https://insorgenze.net
Il ruolo politico, assolutamente centrale, avuto dai militanti prigionieri nella vicenda brigatista, una caratteristica che innova sulla consueta tradizione rivoluzionaria che vedeva invece i prigionieri esclusi dalla vita politica dell’organizzazione esterna; il peso da loro giocato in alcuni passaggi cruciali: dal rapimento Moro, alla successiva contestazione della Direzione esterna con rivendicazione non solo dell’elaborazione della linea politica ma anche della direzione dell’organizzazione, fino alle spinte scissioniste che portano le Br alla spaccatura in più tronconi. La difficoltà di far capire al collettivo dei prigionieri che l’alto livello delle lotte nelle carceri speciali non era riproducibile all’esterno, dove il riflusso aveva travolto i movimenti sociali e negli stabilimenti Fiat prendeva forma la sconfitta della classe operaia. L’incapacità di mettere in pratica una nuova strategia dopo il rapimento Moro, la fine di una elaborazione unitaria con la fuga in avanti di chi credeva fosse maturo il tempo della «guerra civile dispiegata» o riteneva una soluzione rinchiudersi nel recinto della fabbriche, già stravolte dalla ristrutturazione produttiva. Lo smantellamento di intere colonne causato dal fenomeno dei “pentiti”, le torture dispiegate contro gli arrestati e il rifiuto di riconoscerle di una parte importante dei prigionieri, la proposta di «ritirata strategica» che suscitò aspre reazioni e successive scissioni sul modo di interpretarla. Barbara Balzerani riflette sulla sua esperienza all’interno della Brigate rosse a partire dal bilancio elaborato a metà degli anni 80 da un gruppo di militanti, a loro volta confluiti nelle Br-pcc
Silvia De Bernardinis, Venerdì 19 marzo 2021
È uscito da poche settimane il libro che ho curato, Brigate rosse: un diario politico,
per DeriveApprodi. Chi lo leggerà si troverà di fronte a un testo, se
non distante, sicuramente differente dalle ricostruzioni storiche fatte
dagli storici. È un’analisi densa, complessa e non facilmente
sintetizzabile se non per linee generali, con una costruzione del testo
metodologicamente molto chiara che analizza pezzo per pezzo la storia
brigatista: parte dal contesto politico, prende in esame partiti
politici, movimento di classe, sinistra rivoluzionaria, guerriglia e
antiguerriglia, proposta politico-strategica delle Br e verifica alla
prova dei fatti. Una ricostruzione a 360 gradi che è storia delle Br e
storia dell’Italia degli anni 70, al di là delle intenzioni degli
autori. Più che farti domande ti propongo alcuni temi di carattere
generale che emergono dal testo su cui può essere utile spendere qualche
parola. Diciamo prima di tutto che i compagni protagonisti del
confronto, delle discussioni da cui ha origine il documento che
DeriveApprodi ha deciso di pubblicare, sono stati tra quelli con cui hai
condiviso sia la fase iniziale della tua esperienza nelle Br, nella
colonna romana, sia il periodo successivo, quando ti sei ritrovata a
gestire in un ruolo dirigente l’eredità brigatista e la parte finale
della sua storia, per usare le tue parole, a cercare di «tradurre in
pratica politica e organizzativa quel controverso bilancio». Fa
eccezione Carlo Picchiura che hai conosciuto dopo il tuo arresto, nel
1985, durante i processi, uno dei pochi che dal carcere aveva aderito
alle Br-Pcc dopo la spaccatura. Si tratta dei compagni politicamente più
vicini e di discussioni che hai vissuto direttamente.
