Una volta i giornali italiani cercavano a tutti i costi la pace, oggi i media alimentano i conflitti e nascondono le atrocità.
(ALESSANDRO DI BATTISTA – ilmillimetro.it)
Fate presto, per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla. Così aprì Il Mattino di Napoli il 26 novembre del 1980. Tre giorni prima, il 23 novembre, un violentissimo terremoto aveva colpito l’Irpinia. I morti furono quasi 3000, gli sfollati 280.000. Allora la stampa, giustamente, cercava di far pressione sui politici italiani affinché si muovessero celermente.
L’allora Capo dello Stato Sandro Pertini, il miglior Presidente della Repubblica della storia del nostro Paese, visitò immediatamente le zone colpite e, non appena tornato al Quirinale, rivolse un messaggio alla Nazione con il quale attaccò duramente la macchina degli aiuti e i politici che non avevano mai approvato i decreti attuati relativi alle leggi sulle calamità. Ecco una parte del suo discorso.
Le parole di Pertini
«Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. E i superstiti presi di rabbia mi dicevano: “Ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti, liberarli dalle macerie”.
Ricordo anche questa scena: una bambina mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre e i suoi fratelli. Una donna disperata e piangente che mi ha detto “ho perduto mio marito e i miei figli”. E i superstiti che, lì, vagavano fra queste rovine, impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi erano.
Ebbene, io allora, in quel momento, mi sono chiesto, come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato?».
E ancora: «Bisogna pensare a ricoverarli in alloggi, questi superstiti. E poi bisogna pensare a una casa per loro. Su questo punto io voglio soffermarmi, sia pure brevemente. Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo: che a distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse.
I terremotati vivono ancora in baracche: eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere? Perché l’infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui». C’è stato un tempo in cui i Capi di Stato italiani parlavano così.
Corsi e ricorsi storici
Fate presto fu il titolo scelto anche da Il Sole 24 ore il 10 novembre 2011. L’Italia era stata colpita da una tempesta finanziaria, in parte dovuta ai fondamentali economici scadenti e in parte a precise scelte politiche prese a Berlino e Bruxelles per limitare ancor di più quegli scampoli di sovranità politica che restavano al nostro Paese. Il Sole 24 ore, quotidiano di Confindustria, pressò i parlamentari della Repubblica affinché avallassero «un governo di emergenza guidato da uomini credibili che sappiano dare all’Italia e agli italiani la cura necessaria ma sappiano imporre anche al mondo il rispetto e la fiducia nell’Italia».
Quel governo, il governo Monti, ottenne la fiducia dei parlamentari, anche di alcuni, come la Meloni, che negli anni successivi hanno fatto di tutto per nascondere le proprie impronte digitali su provvedimenti sanguinolenti. Giorgio Napolitano, il peggior Presidente della Repubblica della Storia del nostro Paese, pochi giorni prima di incaricare Monti come Presidente del Consiglio, disse: «Abbiamo bisogno di decisioni presto e nei prossimi anni per una rinnovata responsabilità e coesione nazionale». Quella coesione nazionale, vista la crescita senza precedenti dell’astensionismo, non è stata promossa. D’altro canto, la credibilità di chi l’auspicava, Napolitano per l’appunto, era pari a zero.
In quella stessa legislatura, pochi mesi prima dell’insediamento del governo Monti, Napolitano esercitò una pressione politicamente criminale affinché il governo Berlusconi avallasse l’intervento militare in Libia, voluto soprattutto da Sarkozy e da Hillary Clinton. Quella guerra – così come i bombardamenti su Belgrado, oltre ad avere obiettivi strategici e geopolitici (grazie all’indebolimento della Serbia gli USA hanno potuto realizzare in Kosovo Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense costruita al di fuori degli Stati Uniti dai tempi della guerra in Vietnam) – venne mossa per indebolire un alleato della Russia.
Per la stessa ragione, nel 2014, i servizi segreti USA e quelli britannici promossero il colpo di Stato a Kiev, grazie al quale venne cacciato Viktor Janukovyč, Presidente dell’Ucraina democraticamente eletto ma reo di non essere russofobico. Fu allora che iniziò la guerra in Ucraina, non nel 2022. Nel 2022 è iniziata l’invasione russa del Paese, non la guerra.
Il sistema mediatico e la guerra
Ad ogni modo, quelli che ho citato sono due esempi (il primo positivo, il secondo molto meno) di sana pressione della stampa sulla politica. Il sistema mediatico ha il dovere di incalzare i politici affinché questi agiscano rapidamente. Ebbene, oggi, salvo le solite rare e preziose eccezioni, ciò non avviene. I giornali d’establishment e i media mainstream distraggono e avallano acriticamente la narrazione politica dominante. Un esempio? La totale indifferenza mediatica per le parole pronunciate dal Presidente della Serbia Aleksandar Vučić alcuni giorni fa.
Vučić guida un Paese storicamente vicino alla Russia (i serbi sono “slavi del sud” e sono ortodossi come i russi), conosce Putin, sa che la pubblica opinione serba non ha dimenticato gli ignobili bombardamenti della NATO su Belgrado. Allo stesso tempo ha solide relazioni con i leader europei, vorrebbe che la Serbia diventasse membro dell’UE e tesse relazioni commerciali con il grande capitalismo europeo, a cominciare da Stellantis.
