giovedì 1 aprile 2021

L’Europa contro il Lavoro.

Come ho ricordato in un mio post di ieri, per capire in che direzione andavano i quasi 50 provvedimenti, alcuni dei quali impropriamente definiti riforme, licenziati da un succedersi vario di governi dalla fine degli anni ’90  in poi, basterebbe guardarsi intorno e verificare se i loro capisaldi hanno prodotto l’effetto promesso di mettere in moto l’occupazione.

 

ilsimplicissimus Anna Lombroso

E per ricordare, ce ne fosse bisogno, che non è lecito imputare  la demolizione dell’edificio dei diritti, delle conquiste e della garanzie del lavoro all’empio ventennio berlusconiano, possiamo cominciare dal cosiddetto Pacchetto Treu, anno 1997, Presidente del Consiglio Romano Prodi, il cui obiettivo, cito, consisteva  nella “modernizzazione del diritto del lavoro novecentesco incapace di svolgere le sue funzioni di tutela e promozionali in un mercato contraddistinto, in quegli anni, dall’avvento della terza rivoluzione industriale e dalla crescente globalizzazione”, perciò concentrato  sulla flessibilità in entrata (fu permesso il lavoro interinale), sul superamento del monopolio pubblico del collocamento, su nuove modalità per la gestione del rapporto di lavoro (part-time) e su una rinnovata attenzione verso la transizione dalla scuola al lavoro (apprendistato e tirocini).

Quei due punti in più registrati dalla quantità di posti di lavoro ma non dalla qualità, misero le basi della Legge Biagi (2003, firmata dal Presidente Berlusconi e dall’allora ministro del Lavoro Maroni)  accreditatasi con un largo appoggio bipartisan, proprio per l’intento di «aumentare […] i tassi di occupazione e promuovere la qualità e la stabilità del lavoro», grazie alla “regolazione di nuove tipologie contrattuali, all’attenzione riservata al rapporto tra formazione e lavoro con il riordino del contratto di apprendistato; ai maggiori spazi concessi alle Agenzie per il lavoro, anche al fine di sviluppare il ruolo degli enti bilaterali”.

Vien proprio da dire che “è l’Europa che ce lo chiede” non è stato solo l’ammonimento inconfutabile dei sacerdoti che invitavano alla devozione e all’atto di fede comunitario, ma un principio irrinunciabile che ha intriso con il veleno della discriminazione, della disuguaglianza, dell’incertezza la produzione normativa del nostro recente passato, con la prima modifica dell’articolo 18 (2012) funzionale all’applicazione della Legge Fornero, durante il primo commissariamento del Paese con il golpe bianco di Napolitano/Monti e poi con il Jobs Act, anticipato dalle disposizioni per la liberalizzazione dei contratti a termine (d.l. 20 marzo 2014, n. 34) e declinato in otto decreti legislativi approvati nel 2015 e seguiti, nel 2016, da un decreto correttivo e, nel 2017, dal c.d. Jobs Act degli autonomi e del lavoro agile dedicati al “riordino” degli ammortizzatori sociali, alla regolazione delle tipologie dei contratti a tempo indeterminato, alla “conciliazione vita professionale e vita privata”, alla semplificazione  e alla videosorveglianza.

Presentato con l’etichetta usurpata di “riforma”, il Jobs Act che già dal nome rivela la natura subalterna e gregaria della sua impostazione attribuì i successi, mai confermati dalla realtà, e nemmeno dai dati Istat e Inps, nella creazione di nuovi posti alla, cito ancora, “generosa decontribuzione concessa a tutti i datori di lavoro che avevano assunto a tempo indeterminato nel corso dell’anno 2015”, un incentivo costato alle casse dello Stato ben 18 miliardi e finito in quelle padronali, visto che ruotava attorno a meccanismi premiali per le imprese senza intervenire minimamente sulla qualità dell’occupazione, sulle retribuzioni, sugli investimenti in sicurezza oltre che innovazione.

Queste ultime normative hanno trovato una ragion d’essere teorica e “morale” e un humus favorevole nell’ideologia dell’austerità, il bastone che ha tenuto dritto il corpaccione del tiranno per anni, e che ha determinato un doppio effetto a  svantaggio delle “classi subalterne”: quello  di autorizzare il taglio diretto della spesa sociale; e quello grazie al quale nel protrarsi della crisi, nell’incrementarsi della disoccupazione di massa, si indebolisce la capacità contrattuale di lavoratori tramite una gamma di ricatti e intimidazioni, dalla sostituibilità tra occupati e disoccupati, dalla pressione virtuale della concorrenza degli immigrati, dalla conflittualità alimentata da arte tra “garantiti” e precari, anche quelli, come gli stranieri, pronti a tutto per la sopravvivenza e funzionali a livellare in basso il livello delle rivendicazioni. E’ indubbio che ci sia anche un contenuto più che morale, moralistico, nella creazione di una falsa coscienza nutrita dai sensi di colpa coltivati grazie all’imputazione di avere voluto troppo a danno delle generazioni a venire, e dunque alla condanna conseguente al sacrificio, all’abdicazione penitenziale e alla rinuncia alla dignità e ai diritti.

È perfino banale ricordare come il Mezzogiorno continentale sia stato da subito identificato come il laboratorio per testare il dominio di una sovranità sovranazionale e la fisiologica riduzione di democrazia che ne consegue. All’Europa piace vincere facile, strafare per sentirsi più forte con noi, che non abbiamo nemmeno tentato un referendum per sottrarci ai suoi diktat, che abbiamo subito senza batter ciglio la cancellazione della scadenza elettorale chissà fino a quando e l’imposizione di una commissario liquidatore che da anni anticipa esplicitamente le sue soluzioni finali cui siamo destinati e che troviamo scritte di sua mano in lettere, programmi globali, interviste, grigie profezie non per questo meno fosche sibilate in Senato.

Si vede che il processo per imporre la gestione da remoto, andava accelerato con un secondo putsch tecnico, si vede che non era sufficiente l’atto di obbedienza alla monarchia sottoscritto col nostro sangue da governi incaricati di scrivere le leggi sotto dettatura.

Ogni tanto il faraone rende merito a quegli scriba. In questi giorni abbiamo appreso che a smentire il  Comitato europeo dei diritti sociali che con il sostegno della Confederazione Europea dei Sindacati, si era espresso denunciando che il Jobs Act  violava il diritto di lavoratrici e lavoratori a ricevere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione in caso di licenziamento illegittimo, ci ha pensato la Corte di Giustizia europea sentenziando la congruità della riforma di Renzi con il diritto comunitario.  

La Corte, istituita con il compito di garantire l’osservanza del diritto comunitario nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati fondativi dell’Unione, si è pronunciata in merito al caso di un dipendente della Consulmarketing, licenziato illegittimamente insieme a altri 349 colleghi nel  2017, unico a non essere stato successivamente reintegrato grazie al ricorso accolto dei lavoratori, essendo stato assunto dopo l’entrata in vigore della “riforma” e avendo perciò diritto soltanto a un risarcimento per il comportamento illegale del datore di lavoro.

E non basta la rivendicazione della discriminazione e dell’ingiustizia a norma di legge, i giudici  hanno giustificato la decisione riaffermando che la misura del Jobs Act non solo è legittima e compatibile con il diritto europeo, ma possiede la qualità di  costituire un incentivo per la creazione di nuovi posti di lavoro, secondo il principio proporzionale impiegato anche nelle rappresaglie: per far lavorare qualcuno bisogna licenziare un congruo numero di sfortunati o meglio, di immeritevoli.

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