L’idea
stessa di crisi è qualcosa di controverso. Infatti a volte si usa la
parola crisi quando non si sa come descrivere un fenomeno.
Eppure quello che stiamo vedendo dal 4 marzo ad oggi è proprio crisi anzi, una sovrapposizione di crisi. Un filo conduttore delle cronache di queste settimane è sicuramente la crisi della rappresentanza,
un fenomeno che ha fatto capolino già alla fine degli anni settanta e
che ha finito per erodere le fondamenta stesse dei partiti della
repubblica.
Tanto
che tutti gli attori che si sono imbarcati nei tentativi di ingegneria
elettorale, che sono emersi già dalla fine degli anni ‘80, hanno sempre
provato a risolvere la crisi della rappresentanza a modo loro. Ovvero,
non potendo più materialmente rappresentare gli interessi della società,
tentando di costruire architetture elettorali che concentravano potere
nelle mani di pochi. Cercando così di evitare di dover cercare consensi
nella società erogando posti di lavoro, servizi, strutture che, già
allora, non potevano essere distribuiti con le risorse a disposizione
del decennio precedente. Tutto questo florilegio di leggi elettorali, di
killer application del voto, ha, dalla fine degli anni ‘80, sempre
avuto una logica:
costruire dispositivi di voto per concentrare potere nelle mani di
pochi per risparmiare, in tutti i sensi, sulla ricerca del consenso in
una platea vasta della società.
Così
quando, come in questi giorni emerge, da tutti gli attori in campo, il
linguaggio del “chi ha vinto le elezioni deve governare” si vedono i
frutti odierni della crisi della rappresentanza (e della repubblica
sulla quale la rappresentanza è stata costruita). Se vogliamo essere un
attimo formali, infatti, la formula del “vincitore delle elezioni” in Italia è solo mediatica.
Più semplicemente i cartelli elettorali eletti, per come sono costruite
le istituzioni del nostro paese, dovrebbero portare in parlamento gli
interessi di cui si dicono rappresentanti. Poi, sempre in parlamento,
essendo l’Italia una repubblica parlamentare, avverrebbe la composizione
di questi interessi.
Se
il partito che arriva primo, o presume di essere arrivato primo,
finisce all’opposizione non si tratta quindi di un tradimento, o di un
oscuro complotto, ma dell’effetto di una composizione degli interessi
presenti nella società nella sede parlamentare. Il
punto è che, essendo entrata in crisi permanente la rappresentanza,
ogni formula gridata ad effetto fa legge, ogni criticità presenta una
crisi. E la repubblica parlamentare esiste sempre più sulla carta.
Certo,
negli ultimi 30 anni i tentativi di riforma elettorale, e
costituzionale, sono andati sempre nella direzione della mortificazione
del parlamento e quindi della simmetria della rappresentanza tra
istituzioni e corpo sociale. Proprio perché, per la società, c’erano e ci sono meno risorse e meno diritti in modo permanente. Ma, allo stesso tempo, è stupido negarlo,
la società nell’ultimo trentennio si è differenziata, negli stili di
vita e negli interessi, in modo tale da rendere molto difficile una
qualsivoglia composizione parlamentare di questi interessi.
I
cartelli elettorali protagonisti di questa attuale crisi politica
noiosa, senza qualità, senza sostanza (che non sia quella della
conquista del residuo di potere rimasto alle istituzioni della
repubblica) parlano quindi il linguaggio di una crisi della
rappresentanza, che viene dal lontano, che non possono e non vogliono
risolvere. Tutti
e tre i principali cartelli elettorali parlano infatti per spot, per
attirare il massimo di consenso possibile da interessi differenti e
anche contrastanti tra loro. In modo che questo consenso si trasformi
istantaneamente in potere. Ma questo consenso, come si vede in queste settimane, non riesce affatto a trasformarsi in potere politico-istituzionale.
Anche
perchè, una volta abbandonata la strada della coerente rappresentanza
degli interessi materiali perché si esauriscono progressivamente le
risorse per tenerla in piedi, si è battuto il sentiero di un consenso
per spot, per opinione (dei media tradizionali come dei social).
Sentiero che si è rivelato, in politica, un percorso perverso e
polimorfo. Un percorso, in Italia, capace di produrre stallo politico a
causa di risultati elettorali da fuzzy logic, la logica più fantasiosa
che si conosce, proprio perché produce spot, e attira consenso,
sganciato da una visione profonda del futuro. Con queste logiche di
comunicazione, che sono strutturate materialmente proprio per evitare
una composizione politica degli interessi collettivi, non si può che
produrre, in termini elettorali, risultati che non sembrano esistere in
natura. Ma usciti, appunto, da logiche fuzzy. Con
percentuali di voto che cambiano per un partito, in non molti mesi,
anche di una ventina di punti percentuali. E questo, a sua volta,
produce reti di potere, nei cartelli elettorali, instabili.
