lunedì 27 marzo 2023

Con l’autonomia differenziata il Governo affonda il Sud!

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La nostra Costituzione colloca il riconoscimento delle autonomie locali tra i principi fondamentali della Repubblica. Infatti, l’art. 5 recita così: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Il concetto di autonomia qui espresso, è inserito all’interno di una cornice unitaria e democratica, in cui lo Stato si impegna a far valere tutte le sue prerogative tenendo conto delle istanze e dei bisogni che provengono dai territori, nell’ottica di un decentramento che è definito come puramente
amministrativo; inoltre, come già accennato sopra, tale articolo è inserito nella parte della Costituzione in cui si stabiliscono i principi fondamentali su cui si regge la nostra Repubblica, pertanto l’autonomia e il decentramento dei quali in esso si parla, non possono affatto prescindere da democrazia, sovranità popolare, uguaglianza e solidarietà.


La questione dell’autonomia delle regioni a statuto ordinario, è entrata prepotentemente nel dibattito pubblico con la legge Bassanini del 1997 (quella della disastrosa autonomia scolastica!) e poi ha vissuto un momento cruciale con la riforma del Titolo V della Costituzione.
Si tratta quindi di un processo di lungo periodo che, a ben vedere, denuncia la penetrazione di logiche capitalistiche anche nello Stato e nella vita delle sue istituzioni. L’assunto sulla base del quale fino ad ora sono stati modificati i rapporti tra Stato e autonomie locali in un senso di fatto federalista, è pressappoco il seguente: le istituzioni locali, per promuovere lo sviluppo dei territori, devono essere autonome e soprattutto in concorrenza tra di loro. Le scuole devono competere tra loro; le ASL devono competere tra loro; i Comuni devono competere tra loro; le regioni devono competere tra loro, e così via. Tale principio, che in realtà spalanca le porte alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, finisce col penalizzare i territori più disagiati, i quali partono da una condizione iniziale di arretratezza e di svantaggio che così non potrà mai essere superata.
Venendo a ciò che ci riguarda più da vicino, il Ddl Calderoli altro non è se non la piena attuazione di questa autonomia fondata sulla competizione. Infatti, come quello dell’ex Ministro Gelmini, anche questo fa proprio il meccanismo dei livelli essenziali delle prestazioni, meglio conosciuti come Lep. Si tratta dei finanziamenti che lo Stato erogherà ad ogni regione per garantire i servizi minimi. Tuttavia, il Ddl prevede che l’entità di tali fondi possa anche essere stabilita successivamente alla formulazione di un’intesa tra il Governo e le varie autorità regionali. In tal caso i finanziamenti pubblici sarebbero erogati sulla base della spesa storica, ovvero sulla base delle risorse investite da ogni regione nei vari ambiti della pubblica amministrazione. Il criterio della spesa storica, però, è fortemente discriminatorio, perché lede il diritto di ogni cittadino ad avere servizi dello stesso livello su tutto il territorio nazionale. Infatti, se una regione ha impiegato poche risorse per dare ai suoi cittadini certi servizi pubblici, lo Stato si limiterà semplicemente a restituirle i fondi cha ha speso,
senza porsi il problema di fare ulteriori verifiche strutturali (numerosità degli abitanti, svantaggio sociale o territoriale, incidenza della malavita, reddito pro capite, capacità di spesa della regione, ecc.) grazie alle quali, invece, potrebbe emergere un gap economico con altre regioni più ricche, che dovrebbe invece essere colmato.
Coloro che difendono questo infausto progetto, sostengono però che
la salvaguardia di una tutela uniforme dei diritti sarà garantita dai Lep. Tuttavia è facile obiettare a costoro che, se anche fossero stabiliti dei livelli minimi in relazione ad ogni materia devoluta dallo Stato alle singole regioni, essi non riguarderebbero che un nucleo minimo di servizi, non realizzando
affatto quella piena, totale e uniforme tutela dei diritti che invece sarebbe il compito fondamentale della Repubblica, almeno stando all’art. 3 della Costituzione. Il minimo non riduce affatto le diseguaglianze, anzi, a lungo andare, le rende anche più gravi! Lo vediamo bene nella sanità che è ormai regionalizzata da anni, e dove il sistema dei Lep in realtà non garantisce nemmeno le prestazioni essenziali. Infatti, tanto per fare un paio di esempi, la Calabria con due milioni di abitanti non ha terapie intensive infantili. Non ne ha bisogno? Non sono essenziali? Sempre la stessa regione investe 77 milioni l’anno in turismo sanitario, regalando alle regioni del Nord (Lombardia in primis) finanziamenti pubblici per sopperire alla sua mancanza cronica di ospedali. Se a ciò aggiungiamo che i fondi destinati ai Lep dipendono dal buon andamento dell’economia, il gioco è fatto e la truffa ai danni delle classi popolari è smascherata!