Si,
ed è difficile parlarne ora che Piero, Gigi, Salvo e Picchio non ci
sono più. Mancanze, tra le altre, che hanno reso ancora più vuoti questi
anni così difficili da vivere. I legami nelle Br non sono mai stati
familistici visto il prevalere su tutto della buona salute
dell’Organizzazione e la precarietà della nostra vita a piede libero, ma
è indubbio che il sentire i compagni un bene prezioso di cui godere e
da preservare, dava forza anche nelle condizioni più dure e compensava
la provvisorietà del domani di ciascuno di noi. La fiducia
incondizionata è una reciprocità di sguardo che non sempre la politica
concede ma che pareggia i conti con le proprie paure e incertezze quando
si ha la fortuna di viverla. Cercare di essere all’altezza dell’altro
insegna a superare la competizione e i protagonismi. Credo renda
migliori.
Questa pubblicazione rende giustizia a una realtà
misconosciuta che poco appare nella storia delle Br. Infatti nella
vulgata con cui è raccontata emergono pochissimi nomi in confronto ai
tanti militanti che l’hanno attraversata e alla loro qualità. Anche
questo concorre alla distorsione del suo patrimonio politico e del senso
stesso dell’agire in un’organizzazione di comunisti. Come se non fosse
un prodotto collettivo in cui ciascuno, per come sa e può, è essenziale a
comporre il tutto ma la raffigurazione elitaria di qualche testa
pensante nell’insignificanza di tanti anonimi e invisibili, senza nome,
faccia e identità. E questo riguarda anche i compagni che hanno lavorato
a vario titolo a questo testo dal carcere e che sono stati tra i pochi
che ho avuto accanto negli ultimi difficilissimi anni di militanza. La
spaccatura di cui parli, quella col Partito della guerriglia, non è
stata la sola ma certamente la più devastante sia per l’inconciliabilità
dell’analisi, delle tesi politiche e delle pratiche, sia per l’adesione
massiccia dei nostri compagni in carcere. Cosa di non poco conto in
quel periodo di scarse certezze. Per questo il testo che hai curato è
ancora più prezioso, spiragli di luce nella opacità del presente per chi
era rimasto fuori a resistere che, purtroppo, sono caduti nel vuoto
(forse per un malinteso rigetto di ogni contributo proveniente dal
carcere?) e un rimedio di senso nel dilagare di follia che sembrava
imperversare tra i seguaci del partito della guerra civile in atto. Una
mano tesa nella navigazione rovinosa della nostra crisi politica e del
perfezionamento scissionista dei prigionieri del «nucleo storico». Le
riflessioni di cui tratta il testo sono quelle che hanno impegnato i
compagni prigionieri rimasti nelle Br-Pcc che non potevano che andare
all’origine di una storia per poterne valutare i punti di criticità, gli
errori, la necessità di adeguare l’analisi e la pratica alle nuove
condizioni. Fino all’interrogarsi sulla percorribilità stessa del
terreno di lotta per come l’avevamo sempre inteso, in cui l’azione
armata costituiva la esemplificazione, il condensato di un programma
politico reso possibile dai contenuti presenti nelle punte più avanzate
del movimento rivoluzionario di quegli anni e necessario per continuare
ad avanzare.
Di quelle lotte interpretavamo l’insito contenuto
rivoluzionario, di potere, traducendolo in una strategia
politico-militare di guerra di lunga durata. Niente a che vedere con il
sindacalismo o i bracci armati dei movimenti, niente con
l’insurrezionalismo. Tutte concezioni queste che caratterizzavano molta
parte delle altre organizzazioni rivoluzionarie e che verranno
riproposte dai diversi spezzoni in cui si è frantumata l’Organizzazione.
Si è trattato di uno scontro di idee portato avanti attraverso un
intenso lavoro politico all’interno dei movimenti. Questo può spiegare
anche la adesione alle Br di molti compagni che avevano animato il
movimento del ’77 con la sua radicalità di contenuti, disperso dai
carrarmati di Cossiga e la sua impossibilità di tenuta attraverso
scontri armati di piazza.