È dunque un uomo che ha accesso a informazioni importanti. Ebbene, alcuni giorni fa Vučić, quasi in lacrime, ha detto di temere un’escalation drammatica della guerra in Ucraina, che nei prossimi tre o quattro mesi la situazione potrebbe definitivamente degenerare e che «il treno della guerra è partito ed è difficilissimo fermarlo». Ha aggiunto poi che ci sono leader politici disposti a sacrificare la vita di milioni di cittadini europei, che la NATO (per ragioni politiche ed economiche) non si fermerà e non lo farà neppure la Russia, che vive il conflitto in Ucraina, a torto o a ragione, come una questione esistenziale.
Parole drammatiche pronunciate, ripeto, da un leader politico europeo che conosce entrambi gli schieramenti. Parole censurate da gran parte dei media. Io sono terrorizzato. In Europa la parola “pace” è diventata blasfema. Orde di guerrafondai da salotto sostengono che, dato che i partiti pacifisti (o presunti tali) hanno preso pochi voti alle elezioni europee, evidentemente la pubblica opinione non è interessata a tale argomento. Balle! Vi è una parte della pubblica opinione europea anestetizzata dalla narrazione dominante, una parte (quella maggioritaria) spaventata e sfiduciata e una parte dannatamente preoccupata.
Il successo del Rassemblement National in Francia, del resto, è figlio delle follie di Macron. Macron pensava che parlare di un possibile invio di truppe NATO in Ucraina non avrebbe avuto conseguenze elettorali. Si è visto. La crescita del partito della Le Pen, i cui principali esponenti fanno dichiarazioni raccapriccianti sulla questione palestinese (Bardella ha detto che riconoscere lo Stato di Palestina significa riconoscere il terrorismo), è legata anche al timore che molti francesi hanno di vedere i propri figli spediti al fronte. Dalle nostre parti nessun ministro ha ipotizzato scenari del genere, tuttavia, anche da noi, chi è al governo, per viltà, stoltezza e sudditanza internazionale, non osa parlare adeguatamente di pace e negoziato.
Nelle ultime settimane Putin e Lavrov, magari bluffando, hanno parlato più volte della necessità di trovare adesso una soluzione politica alla guerra in Ucraina. È vero, Putin pretende molto (il ritiro dei soldati di Kiev dagli oblast’ annessi alla Federazione russa) ma si tratta di richieste, i negoziati servono a questo d’altro canto, appunto, ad ascoltare le richieste dell’altro per arrivare a un accordo soddisfacente per tutti. Ma in Europa si parla solo di armi. Nelle ultime settimane gli Stati Uniti e alcuni Paesi UE hanno formalmente tolto il veto all’utilizzo da parte di Kiev di armi NATO sul territorio russo. Gli ucraini, in realtà, da mesi colpiscono il territorio russo.
Oggi lo possono fare con il consenso occidentale. Alcuni giorni fa un attacco ucraino in Crimea ha provocato la morte di 5 civili russi (3 erano bambini) e il ferimento di quasi 200 persone. Si tratta di persone identiche a noi. Uomini, donne, anziani e bambini che erano in spiaggia a Sebastopoli e che hanno visto arrivare missili ATACMS, sofisticati missili superficie-superficie prodotti dalla statunitense Lockheed Martin, la fabbrica di armi più grande al mondo.
Alcune ore fa Mosca ha dichiarato di aver colpito e distrutto tre sistemi lanciarazzi Himars (armi anch’esse prodotte dalla Lockheed Martin) e di aver “neutralizzato” gli specialisti stranieri che li stavano manovrando. Che in Ucraina vi siano “specialisti” stranieri, dunque militari stranieri, è fuori di dubbio.
“Fate presto”
La scora settimana, mentre Stoltenberg, segretario della NATO uscente, sosteneva la necessità di schierare l’arsenale nucleare NATO per lanciare un messaggio a Mosca e Pechino, Putin incontrava prima Kim Jong-un a Pyongyang e poi Tô Lâm, Presidente del Vietnam, ad Hanoi. Con i due Paesi, Mosca ha firmato accordi che prevedono l’intensificazione della cooperazione militare.
C’è chi sostiene che Putin abbia chiesto e ottenuto forniture militari, in particolare proiettili per carri armati e artiglieria. Cosa farebbe Putin se uno dei missili made in USA che hanno colpito Sebastopoli dovesse colpire Mosca? Come reagirebbe la NATO se Putin dovesse utilizzare un ordigno nucleare tattico in Ucraina? Ma al posto di porci questi tremendi interrogativi non sarebbe più opportuno lavorare per la pace? Possibile che l’Europa si sia trasformata in un vero e proprio protettorato statunitense?
Possibile che i media mainstream abbiano deciso scientemente o di lavorare per la guerra o di farci dimenticare della sua esistenza e della possibile escalation? In quella drammatica intervista Vučić ha affermato che, in caso di conflitto mondiale, la Serbia resterebbe neutrale in quanto non intende sacrificare neppure la vita di un solo serbo per questa follia.
Pare che i leader europei, al contrario, siano più propensi a tale orrendo sacrificio. Fate presto, chiedevano in passato i giornali italiani. Oggi, in pochi chiedono ai leader europei di sbrigarsi a raggiungere un accordo. Se non lo fanno i giornali, tocca alla pubblica opinione. E deve farlo adesso. Prima che il treno menzionato da Vučić diventi inarrestabile.
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