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Le grandi fasi storiche, come quelle delle grandi rivoluzioni o della caduta dei grandi imperi, sono accadimenti la cui importanza e grandiosità è difficilmente comprensibile nell’immediato e da chi vi si trova coinvolto. Anche perché questi cambiamenti, salvo alcuni passaggi repentini e drammatici, avvengono in tempi lunghi e solo in seguito tendiamo a rappresentarli con un singolo evento e con una data precisa.
Dal 24 febbraio stiamo assistendo alla fine di un mondo e alla nascita del nuovo. Ma questo travaglio è destinato, probabilmente, a durare molti anni. E fino a quando questo processo non avrà raggiunto un certo grado di sviluppo, non saremo in grado di comprendere quanto profondo sarà questo cambiamento.
Non tutti se ne rendono pienamente conto. E anche quando questo accade la maggior parte fatica a comprendere come il mutare degli eventi, che per ora appare lontano, già influisce sul nostro modo di pensare e di agire.
Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che, come tutti i travagli della storia, anche questo sarà estremamente doloroso.
Sappiamo, e ce lo ripetono e ripetiamo in continuazione, che Putin non è un comunista e che la Russia non è l’Unione Sovietica. Bisogna però rendere merito a Putin per aver ricordato a tutti noi il significato del materialismo dialettico e quale sia la sua unità di misura fondamentale nella storia: la tonnellata.
Grandi cambiamenti sono intrinsecamente collegati a grandi sofferenze. Eppure la maggior parte di noi (mi riferisco a coloro che si dichiarano comunisti) sembrano vivere questi momenti come la più classica delle orchestre del Titanic: marciando tranquillamente verso il baratro come se nulla fosse cambiato.
A pagare più di tutti saranno, come sempre, le masse popolari e i lavoratori. Tuttavia dobbiamo essere certi che alla fine saranno loro ad uscirne vittoriosi e l’umanità avrà fatto un nuovo, grande balzo in avanti verso una società migliore e più giusta di quella in cui ci tocca vivere.
I grandi rivoluzionari ci hanno insegnato proprio questo: a guardare con fiducia verso l’avvenire. E soprattutto ad avere fiducia nella classe lavoratrice e nelle masse popolari, che sono le uniche a fare la storia.
Sono molti decenni ormai che in Italia non esiste più un partito comunista. Al suo posto esiste una miriade di soggetti che fanno, nel modo più disparato, tutto e il suo contrario in quanto comunisti: cosicché, considerando comunista chiunque fa qualsiasi cosa chiamandosi tale, la stessa identità comunista viene annullata, ridotta a semplice decorazione.
Vi è una completa separazione tra teoria e prassi; una condizione che appare inevitabile per chi agisce in questa situazione e che conduce inevitabilmente all’incoerenza verso i propri principi teorici e politici.
Ognuno di noi tende ad attribuire al partito caratteristiche e funzioni solo apparentemente simili. Tuttavia, salvo coloro che vivono nel mondo dei sogni virtuali, dove i comunisti marciano di vittoria in vittoria verso il sol dell’avvenire travolgendo ogni ostacolo, la maggior parte dei compagni si rende conto della generale inadeguatezza delle organizzazioni oggi esistenti e della loro impotenza di fronte all’esistente. Ed è ancora più evidente che, sia la classe operaia che le masse popolari, come dimostra ad esempio il crescente astensionismo, in realtà non si abbandonano alla borghesia né danno alcun credito a tutte quelle formazioni che si pongono alla sinistra dello schieramento politico, comprese quelle sedicenti comuniste.
La frantumazione delle organizzazioni che si definiscono comuniste è un fenomeno obbiettivo che caratterizza il processo di ricostruzione del partito da molto tempo, da quando esisteva ancora il Pci. E in tutti questi decenni nessun passo in avanti significativo è stato fatto per rimediare a questa condizione oltremodo invalidante per i comunisti.
Per porvi rimedio molti di noi hanno spesso invocato e accettato, anche forse solo per qualche istante, tutto ciò che potesse far intravedere una rapida soluzione.
Quanti appelli all’unità sono stati lanciati per rimanere, di lì a poco, lettera morta? Quante illusioni hanno dapprima animato e suscitato aspettative in molti compagni per poi gettarli nello sconforto e nella delusione?
Certo, un po’ di colpa l’hanno tutti coloro che hanno sempre atteso speranzosi l’arrivo di un messia, di una facile soluzione ai problemi. Rifiutando sempre di fare i conti con la realtà. Rifiutando cioè di capire che non esistono soluzioni facili a problemi complessi.
Ma l’era dei social è un’era di facili illusioni!
