giovedì 3 maggio 2018

La crisi più noiosa e pericolosa della storia della repubblica.

L’idea stessa di crisi è qualcosa di controverso. Infatti a volte si usa la parola crisi quando non si sa come descrivere un fenomeno. 


O al primo fatto controverso che si para davanti.
Eppure quello che stiamo vedendo dal 4 marzo ad oggi è proprio crisi anzi, una sovrapposizione di crisi. Un filo conduttore delle cronache di queste settimane è sicuramente la crisi della rappresentanza, un fenomeno che ha fatto capolino già alla fine degli anni settanta e che ha finito per erodere le fondamenta stesse dei partiti della repubblica.
Tanto che tutti gli attori che si sono imbarcati nei tentativi di ingegneria elettorale, che sono emersi già dalla fine degli anni ‘80, hanno sempre provato a risolvere la crisi della rappresentanza a modo loro. Ovvero, non potendo più materialmente rappresentare gli interessi della società, tentando di costruire architetture elettorali che concentravano potere nelle mani di pochi. Cercando così di evitare di dover cercare consensi nella società erogando posti di lavoro, servizi, strutture che, già allora, non potevano essere distribuiti con le risorse a disposizione del decennio precedente. Tutto questo florilegio di leggi elettorali, di killer application del voto, ha, dalla fine degli anni ‘80, sempre avuto una logica: costruire dispositivi di voto per concentrare potere nelle mani di pochi per risparmiare, in tutti i sensi, sulla ricerca del consenso in una platea vasta della società.

