La festa del 25 aprile, come celebrazione della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, fu istituita subito dopo la guerra, il 22 aprile del 1946 con regio decreto (l’Italia era ancora un regno e non una repubblica; il referendum si sarebbe tenuto due mesi dopo).
(Andrea Zhok)
Già con gli anni ’80 l’anniversario della liberazione dal nazifascismo aveva preso una mera piega autocelebrativa per una classe politica che cominciava a risultare invisa a una parte significativa dei governati: a fronte di una fisiologica dissoluzione sia della realtà che della memoria del fascismo reale, l’antifascismo serviva sempre di più come esibizione retorica che avrebbe dovuto conferire credito morale ad un ceto politico cui tale credito veniva riconosciuto sempre meno.
A partire dagli anni ’90, con il crollo dell’URSS, la nascita dell’UE e il trionfo del modello neoliberale, l’antifascismo e le sue celebrazioni assunsero definitivamente un carattere museale. Il termine “fascismo” e “fascista” veniva ormai utilizzato come un generico insulto. Luciano Violante nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera dei Deputati, nel 1996, chiese per la prima volta esplicitamente una riconciliazione nazionale tra chi, oramai mezzo secolo prima, si era trovato su fronti avversi (Resistenza partigiana e Repubblica Sociale Italiana).
Ed è solo così che può accadere che proprio chi più si riempie la bocca di antifascismo:
1) giustifica (o finge di non vedere) una ferrea censura sui mezzi di comunicazione, come fece il fascismo;
2) accetta che carriere vengano fatte e disfatte in base all’accordo o disaccordo ideologico con le verità di regime, come fece il fascismo;
3) accetta che non esistano più organismi capaci di difendere i lavoratori, come avvenne col fascismo;
4) considera normale ed anzi auspicabile che la ricerca scientifica sia asservita agli interessi e scopi dei ceti dirigenti, come accadde durante il fascismo;
e sempre in analogia col ventennio:
5) manipola serenamente e spudoratamente la storia e l’informazione per dar man forte all’ideologia dominante;
6) permette a gruppetti di autonominati guardiani dell’ortodossia di bullizzare i dissenzienti;
7) svuota il diritto di voto limitando le opzioni votabili a varianti di un’unica e sola agenda (There Is No Alternative);
8 ) impone e incentiva un’ortodossia linguistica ed espressiva (Politically Correct), e ghettizza chi non vi si conforma;
9) consegna all’oblio, emenda forzosamente o distrugge, prodotti culturali (presenti o passati) ritenuti ‘immorali’, ‘diseducativi’, ecc. (Cancel Culture);
10) permette la discriminazione di intellettuali, sportivi e artisti sulla sola base della mancata adesione ad un paradigma ideologico o della nazionalità di appartenenza (qui siamo persino un po’ oltre quanto fece il fascismo).
Ecco, quando una parola viene brandita come un’arma, come un insulto, risparmiandosi un’analisi dei suoi contenuti effettivi, può accadere che quei contenuti ritornino in forma persino peggiorativa, crescendo nascosti dall’ombra gettata da quella parola.
Ma qui, qualcuno dirà che, dopo tutto, almeno oggi le classi dirigenti del Partito Unico Liberale non ci hanno condotto ad una guerra catastrofica, come fece il Partito Nazionale Fascista.
Già, già, ma dategli tempo.
Nessun commento:
Posta un commento