martedì 28 dicembre 2021

L’informazione e la guerra: intervista al giornalista Fulvio Grimaldi

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 Giornalisti dalla parte sbagliata | Il Foglio

Fulvio Grimaldi, classe 1934, è un giornalista, documentarista e inviato di guerra italiano con una carriera lunga più di cinquant’anni. Ha lavorato per la radio londinese BBC oltre che per varie testate giornalistiche: Paese Sera, ABC, Lotta Continua, Liberazione. Dal 1986 al 1999 è stato inviato per la RAI dalla quale se ne andò in polemica con il modo di trattare il conflitto in Jugoslavia. Da anni lavora come documentarista indipendente, ha condotto reportage di guerra e da zone altamente compromesse a livello ecologico-sociale. Spesso si è trovato ad essere l’unico giornalista indipendente presente in diversi teatri di guerra, fu l’unico testimone italiano della strage di Derry nell’Irlanda del Nord del 1972 (Bloody Sunday). La sua è una voce per molti versi unica nel panorama italiano, che descrive senza sconti.

Partiamo dalla sua lunghissima esperienza di giornalista che ha lavorato sul campo per tantissime realtà diverse, comprese quelle che oggi definiamo mainstream: qual è la traiettoria che traccerebbe nel tempo circa la reale possibilità di raccontare i fatti da parte degli inviati di guerra?

Raccontare i fatti, di guerra o di altre situazioni, comporta inevitabilmente, quando si è giornalisti, cioè esseri liberi e pensanti e non amanuensi, un punto di vista e, quindi, un’empatia, o una valutazione personale. Nella mia esperienza, che risale agli anni ’60 del secolo scorso, non è mai stato del tutto facile far prevalere una simile forma di riferire la realtà. Si prediligeva la formula, detta inglese, dell’obiettività. Una mistificazione che cela il conformismo. Tuttavia, la coscienza democratica, rafforzatasi dopo il 1945 alla vista delle catastrofi provocate dalle dittature, ha aperto spazi. Neanche il più autoritario degli editori o direttori voleva/poteva privarsi di una vernice di pluralismo. Allora, più a sinistra che a destra. Oggi, per quel che valgono queste qualifiche, è vero il contrario.

La mia esperienza in proposito risale al 1967, Guerra dei Sei Giorni tra Israele e gli arabi, dove ero inviato del quotidiano Paese Sera e del settimanale Vie Nuove, entrambi vicini al PCI. La posizione ufficiale del partito e, con minore rigore, di questi organi di stampa, era di sostegno a Israele, ritenuto vittima ontologica e portatore di democrazia e perfino socialismo (i Kibbuz). I miei servizi da quel conflitto e quelli successivi dalla Palestina e da tutta la regione, non rientrarono in questa visione, ma vennero tutti pubblicati senza censure. Il che, mi pregio di rivendicare, potrebbe aver contribuito, insieme ad altri elementi, sicuramente più decisivi, a cambiare la linea delle due pubblicazioni, ma anche del Partito, in favore di una maggiore comprensione delle posizioni arabe e palestinesi.

Molti anni dopo, ebbi modo di seguire a Baghdad l’aggressione USA/Nato del 2003. I miei reportage, fuori linea rispetto a un mondo mediatico quasi interamente “normalizzato”, vennero dal quotidiano per il quale lavoravo, Liberazione, confinati nella rubrica delle “Lettere”. Nulla di sorprendente, visto che l’inviato della CNN in Iraq mi aveva spiegato che gli emissari del Pentagono, collocati nella redazione internazionale, avevano a disposizione tre bottoni: verde, giallo, rosso, un semaforo. Verde per i servizi da Baghdad che potevano passare, giallo, per quelli da emendare, rosso per quelli da cestinare, perché non “corretti”.

Dopo che nel corso degli ultimi decenni la proprietà dei media, concentrata in una ristretta oligarchia, ha assunto per oggetto sociale solo apparentemente l’informazione, avendo sostituito al suo posto la propaganda e, dunque, la manipolazione della realtà, il modulo semaforo della CNN è diventata meccanismo universale. Gli organi professionali, Ordine e Sindacato, si sono perfettamente arruolati in questa procedura.

«Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode», è una frase di Thomas Hobbes. In base alla sua esperienza decennale nei teatri di guerra, quanto ritiene sia vera questa affermazione? In che misura i mass media possono accrescere la forza e la frode?

La forza è quella del condizionamento da parte di un datore di lavoro dal quale dipende il tuo salario e, quindi, il presente e il futuro tuo e della tua famiglia. La frode è quella che ti viene ordinata in base agli interessi del tuo editore e della sua appendice, il direttore. Per le guerre in preparazione si tratta generalmente di imbastire martellanti campagne di diffamazione del paese, o governo, che si vorrebbe liquidare. Campagne alla quale si aggiunge il plusvalore “etico” fornito dalle ONG, sedicenti dei “diritti umani”, ma scaturite dai grandi centri occidentali degli interessi politici ed economici, tipo Amnesty International, Human Rights Watch. Raramente manca la benedizione accreditatrice dei vertici di certe importanti confessioni religiose. Gli esempi sono sotto gli occhi e nelle orecchie ogni giorno, dalla Russia alla Cina, dall’Iran al Myanmar, dall’Egitto alla Siria, a tutte le entità che, in qualche modo, costituiscono modello sociale alternativo e un ostacolo alla globalizzazione a comando unico.

Nell’esecuzione della guerra e nei suoi esiti, si tratta di annichilire la voce del nemico e valorizzare la propria, per quanto menzognera, ma incontestabile, data la sostanziale unanimità degli organi di comunicazione.

Nella mia esperienza, ricordo il palazzo della TV di Stato a Belgrado, incenerito nei primi giorni dell’attacco Nato. Nella Guerra del Golfo del 2003, ho visto dalla finestra polverizzare il ministero dell’Informazione iracheno di fronte, nella seconda notte dei bombardamenti. I giornalisti che, contro il “suggerimento”, fornito direttamente da Washington, di non intralciare la “verità” della stampa embedded con le truppe statunitensi, riferendo invece da Baghdad quanto vedevano succedere sotto i bombardamenti a tappeto e, inevitabilmente, quanto sentivano dai comunicati del governo di Saddam Hussein, hanno subito gli effetti dell’irritazione USA. La terrazza dalla quale trasmettevano quasi tutte le testate internazionali venne spazzata via da un raffica di bombe e le prime cannonate, all’ingresso dei carri armati USA a Baghdad, colpirono l’Hotel Palestine, dove alloggiava la maggioranza degli inviati, facendo tre morti tra i colleghi.  

I mass media sono un mezzo ideale per mostrare la forza di una nazione e dispiegare la narrazione dei propri principi ispiratori e dell’identità del paese e del suo popolo. «Si vis pacem, para bellum», diceva il romano Vegezio: qual è il ruolo dei mass media nel preparare la guerra? E, in quanto proprietà di magnati, grandi gruppi industriali, multinazionali o sotto il controllo governativo, i mass media hanno una propria agenda? 

Negli ultimi trent’anni la concentrazione delle testate in mani sempre più ridotte e potenti, vedi, in Italia, Elkann, De Benedetti, Cairo, le cui fonti di profitto da sostenere non sono i lettori, ma attività finanziarie e industriali legate spesso alle condizioni geopolitiche, non permette affatto di esprime la forza politica, morale e intellettuale di una nazione. Al massimo esprime la forza di alcune cosche, sostanzialmente mafiose, che, grazie alla potenza manipolatrice, determinano anche sia la forza, sia la debolezza dei regimi. I massmedia, in quanto operatori della comunicazione, non hanno altra agenda che quella dei ragazzi di bottega di fare bene le pulizie.

In quanto mezzi di comunicazione di massa, ormai divenuti globali, i mass media sono capaci di arrivare nel campo avversario ben prima di carri armati e soldati, colpendo l’immaginario collettivo del “nemico” e fornendo modelli rivoluzionari prestabiliti. In tal senso, ci può spiegare in che modo i mezzi di comunicazione di massa possono essere considerati delle vere e proprie armi a disposizione di chi detiene le leve del potere? In che modo posso essere utilizzati?