Come è facile cadere nella loro trappola! Per costruire un partito di massa basta moltiplicare all’infinito la foto di una bandiera rossa, aggiungere qualche zero ai numeri delle manifestazioni. Ciò che importa non è la realtà ma la sua rappresentazione sui social, è sufficiente fare un comizio davanti al nulla e gridare ai quattro venti che c’erano le masse, gridare al successo, alla rivoluzione imminente. E così si finisce per confondere i like con il consenso e il radicamento.
Sembra quasi di sentire Zelensky in procinto di marciare sulla Piazza Rossa. A furia di vendere balle si finisce col crederci. “Basta promettere l’impossibile e venderlo come garantito. Peresempiamente tu gli dici che li porterai in parlamento e loro ti applaudono”.
Il marxismo ci insegna che non sono gli eroi a fare la storia. Che non esistono taumaturghi in grado di risolvere ogni problema.
La strada che abbiamo dinnanzi è lunga, difficile e priva di scorciatoie. Che anzi, proprio quelle che sembrano esserlo, contribuiscono invece a riprodurre quelle stesse condizioni che sono di ostacolo alla ricostruzione di un partito comunista.
Non varranno trucchetti da politicanti o versioni post moderne dell’“appello ai fratelli in camicia nera” a cambiare in meglio le cose.
Chi oggi persegue quelle che crede facili scorciatoie e pretende fiducia per se stesso, esprime in realtà la sua sfiducia nei confronti della classe lavoratrice.
Qualcuno dice che essa si sia spostata a destra, ma anche se così fosse la risposta non può essere quella di seguirla sulla stessa strada per ricercare un presunto consenso elettorale che, in assenza di una vera organizzazione, sarebbe effimero.
Alla base di tutto vi è un totale scollamento tra propositi dichiarati e metodo utilizzato. Ancora una volta viene da dire che si è ciò che si fa e non ciò che si dice di essere o di voler fare.
Anziché il materialismo dialettico, il centralismo democratico e il metodo della critica e dell’autocritica, si è adottato quello della fiducia nel superuomo che sa tutto e ha capito tutto.
Ma il metodo della fiducia rende inutile e superfluo il ricorso alla discussione, al confronto delle idee. Rende inutile e superfluo ogni lavoro rivolto ad elevare le coscienze attraverso lo studio e la formazione.
È invece pienamente adatto all’epoca dei social dove il pensiero, l’essere, hanno lasciato il posto all’apparire. E allora, al posto di quadri e militanti preparati è meglio avere pupazzi che invece della riflessione si limitano all’adorazione.
Invece di compagni capaci di comprendere la realtà in cui viviamo per poterla trasformare si preferiscono bulletti di quartiere tutti chiacchiere e distintivo.
Mentre tutti i grandi dirigenti comunisti ci hanno insegnato la modestia, oggi vediamo prevalere la superbia, l’alterigia, la boria, il disprezzo per l’opinione altrui come in uno qualsiasi dei talk show televisivi a cui ci hanno abituati in questi mesi.
Mentre i grandi dirigenti comunisti stimolavano le idee promuovendo il confronto e il dibattito, oggi si promuove l’ubbidienza, la mansuetudine, la soggezione, la fiducia cieca.
I grandi dirigenti comunisti ci hanno insegnato che è proprio nei momenti più difficili che bisogna riflettere, discutere, confrontarsi. E che, soprattutto, bisogna pensare, possibilmente usando la propria testa.
Mentre la nuova realtà scaturita dalla guerra in corso dovrebbe spingerci ad assumere nuove responsabilità si ripiega su escamotage elettorali nella speranza che aprano le porte del paradiso/parlamento. Ancora una volta illudendo i compagni che da lì possa passare la ricostruzione di un più forte partito mentre, nella migliore delle ipotesi, qualcuno si sarà garantita la pensione.
Come ci insegnava Lenin, ancora una volta, occorre ricominciare “ab ovo”! Dal principio, dalle origini.
Perché il partito comunista torni ad esistere in Italia occorre uscire dal pantano della frantumazione, senza ripercorrere strade già rivelatesi inutili e dannose.
Per questo ciascuno dovrebbe prima porsi due interrogativi sul problema di come ricostruire il partito a partire dalla attuale situazione: se non ora quando? Se non io (o noi) chi?
Avendo la certezza che senza organizzazione, senza partito ogni nostra volontà resterà nel campo dell’immaginazione.
È tempo che i comunisti tornino a discutere, veramente, su cosa voglia dire essere tali, su cosa sia un partito comunista, su come esso vada costruito. Come diceva Secchia, è proprio nei momenti difficili che bisogna discutere di più. E la stessa storia del Pci ci insegna come proprio in uno dei momenti più difficili, la lotta contro il nazi-fascismo, non sia mai mancato il confronto, la discussione, la riflessione. Sempre accompagnati dall’azione! Teoria e prassi!
Perché non ci serve un’unità senza principi né una teoria fine a se stessa!
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