Altro settore nevralgico che viene feralmente colpito dal Ddl Calderoli, è quello della scuola. Infatti il progetto separatista del Governo, se approvato, condurrà a programmi didattici, sistemi di reclutamento del personale e retribuzioni variabili da regione a regione, in un contesto che è già oggi fortemente discriminatorio, dato che i fondi pubblici che lo Stato investe nelle scuole delle aree più povere del Paese, sono gravemente carenti.
Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat relative al 2021, le famiglie in povertà assoluta in Italia sono 1.9 milioni, per un totale di 5,6 milioni di individui. I dati sono molto gravi soprattutto nel Mezzogiorno, dove il 10 per cento delle famiglie vive ormai in condizione di totale indigenza. Tuttavia non si può ignorare un generale indebolimento di tutto il tessuto sociale del nostro Paese, soprattutto se consideriamo che i salari sono diminuiti del 3 per cento negli ultimi trent’anni e che molti lavoratori, non solo al Sud, oramai faticano ad arrivare a fine a mese. Non è il caso di affrontare qui argomenti così complessi e in parte distanti dal focus della nostra discussione, ma dati come questi, sebbene molto allarmanti, passano sempre in sordina, e tutta la nostra classe politica, anziché
interrogarsi sulle ragioni di tali fenomeni, spinge per piegare alle logiche del liberismo più spinto ogni settore della società e della vita pubblica. Infatti tra le regioni che voglio l’autonomia differenziata non troviamo solo quelle guidate dal centro-destra (Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Liguria) ma vi sono anche le “rosse” Emilia-Romagna e Toscana. Sinistra e destra, ça va sans dire, sono unite anche nella secessione dei ricchi!
Certo questo Disegno di legge è solo l’ultimo di una nefasta sequela di provvedimenti che hanno fatto sì che, specie nel Meridione del nostro Paese, lo Stato divenisse sempre più incapace di garantire i diritti inalienabili dei cittadini. Come già detto sopra, un punto di svolta in tal senso è stata la riforma del Titolo V della Costituzione voluta da Amato (e poi da Bossi) nel 2001. A tale proposito il riformato art. 114 al comma 1 dice che “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”, il quale, non a caso, nella gerarchia delle istituzioni, occupa un poco onorevole ultimo posto e nella pratica si limita ad intervenire esclusivamente nei limiti principio di sussidiarietà verticale soggiacente a tutta la riforma.
Tale approccio, come può desumere chiunque viva al Sud, è stato finora tutt’altro che sufficiente a superare le storture di quello che è un federalismo regionale surrettizio, ed è facile affermare che dal 2001 ad oggi le condizioni generali del Mezzogiorno (sviluppo economico, integrazione con il resto del Paese, lotta alla malavita, ecc.) non sono affatto migliorate. E in questo ultimo ventennio abbiamo assistito de facto ad una secessione che ha messo una pietra tombale sulla questione meridionale. Basta citare la farraginosa gestione della pandemia da Covid-19. Quando la maggior parte dei casi ancora si concentrava nell’area padana, molti dicevano che, non appena il virus fosse arrivato qui, si sarebbe diffuso molto più rapidamente di quanto non avesse fatto altrove, poiché i nostri sistemi sanitari regionali, già inadeguati per l’ordinario, sarebbero crollati come travolti da uno tsunami. Ed è andata esattamente così: il covid ha reso evidente a tutti che gli ospedali meridionali sono ormai anticamere del camposanto piuttosto che luoghi di cura! Può definirsi democratica una Repubblica che non riesce a garantire a tutti i suoi cittadini un uguale diritto alla salute? Che, ad esempio, tollera con indifferenza il vergognosissimo
fenomeno del turismo sanitario? È tollerabile – tanto per rimanere in tema – che vi siano regioni a statuto speciale che trattengono sul loro territorio gran parte delle imposte pagate dai loro cittadini? Gli spunti polemici potrebbero essere molti ancora, meglio non divagare ulteriormente, tanto più che l’intera storia dell’Italia unita è segnata dal colonialismo predatorio a nostro danno! Dai Savoia in poi, chi ha messo le mani sul Sud lo ha fatto solo per saccheggiarlo e sottometterlo. Ma è ormai giunto il momento che ogni lavoratore si renda conto che un Paese dimezzato non può andare da nessuna parte! È l’ora dell’unione di tutti per riscattare la nostra condizione e mettere fine a questa vergogna!

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