lunedì 22 aprile 2024

Corruzione, la scappatoia dei disonesti

Da Bari a Torino, fino alla Sicilia, perché ci troviamo così esposti alle malefatte dei politici che maneggiano il denaro pubblico?

 

(Michele Ainis – repubblica.it)

A sinistra: voti comprati a Bari, Torino, per sovrapprezzo anche a Cassino. A destra: il vicepresidente della Sicilia appena sospeso dalle sue funzioni per scambio elettorale politico-mafioso. La ministra del Turismo accusata di falso in bilancio e truffa ai danni dell’Inps. Il governatore uscente della Sardegna che ritira la sua ricandidatura dopo un’indagine per corruzione. E un partito di governo sopravvissuto allo scandalo dei 49 milioni sottratti dai rimborsi elettorali.

Ma in generale erano già 40, all’avvio di questa legislatura, i parlamentari eletti con procedimenti giudiziari a carico. Mentre l’ultima classifica di Transparency International stima che la corruzione, in Italia, valga 237 miliardi di euro, crescendo a ogni cambio di stagione.

Insomma: trent’anni dopo, Tangentopoli non è mai finita. Cade goccia a goccia, non come uno tsunami; attraverso uno stillicidio d’episodi, che colpiscono singoli individui anziché decapitare intere classi dirigenti; e senza un’onda d’indignazione collettiva, senza rivolgimenti né rivoluzioni.

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Sarà che ci s’abitua a tutto, anche al pensiero della morte. Sarà che la tensione etica è come quella erotica: non dura a lungo. Ma la domanda è questa: perché? Per quale ragione ci troviamo così esposti alle malefatte dei politici così come dei burocrati che maneggiano il pubblico denaro?

La fine dipende dall’inizio, ci insegna l’esperienza. E forse è proprio Tangentopoli la causa dell’eterna Tangentopoli nella quale siamo immersi. O meglio: la causa sta nella reazione con cui abbiamo cercato d’arginare il malaffare. Moltiplicando i controlli, i custodi, i codici etici, i presidi della legalità.

Quanti sono? E quali? La magistratura, certo, come accade in tutto il mondo (in Italia conta quasi 10 mila giudici ordinari). La Corte dei Conti, sul versante della regolarità dei bilanci, a tutela delle finanze pubbliche. Dopo di che dal 1991 s’è aggiunta la Direzione nazionale antimafia, articolata in 26 procure distrettuali. Dal 2014 funziona l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), che vigila sugli appalti pubblici.

Le si affianca la Consob, quanto alla correttezza dei soggetti che operano sui mercati finanziari. Nonché l’Autorità Antitrust, sia con misure premiali per le imprese virtuose (rating di legalità), sia castigando la turbativa d’asta nelle gare d’appalto (bid rigging).

Ancora: una legge del 2012 prescrive la trasparenza dell’attività amministrativa, con molteplici obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali. Un decreto legislativo del 2013 ha istituito il Responsabile della prevenzione della corruzione presso ogni amministrazione (centrale o locale), tenuto a predisporre una relazione annuale e un piano triennale. Quest’ultimo atto d’indirizzo deve a sua volta coordinarsi con il Piano nazionale anticorruzione redatto dall’Anac. Più in generale, il contrasto ai fenomeni corruttivi impegna sia gli organi di vertice politico, sia il Consiglio d’amministrazione e il Direttore generale.

C’è un paesaggio, dunque, quantomai affollato. Senza dire dei codici etici: Elly Schlein ne ha appena varato uno nuovo di zecca per i candidati alle elezioni del Pd, ma strumenti normativi analoghi (per lo più generici e prolissi) sussistono in tutti i partiti. Come d’altronde nelle università, dopo gli scandali di Concorsopoli.

O senza dire dei protocolli di legalità sottoscritti dal ministero dell’Interno o dalle Prefetture con le associazioni imprenditoriali (quello della Confcommercio risale al 2011, e viene costantemente rinnovato). O la catena dei reati: nel 2012 abbiamo aggiunto il traffico d’influenze illecite a una torta che ne contava già 35 mila.

“Le grida son tante!” scriveva Manzoni nei Promessi sposi. “E il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare”.

È questa la scappatoia dei disonesti, è la malattia del troppo, delle troppe leggi che s’elidono a vicenda, dei troppi garanti che finiscono per pestarsi i piedi. Se vogliamo uscirne dobbiamo semplificare il nostro sistema repressivo. E per semplificarlo dobbiamo usare la gomma, non l’ennesima matita.

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