giovedì 11 aprile 2024

Ugo Mattei. Perché la democrazia dal basso è così scomoda per il potere

In Italia ma non solo, la politica cerca di accentrare il controllo in mano a istituzioni centrali attraverso elezioni vinte da minoranze che decidono per tutti. Un meccanismo che crea conseguenze negative sulle decisioni locali e che necessita di aggiustamenti attraverso strumenti di partecipazione popolare diretta.

 

 (Ugo Mattei – lespresso.it)

Fra la fine degli anni Ottanta e la prima parte del nuovo millennio, nella piena primavera del neoliberismo, mi capitava spesso di lavorare in Africa, su progetti di ricerca e talvolta di riforma. Ho visitato così Congo, Somalia, Etiopia, Eritrea, Camerun e infine Burkina Faso e Mali. Si tratta di Stati assai diversi, tuttavia accomunati, agli occhi di un osservatore occidentale, da un paio di questioni cosiddette strutturali: il governo era o era stato in mano a uomini forti; questi Paesi erano oggetto delle attenzioni delle istituzioni internazionali occidentali, Oms, Banca Mondiale, agenzie Onu, Us Aid e altre cooperazioni nazionali, francese, canadese, italiana ecc. I russi se ne stavano andando e col tempo sarebbero stati sostituiti (oggi affiancati) soprattutto dai cinesi.

Invariabilmente, il consenso della cooperazione puntava il dito sulle carenze della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, soprattutto delle donne. Invariabilmente, i progetti finanziati spingevano per riforme elettorali e costituzionali in chiave presidenziale, multipartitismo, indipendenza del potere giudiziario, in vista della lotta alla corruzione e di massicce privatizzazioni. 

Appena poche miglia fuori dai centri urbani riscontravo, pur nelle differenze, un comune fenomeno e una comune sensibilità. Alla mancanza di democrazia ovviavano le istituzioni locali tradizionali che ritualizzavano processi decisionali partecipativi sulle questioni davvero rilevanti per la vita di villaggio. L’idea del principio maggioritario, sostenuta dal consenso internazionale, era completamente estranea alla sensibilià locale. Nei villaggi si praticava la ricerca del consenso unanime e si risentiva la prepotenza del gruppo che, grazie a rapporti privilegiati di natura etnica con chi deteneva il potere centrale, tendeva a prevaricare il paziente negoziato partecipato con la logica del ricatto, nota al centro come condizionalità.

La democrazia dunque non era legata al processo elettorale, che anzi favoriva l’ambizione autoritaria della minoranza (etnica). Era legata piuttosto al massimo decentramento e alla resilienza dei poteri decisionali locali. 
Gli abitanti del villaggio si sentivano tanto più in democrazia quanto più lontano riuscivano a mantenere il potere centrale (paradossalmente legittimato dalle libere elezioni). Se alienare una terra ancestrale, se intraprendere un certo progetto agropastorale, se provare a organizzare certi trasporti o certe infrastrutture di commercio costituivano scelte democratiche se mantenute a livello locale, autoritarie e generalmente corrotte se finanziate dal potere “democratico” centrale.
 
Riflettendo su queste dinamiche, che all’epoca mi parevano solo africane, riscontro impressionanti parallelismi con quanto sarebbe successo da noi coi finanziamenti Pnrr
La narrazione della governabilità e del decisionismo ha spinto, e tuttora spinge, a una forte concentrazione del potere nell’esecutivo nazionale. 
Di conseguenza, minoranze sempre più esigue della popolazione partecipano alle elezioni, sicché il potere si concentra nelle mani di piccole minoranze (da noi legate da ideologie o affari e non dall’etnia) che decidono per tutti. 
Molte tornate elettorali non raggiungono il 50% della partecipazione e sarebbero invalide, per mancanza di quorum, se si trattasse di referendum.

Il partito dell’attuale capo del governo non rappresenta più del 13% degli italiani e spadroneggia. Di contro le istituzioni locali, affamate da politiche restrittive, sono condizionate dalle amicizie centrali dei loro amministratori, che a loro volta appartengono a partiti del tutto minoritari (l’intera coalizione del sindaco di Torino rappresenta poco più del 20% degli aventi diritto al voto), che impongono le loro scelte senza alcuna discussione democratica, che non sia l’esito di negoziazioni fra gruppi di potere.

Eppure, sul finire della prima decade del nostro secolo, la questione della democrazia partecipativa è stata posta in modo molto chiaro dal movimento per i beni comuni il quale, seppur umiliato dopo la vittoria referendaria del 2011 dalla reazione violenta dello spread (e dei successivi governi tecnici, a democrazia ridotta, da Monti a Draghi), ha lasciato qualche segno a livello locale. 

Diversi Comuni nei propri statuti prevedono forme di coinvolgimento della cittadinanza (cosiddetti regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni) e perfino strumenti veri di decisione popolare, come i referendum locali vincolanti o le delibere di iniziativa popolare che possono essere proposti da determinati numeri (alti) di cittadini senza la mediazione degli eletti.

Nel declino della democrazia rappresentativa, queste forme di democrazia diretta a modello svizzero sono fondamentali per mantenere almeno a livello locale democrazia e partecipazione nelle scelte rilevanti per la nostra vita quotidiana. I partiti che hanno voluto questi strumenti sembrano essersene pentiti e fanno di tutto per renderne difficile (se non impossibile) l’uso, attraverso tecnicismi arbitrari. A Torino, da mesi un movimento di cittadini ha raccolto le firme necessarie per indire un referendum vincolante a difesa di parchi pubblici minacciati dalla cementificazione Pnrr, anche al fine di richiedere una bonifica seria, dopo 16 anni, dell’area inquinata e abbandonata dopo la tragedia dell’ex ThyssenKrupp, per costruirvi un presidio ospedaliero. Da mesi, il palazzo, che vuole l’ospedale in un parco, escogita ogni strategia per non far esprimere la cittadinanza…

 Serve un censimento nazionale di questi strumenti democratici, che vengono tenuti accuratamente nascosti, ma che possono fare la differenza nell’indurre quella partecipazione di cittadinanza locale, senza la quale non possono esserci democrazia e protezione delle generazioni future.

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