Israele non poteva colpire e aveva bisogno di un passo falso di Hezbollah per una rappresaglia colossale. Il sistema è stato usato anche per giustificare l’intervento in Vietnam e per bombardare l’Iraq di Saddam.
(Domenico Quirico – lastampa.it)
Lo scenario che cambia
La vendetta a Gaza è un rompicapo militare che dopo un anno appare senza uscita, una delle guerre più disperanti che esistano, quelle in cui non si è fissato con accuratezza prima di scoperchiarle qual era il soddisfacente punto finale raggiungibile. Allora che fare? Cambiare scenario, diversioni, nuovi campi di battaglia più arabili, un cocktail sciagurato a cui tutti coloro che sono a corto di idee purtroppo restano affezionati.
Il turbolento fronte Nord è lì per questo. Netanyahu dunque ha bisogno che Hezbollah lo attacchi, i missili che cascano qua e là non bastano, sono ordinaria amministrazione. Non bastano per giustificare una rappresaglia colossale, una Gaza bis su cui si possa infierire in permanenza. Il Libano con il suo partito-esercito alleato del satanasso iraniano (e di Hamas) offre da sempre ai politici maneschi di Israele un comodo poligono di tiro, dove dimostrare la implacabilità di tzahal, restaurare deterrenze avviate a un plumbeo crepuscolo.
Provocare Hezbollah
Bene! Ma se gli sciiti della Beeka non collaborano, non «scavalcano» la linea rossa? La necessità della vittoria stimola il desiderio e la capacità di darle una mano. Hezbollah che pure sconfisse Israele costringendolo al ritiro, dopo il costoso intervento in Siria per salvare Bashar Assad, è una satrapia un po’ grondante di unto, vischiosa, un partito del mangia e lascia mangiare accampato sul Paese dei cedri: impantofolata come dimostrano le facce imporporate di stizza con cui subisce colpi su colpi alla sua sicurezza. Che il prosaico tran tran libanese abbia imborghesito i vecchi fanatici senza guinzaglio?
Israele non può attaccare per primo. Gli americani borbottano o fanno finta, i democratici in campagna elettorale per novembre non possono accettare un Medio Oriente ancor più in fiamme. I palestinesi di Gaza va bene, fate pure, ma il Libano, quello è una linea rossa. Entro e non oltre il Litani nessun bagno di acciaio!
Bisogna provocare Hezbollah, costringerla a reagire per non perdere la faccia che forse bisognerebbe descrivere come la vera, inaggirabile anima della geopolitica in vicino Oriente. Ci vuole appunto una linea rossa che gli altri scavalchino per dichiararli colpevoli: sconfinamenti di guerriglieri kamikaze, attentati, missili sulle città… Qualcosa di globale, imperdonabile, definitivo. Come il sette ottobre per esempio.
Le sottili linee rosse
Le linee rosse: le attraversa avanti e indietro la storia recente, linee rosse infrante, temute, minacciate, rinnegate. Sono utili a chi cerca svolte definitive e irrimediabili che vuole presentare come il cedere a una prosaica fatalità, così quando non ci sono le si inventa: un attacco di alcuni motoscafi alle corazzate americane nel Golfo del Tonchino che servirono a scatenare i bombardamenti a tappeto su Hanoi; le armi chimiche di Saddam per esempio, con le prove esibite da un (forse) inconsapevole illustre bugiardo all’Onu. Ai falchi della Amministrazione Bush la caccia e la punizione legittima dei responsabili dell’undici settembre non bastava, si voleva approfittare per creare il mondo definitivamente americano. E allora: Saddam ha superato la linea rossa, dispone di armi di distruzione di massa… La bugia diventa un gesto di politica che rasenta l’automatismo e tenta di mettersi la coscienza in pace.
Talora le linee rosse si ritorcono contro, diventano un azzardo molesto da cui non si riesce pericolosamente a svincolarsi: quella tracciata da Obama in Siria per esempio nel 2013: Bashar ha usato le armi chimiche, ci vuole una grande coalizione per punirlo. Quando si accorse di marciare da solo dovette chiedere aiuto a Putin, allora presentabile e provvidenziale, per uscirne senza danni.
E poi c’è chi dello scavalcare le linee rosse ha fatto la chiave della sua guerra: Zelensky. Non sono segnate da Putin che resta su questo enigmatico, al più allusivo. Sono i suoi alleati che ne tracciano continuamente da più di due anni: non usare questo, non colpire là, non entrare in Russia… E lui ogni volta passa oltre. Sa che il tempo scorre a favore del nemico, un po’ come accade per Netanyahu, la sua possibilità di vittoria è nel conflitto ancor più totale.
Il controterrorsimo del Mossad
Gli «omicidi mirati senza frontiere», categoria giuridico criminale inventata da Israele, non hanno portato a nulla. Aytollah e compari libanesi non hanno abboccato all’amo, rinviano l’apocalisse e si accontentano di quella sottotono ma efficacissima che costringe decine di migliaia di israeliani del Nord da mesi nella condizione di rifugiati interni. Il Mossad, mai a corto di idee e stratagemmi, abbandona il delitto «mirato» e inventa il primo esempio di controterrorismo capillare. C’è sempre una «via originale» all’uccidere.
Questa volta dovrebbe bastare per scatenare Hezbollah. Altrimenti si dovrà tornare alla irrazionalità pasticciona con cui si da la caccia fino all’ultimo uomo di Hamas: dispostissimi, i fanatici di Sinwar, ad ammuffire a lungo nei loro insondabili sottosuoli.
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