Così quando, come in questi giorni emerge, da tutti gli attori in campo, il linguaggio del “chi ha vinto le elezioni deve governare” si vedono i frutti odierni della crisi della rappresentanza (e della repubblica sulla quale la rappresentanza è stata costruita). Se vogliamo essere un attimo formali, infatti, la formula del “vincitore delle elezioni” in Italia è solo mediatica. Più semplicemente i cartelli elettorali eletti, per come sono costruite le istituzioni del nostro paese, dovrebbero portare in parlamento gli interessi di cui si dicono rappresentanti. Poi, sempre in parlamento, essendo l’Italia una repubblica parlamentare, avverrebbe la composizione di questi interessi.
Se il partito che arriva primo, o presume di essere arrivato primo, finisce all’opposizione non si tratta quindi di un tradimento, o di un oscuro complotto, ma dell’effetto di una composizione degli interessi presenti nella società nella sede parlamentare. Il punto è che, essendo entrata in crisi permanente la rappresentanza, ogni formula gridata ad effetto fa legge, ogni criticità presenta una crisi. E la repubblica parlamentare esiste sempre più sulla carta.
Certo, negli ultimi 30 anni i tentativi di riforma elettorale, e costituzionale, sono andati sempre nella direzione della mortificazione del parlamento e quindi della simmetria della rappresentanza tra istituzioni e corpo sociale. Proprio perché, per la società, c’erano e ci sono meno risorse e meno diritti in modo permanente. Ma, allo stesso tempo, è stupido negarlo, la società nell’ultimo trentennio si è differenziata, negli stili di vita e negli interessi, in modo tale da rendere molto difficile una qualsivoglia composizione parlamentare di  questi interessi.
I cartelli elettorali protagonisti di questa attuale crisi politica noiosa, senza qualità, senza sostanza (che non sia quella della conquista del residuo di potere rimasto alle istituzioni della repubblica) parlano quindi il linguaggio di una crisi della rappresentanza, che viene dal lontano, che non possono e non vogliono risolvere. Tutti e tre i principali cartelli elettorali parlano infatti per spot, per attirare il massimo di consenso possibile da interessi differenti e anche contrastanti tra loro. In modo che questo consenso si trasformi istantaneamente in potere. Ma questo consenso, come si vede in queste settimane,  non riesce affatto a trasformarsi in potere politico-istituzionale.
Anche perchè, una volta abbandonata la strada della coerente rappresentanza degli interessi materiali perché si esauriscono progressivamente le risorse per tenerla in piedi, si è battuto il sentiero di un consenso per spot, per opinione (dei media tradizionali come dei social). Sentiero  che si è rivelato, in politica, un percorso perverso e polimorfo. Un percorso, in Italia, capace di produrre stallo politico a causa di risultati elettorali da fuzzy logic, la logica più fantasiosa che si conosce, proprio perché produce spot, e attira consenso, sganciato da una visione profonda del futuro. Con queste logiche di comunicazione, che sono strutturate materialmente proprio per evitare una composizione politica degli interessi collettivi, non si può che produrre, in termini elettorali, risultati che non sembrano esistere in natura. Ma usciti, appunto, da logiche fuzzy. Con percentuali di voto che cambiano per un partito, in non molti mesi, anche di una ventina di punti percentuali. E questo, a sua volta, produce reti di potere, nei cartelli elettorali, instabili. Per i quali la rappresentanza degli interessi (non più sociali, ma legati a copertura di settori di lobby) rischia di essere sempre messa in discussione da un potere, condizionato da dinamiche di comunicazione fluide e nervose, che si esercita molto più in base ai sondaggi che alla rappresentanza di settori di società.
Se la vogliamo buttare sull’estetica, l’Italia ha già attraversato, nel passato più o meno recente, crisi noiose. Ma questa non è solo la più noiosa – con pompose quando esangui liturgie della politica, senza una adeguata sceneggiatura del dramma del potere, senza una energia collettiva attenta all’evoluzione della crisi – è anche la crisi più pericolosa.
E qui addentriamoci nella realtà mettendo tra parentesi il campionario di bigiotteria politica offerto queste settimane (il contratto alla tedesca di Di Maio, il “governo che si può fare in un giorno” di Salvini, il “governi chi ha vinto le elezioni” di Renzi, fino alle trovate sceniche di nonno Silvio). Già perchè la crisi del sistema politico italiano si dipana e si sovrappone ad altre crisi.
C’è la questione del nuovo equilibrio della governance europea dopo la Brexit, ad esempio. Questione che avrà uno sbocco istituzionale continentale alla fine di giugno e che, a questo punto con molte probabilità, partirà comunque con un’Italia perlomeno sullo sfondo. In questi casi, come intuibile, risorse economiche e poteri vengono ripartititi senza tenere conto degli assenti. Invece di parlare di “forni”, linguaggio poverissimo preso in prestito dalle peggiori liturgie politiche della prima repubblica, mettere questo tema come priorità nel dibattito pubblico avrebbe fatto davvero l’interesse del paese.
Di qui si arriva al rischio di guerre commerciali nell’economia globale che, conti alla mano, rischiano di costare una ventina di miliardi al nostro paese solo per l’export verso gli Usa. Senza parlare del fatto che gli Usa hanno messo nel mirino l’export tedesco, importante fattore di traino per il nostro paese.  Anche questo tema, scomparso. Mentre Usa, Francia e Regno Unito hanno detto pubblicamente di voler attaccare Trump su questi temi. Faranno tutti i loro interessi mentre questo paese sarà fermo.
E questo per non parlare di quello che attendono tutti gli operatori finanziari da tempo: il rialzo dei tassi di interesse in Usa capace di mettere in difficoltà sia debito pubblico che investimenti in Italia. Ma qui, se si entra nel dettaglio dei problemi non affrontati dalla politica, sembrerebbe di sparare all’ambulanza.
Nei settori del futuro, che già agiscono oggi, come le trasformazioni del banking, sul piano finanziario, e le evoluzioni dell’intelligenza artificiale, sul piano sia produttivo che dell’organizzazione del lavoro, non esiste, in prospettiva, nessuna combinazione di futuro governo che possa attrezzarsi in materia. Eppure il credito, elemento essenziale della vita sociale oggi, sta subendo importanti e veloci ristrutturazioni tecnologiche e paesi come la Francia investono un miliardo e mezzo, in meno di dieci anni, sulla intelligenza artificiale come nuova potenza produttiva.
Eppure non si può parlare di reddito di cittadinanza senza avere una seria idea, non solo del bilancio dello stato, ma anche della evoluzione dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie del lavoro dei prossimi anni e di come queste incideranno sui livelli occupazionali qualitativi e quantitativi.
Invece niente, tabula rasa. Crisi eterna della rappresentanza che si sovrappone alle altri crisi. Per questo la crisi è pericolosa, perché, se la si vede partendo dalla crisi della rappresentanza, contiene altre crisi. E non proprio di quelle secondarie. Mentre a Roma si discute di forni, di formule, di contratti di governo nella speranza di mettere in mano, di fronte alla telecamere, il cerino della responsabilità politica dello stallo a qualcuno. Per cercare di capitalizzare il proprio ritorno di immagine ad una prossima, magari inutile, tornata elettorale.
Eppure senza aver centrato questi temi nuove tappe del declino economico, sociale, demografico ed anche ambientale di questo paese sono solo garantite. Difficile comunque che gli attuali attori politici, tra una crisi noiosa e la sovrapposizione di crisi pericolose, riescano ad uscirne.

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