Per i quali la rappresentanza degli interessi (non più sociali, ma
legati a copertura di settori di lobby) rischia di essere sempre messa
in discussione da un potere, condizionato da dinamiche di comunicazione
fluide e nervose, che si esercita molto più in base ai sondaggi che alla rappresentanza di settori di società.
Se
la vogliamo buttare sull’estetica, l’Italia ha già attraversato, nel
passato più o meno recente, crisi noiose. Ma questa non è solo la più
noiosa – con pompose quando esangui liturgie della politica, senza una
adeguata sceneggiatura del dramma del potere, senza una energia
collettiva attenta all’evoluzione della crisi – è anche la crisi più pericolosa.
E
qui addentriamoci nella realtà mettendo tra parentesi il campionario di
bigiotteria politica offerto queste settimane (il contratto alla
tedesca di Di Maio, il “governo che si può fare in un giorno” di
Salvini, il “governi chi ha vinto le elezioni” di Renzi, fino alle
trovate sceniche di nonno Silvio). Già perchè la crisi del sistema politico italiano si dipana e si sovrappone ad altre crisi.
C’è la questione del nuovo equilibrio della governance europea dopo la Brexit,
ad esempio. Questione che avrà uno sbocco istituzionale continentale
alla fine di giugno e che, a questo punto con molte probabilità, partirà
comunque con un’Italia perlomeno sullo sfondo. In questi casi, come
intuibile, risorse economiche e poteri vengono ripartititi senza tenere
conto degli assenti. Invece di parlare di “forni”, linguaggio
poverissimo preso in prestito dalle peggiori liturgie politiche della
prima repubblica, mettere questo tema come priorità nel dibattito
pubblico avrebbe fatto davvero l’interesse del paese.
Di
qui si arriva al rischio di guerre commerciali nell’economia globale
che, conti alla mano, rischiano di costare una ventina di miliardi al
nostro paese solo per l’export verso gli Usa.
Senza parlare del fatto che gli Usa hanno messo nel mirino l’export
tedesco, importante fattore di traino per il nostro paese. Anche questo
tema, scomparso. Mentre Usa, Francia e Regno Unito hanno detto
pubblicamente di voler attaccare Trump su questi temi. Faranno tutti i
loro interessi mentre questo paese sarà fermo.
E
questo per non parlare di quello che attendono tutti gli operatori
finanziari da tempo: il rialzo dei tassi di interesse in Usa capace di
mettere in difficoltà sia debito pubblico che investimenti in Italia. Ma
qui, se si entra nel dettaglio dei problemi non affrontati dalla
politica, sembrerebbe di sparare all’ambulanza.
Nei
settori del futuro, che già agiscono oggi, come le trasformazioni del
banking, sul piano finanziario, e le evoluzioni dell’intelligenza
artificiale, sul piano sia produttivo che dell’organizzazione del
lavoro, non esiste, in prospettiva, nessuna combinazione di futuro
governo che possa attrezzarsi in materia. Eppure il credito, elemento
essenziale della vita sociale oggi, sta subendo importanti e veloci
ristrutturazioni tecnologiche e paesi come la Francia investono un
miliardo e mezzo, in meno di dieci anni, sulla intelligenza artificiale
come nuova potenza produttiva.
Eppure
non si può parlare di reddito di cittadinanza senza avere una seria
idea, non solo del bilancio dello stato, ma anche della evoluzione
dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie del lavoro dei prossimi
anni e di come queste incideranno sui livelli occupazionali qualitativi
e quantitativi.
Invece
niente, tabula rasa. Crisi eterna della rappresentanza che si
sovrappone alle altri crisi. Per questo la crisi è pericolosa, perché,
se la si vede partendo dalla crisi della rappresentanza, contiene altre
crisi. E non proprio di quelle secondarie. Mentre a Roma si discute di
forni, di formule, di contratti di governo nella speranza di mettere in
mano, di fronte alla telecamere, il cerino della responsabilità politica
dello stallo a qualcuno. Per cercare di capitalizzare il proprio
ritorno di immagine ad una prossima, magari inutile, tornata elettorale.
Eppure
senza aver centrato questi temi nuove tappe del declino economico,
sociale, demografico ed anche ambientale di questo paese sono solo
garantite. Difficile comunque che gli attuali attori politici, tra una
crisi noiosa e la sovrapposizione di crisi pericolose, riescano ad
uscirne.
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