delle “democrazie schiacciate tra populismo e tecnocrazia”.
Se volesse l’Unione Europea, spiega il docente, potrebbe avere un ruolo decisivo nel riportare il fragile naviglio sulla rotta originaria. Ma davvero questa Europa è nelle condizioni di ristabilire il necessario equilibrio tra la democrazia politica e l’economia di mercato? Con la capacità decisionale della Commissione ripetutamente ridimensionata dal Consiglio Europeo, con le decisioni più importanti che vengono prese a livello intergovernativo, come nel caso dell’Efsf e dell’Esm creati per fronteggiare le crisi dei Pigs, e con altre semplicemente disattese da alcuni Stati come nel caso del mancato ricollocamento dei migranti?
“Il problema non è se l’Ue sia unita o meno – spiega Parsi – ma quali idee ci dovrebbero essere alla base di questa coesione. La prima cosa da stabilire è un’agenda, perché se anche l’Europa fosse più unita ma continuasse con le sue politiche neoliberali che non tutelano il lavoro e i diritti sociali, continuerebbe a conoscere questa forte crisi di fiducia che la affligge ormai da anni. Per fare un esempio, tutta la terapia d’urto cui è stata sottoposta la Grecia è basata su un errore di calcolo di un logaritmo già portato alla luce nel 2014. Eppure si continua ad andare avanti con la balla del rigore. E nessuno ha mai chiesto scusa ai greci. Se si decidesse di riprendere la strada che porta a un bilanciamento tra solidarietà e produttività, allora esisterebbe un motivo per sostenere questa Unione”.
La realtà, però, al momento è diversa. “L’Europa è divisa tra Paesi del Nord e Paesi del Sud. Se la Germania pare più disponibile a rivedere non tanto i conti ma l’impianto filosofico delle politiche neoliberali, Macron è un assertore convintissimo di quest’ultime. Ecco, le difficoltà delle istituzioni di Bruxelles aumentano quando le politiche sono divergenti”. “L’unica possibilità di riequilibrare il sistema internazionale, in cui c’è uno scollamento totale tra sistema economico e sistema politico, e di evitare che questa nave vada a schiantarsi a velocità folle contro un iceberg è che l’Europa cambi. Ed è l’unica possibilità che esiste, perché né Cina, né Russia, né questi Stati Uniti sono interessati a un cambio di paradigma”.
La lezione però l’Europa poteva impararla dopo la crisi esplosa nel 2007, dalla quale il continente si sta faticosamente riavendo solo ora. Perché non lo ha fatto? “Perché non ci siamo posti le domande giuste – prosegue il docente – siamo all’interno di un’ortodossia: anche dopo lo scoppio della crisi siamo rimasti convinti che, come teorizzato negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, la terapia fosse ‘meno Stato e meno regole’ e oggi siamo ancora convinti che la formula per uscire dalla crisi sia ‘più austerità‘”. Né le classi dirigenti hanno saputo interpretare questa necessità di cambiamento: “Hillary Clinton ha perso le elezioni perché andava in giro dicendo che dopo la crisi si sarebbe potuti tornare ai ‘good ol’ times‘ (i bei vecchi tempi, ndr) e i risultato è stato che uno come Donald Trump, che è il più incredibile tra i vendicatori del popolo che si possano immaginare, è stato eletto con i voti dei redneck, degli operai e della classe lavoratrice perché se non altro diceva che qualcosa non andava”.
E’ da questo ‘qualcosa che non va’ che bisogna ripartire: occorre cominciare a dire che il re è nudo. “Serve un paradigma nuovo. C’è un conformismo che in Italia è particolarmente forte e che impedisce l’articolazione di una discussione che si fondi su basi diverse da quelle che ci hanno fatto vedere fino a oggi come panacea per tutti i mali. Quello che provo a fare con questo libro è indicare la necessità di alimentare un dibattito pubblico, per provare a vedere le cose in maniera diversa. Dobbiamo provare a costruire scaffali di idee nuove per rinnovare e alimentare il dibattito. Se ci si prova, si riesce a individuare una nuova chiave di lettura del problema e a indicare possibili soluzioni. Se si continua a guardare il problema dalla stessa prospettiva dominante le soluzioni sono sempre le stesse: distruzione dei diritti e precarizzazione del lavoro“.
Per fare questo però, conclude Parsi, “bisogna scardinare il pensiero semplice, che è la mamma dei vari Renzi, Di Maio, Salvini e Berlusconi. L’idea, cioè, che alla complessità della realtà si possano contrapporre ricette facili, che le cose siano semplici nei loro rapporti di causa-effetto. Le cose non sono mai semplici, nessun fenomeno sociale lo è. Un conto è dare una spiegazione comprensibile di ciò che accade, un conto è vendere l’illusione che risolvere i problemi sia semplice”.