È la base delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, iniziative imperialiste che, quando non riescono a provocare cambi di regime in direzione filo-occidentale attraverso la manipolazione dell’immaginario collettivo, di solito precedono le aggressioni armate. Lo si è visto in Libia e Siria. Qui svolgono il loro ruolo sia la stampa internazionale, con le campagne di cui ho detto prima, sia organi locali che riescono ad accreditarsi e funzionare, sebbene riconosciute come a servizio dell’aggressore. A Belgrado, ricordo la Radio-TV B-92, una delle tante del circuito di George Soros, che in pieno governo di Slobodan Milosevic, detto “autoritario”, ma dove si votava più spesso e più liberamente che in tanti paesi “civili”. Questa emittente sparava a zero contro ogni cosa jugoslava e serba e, per questi meriti, venne visitata e omaggiata da una di quelle formazioni “sociali”, come le “Tute Bianche” di Luca Casarini, la cui caratteristica più identitaria è l’ambiguità. Già attiva tra gli zapatisti del Chiapas, oggi è al timone delle navi impegnate nella sottrazione a paesi del Sud delle loro risorse umane.

Da due anni viviamo una situazione di assetto bellico, tanto nella narrativa proposta dai politici e dai governi quanto nella loro proposta e azione politica. In che modo i mass media hanno contribuito a questo stato di cose? 

Dobbiamo fare una netta distinzione tra media di massa, o generalisti, come li chiamano, vale a dire tutti quelli del regime in atto e della relativa opposizione del re, salvo eccezioni molto rade, e i media che in queste temperie degli oligopoli mediatici e della repressione di tutto ciò che resta fuori dalla traccia stabilita, si sono costruiti uno spazio in rete e, in un caso felice, anche sul digitale terrestre. A questi ultimi operatori onesti e liberi dell’informazione dobbiamo in buona misura la possibilità, grazie alle fessure che riescono ad aprire nei muri dei menzognifici, di arrivare a conoscenze altrimenti negate. E non è poco, data la potenza di fuoco di questa vera e propria corazzata dei mass media a testate unificate. È chiaro che acquisire il controllo su tutti i maggiori organi di stampa è stato propedeutico alla guerra sanitaria programmata dall’élite contro le proprie popolazioni. Del resto non era stato Udo Ulfkotte della Frankfurter Allgemeine Zeitung, sorprendentemente e immaturamente scomparso, a ragguagliarci in anticipo sull’infiltrazione dei servizi statunitensi in tutte le più importanti testate europee e sulla sconfinata serie di giornalisti a libro paga della CIA? 

Mario Monti, senatore a vita, ha recentemente affermato che, vista la situazione di “guerra alla pandemia” che stiamo affrontando anche l’informazione dovrebbe rispondere a logiche belliche e il governo dovrebbe quindi somministrare le notizie in giusta dose; in altre parole, la situazione di emergenza giustifica la censura e la manipolazione delle informazioni: cosa pensa riguardo?

Da tutto quello che ho fatto nella mia professione e ho risposto fin qui, non può non scaturire una risposta chiara e univoca. Mario Monti, a suo tempo istruito da JP Morgan su come irregimentare l’Italia e trasferire le ricchezze dei suoi cittadini in alto e all’esterno, merita il famoso “giudice di Berlino” che lo processi per alto tradimento. È un esito che potrebbe, dovrebbe, arridere, se la sorte e la nostra coscienza ci confortano, a parecchi dei personaggi, donne e uomini, che determinano le nostre condizioni attuali e il destino al quale queste condizioni dovrebbero essere propedeutiche. 

Il senatore a vita Monti, quindi nominato e non eletto, nell’augurarsi “somministrazione” di informazioni “dosate dall’alto” e attraverso strumenti “meno democratici”, in contiguità con quanto ci viene somministrato in termini di violenza medica e repressiva, non formula un auspicio. Con artificio grammaticale, mette al futuro una realtà presente e pienamente attuata. Rispondendo alla domanda, non c’è nessuna situazione d’emergenza, se non quella apoditticamente e arbitrariamente imposta da un manipolo di squadristi dell’era tecnologico-digitale-sanitaria a fini della monopolizzazione della ricchezza, quindi del potere, quindi della vita.

[di Michele Manfrin]

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