Alcune considerazioni sul testo: il contesto, il fine per cui
è stato scritto e il metodo con cui è stato scritto questo documento
gli danno alcune qualità: prima di tutto non è un documento ideologico
ma politico, il fatto di non dover sostenere una tesi lo mette al riparo
dal pericolo di forzare la realtà alla propria tesi. Un’analisi
concreta su fatti concreti, marxista. Considerando il momento in cui
viene proposto, dominato da un dibattito pressoché ideologico, riflesso
della crisi delle Br, mi sembra un dato significativo. Inoltre, sia il
fatto che nasce per cercare di risolvere i punti critici e i limiti
nella condotta della guerriglia e per capire se e quali fossero gli
scenari possibili per la lotta armata, sia il fatto di essere scritto a
partita non ancora formalmente conclusa, fa sì che non cada in
autogiustificazioni, rischio sempre presente nelle ricostruzioni ex
post.
Si, la metodologia adottata dagli estensori è
propria di un contributo di analisi politica e non ideologica, né
tantomeno programmatica. Non è un caso che quei compagni sostenessero la
battaglia politica in corso a fianco delle Br-Pcc anche a partire dal
ruolo che i prigionieri avrebbero dovuto assumere nel dibattito interno.
Questo è un capitolo importante nella nostra storia e ne riflette luci e
ombre. I nostri prigionieri avevano sempre avuto una grande importanza
nelle dinamiche interne dell’Organizzazione. Erano la nostra faccia
pubblica, erano tra i fondatori dell’Organizzazione, avevano grandi
capacità politiche, erano i magnifici protagonisti del processo
guerriglia e delle lotte in carcere. Ma, forse anche a causa della
contraddittorietà dei nostri dispositivi interni, bisogna concludere che
hanno negativamente condizionato le nostre scelte e, da un certo punto
in poi, esasperato i nostri problemi politici. Soprattutto quando si è
evidenziata la crisi di superamento della fase della propaganda armata e
l’impasse della nostra capacità di elaborazione programmatica, le
forzature da parte loro non hanno certo contribuito a dipanare la nostra
inadeguatezza. In questa strettoia si è materializzato l’intervento a
gamba tesa della maggior parte dei prigionieri coagulati intorno alle
tesi del «nucleo storico». Non si è trattato di un contributo politico
teso ad affrontare le nuove condizioni dello scontro a cavallo degli
anni ’80 tutto da verificare nella pratica ma dell’elaborazione di un
dettagliato programma valido per tutta l’organizzazione. Nonostante i
tentativi di mediazione e di limatura degli eccessi di un’analisi
completamente sballata circa le condizioni dello scontro, le tesi di una
rivoluzione alle porte, mutuata dalle condizioni delle lotte in
carcere, hanno cortocircuitato il già squilibrato rapporto dentro-fuori
facendolo deragliare su un capovolgimento delle cause-effetto. Secondo
quei compagni le difficoltà dell’Organizzazione non erano di carattere
politico a fronte di una difficile transizione in una fase di offensiva
del nemico e di deciso rallentamento di passo della conflittualità di
classe, ma derivavano da una cattiva conduzione da parte della sua
direzione. Fino al precipitare di questa bufera intestina in mozioni
formali di sfiducia nei confronti dell’esecutivo e operazioni
scissioniste di pezzi dell’organizzazione. Va sottolineata la varietà di
tesi politiche delle varie fazioni in cui s’è frantumata la compagine
Br, dal sindacalismo armato, allo scioglimento nel movimento, alla
centralità dei settori emarginati e del carcere, tutte però confluenti
nel chiedere legittimità ai prigionieri. Su tutto è emersa la velleità
di superamento della crisi attraverso la decapitazione della direzione
nazionale ritenuta un freno alle potenzialità rivoluzionarie delle masse
nel presente. Sta di fatto che la debolezza dell’organizzazione ha reso
possibile l’impensabile, ossia la pretesa di una sua direzione
dall’interno del carcere. E se questo, nei fatti, ha dimostrato tutta la
sua non praticabilità ha anche avuto tutto l’agio di aumentarne le
difficoltà. In tutta evidenza la qualità e le finalità del contributo
del testo in esame è di tutt’altra natura e rispondeva al compito da
parte dei prigionieri di dare un supporto all’organizzazione nella
lettura della fase più difficile della sua storia, senza interloquire
nella linea politica. Contributo politico senza sconti e reticenze che
quei compagni assolvevano nella consapevolezza di avere come compiti
fondamentali non essere di intralcio all’Organizzazione esterna, di
tenere conto dei rapporti di forza per non creare condizioni di
detenzione invivibili e, all’occasione, segare le sbarre e raggiungerci.
Nella consapevolezza di essere ostaggi del nemico, sottoposti a un
incessante controllo e impossibilitati a verificare nella pratica le
loro tesi. Nella assunzione di una responsabilità collettiva e non
personalistica di cui rendere conto. E nonostante il minoritarismo, il
ritardo e la scarsa efficacia nel riuscire a contenere la frana sotto
cui è rimasta seppellita persino la memoria del nostro tentativo di
«assalto al cielo», resta un documento decisivo per chiunque voglia
comprenderne la complessità, al di là delle celebrazioni o della
svendita. Soprattutto perché quei nodi politici su cui anche le Br si
sono incagliate sono rimasti irrisolti. In primis dai fuoriusciti che,
va sottolineato, a decenni di distanza non si sono curati di fare un
bilancio delle loro scelte e renderne conto, come le Br hanno sempre
fatto.
Il testo, proprio per come è costruito, fa
emergere con grande chiarezza il significato di lotta armata come
strategia politica, un concetto molto ben definito nella storia delle
Br, come hai appena chiarito sopra, e che anche all’interno delle Br nel
periodo della crisi è stato confuso con altro, e di cui oggi ancor di
più, per il modo in cui è stata divulgata nel senso comune non solo la
storia delle Br ma tutto il contesto degli anni ’70, si è persa traccia.
Le Br nascono dalle lotte del 1968-69 e attraversano tutto il ciclo di
lotte degli anni 70, e anzi si spingono anche oltre. Si trovano ad agire
in due contesti diversi, e in condizioni diverse, e cioè, in un lasso
di tempo brevissimo, tra il 1974 e il 1978-79, passano dall’esercitare
un certo peso all’interno delle fabbriche, a esercitare un peso politico
a livello nazionale. Un passaggio che avviene in un contesto diverso da
quello che ne ha segnato la nascita e coincide con un processo di
ristrutturazione mondiale in corso, da una situazione che vede la classe
operaia all’offensiva ad un quadro che si fa sempre più resistenziale.
Vi trovate in un groviglio di contraddizioni.
Il
progetto politico delle Br nasce sulla concezione guerrigliera di
dimostrare la fattibilità oltre che la necessità di assunzione di una
mentalità e una strategia offensive. Nelle migliori tradizioni del
movimento rivoluzionario non si trattava di concepire la legittimità
della lotta armata come reazione difensiva alla violenza dello Stato in
una dinamica a perdere di rincorsa della repressione né tantomeno
giustizialista. Era il livello e la qualità dello scontro di classe che
la motivavano. Credo che le lotte operaie che avevano conquistato
l’autonomia di classe ne fornissero un inequivocabile esempio nella
prassi di guadagnare terreno e strappare conquiste sul campo stando
sempre un passo avanti alla mediazione contrattuale. Nei graduali
aggiustamenti della linea politica nel vivo dello scontro, attenzione
massima era rivolta a una analisi in grado di esaminare i piani
strategici del capitalismo per poterne anticipare le mosse. Questo in un
quadro di belligeranza di una parte significativa del movimento operaio
e rivoluzionario e di rafforzamento del campo rivoluzionario
internazionale. La focalizzazione del processo di perdita dell’autonomia
nazionale dei paesi capitalistici (nascita dello Sim) ne è una
esemplificazione a fronte di una progettualità del nemico di governo
della crisi del modello fordista, globalizzando i mercati e accentrando
il capitale finanziario, delocalizzando le fabbriche, ristrutturando la
produzione, precarizzando il lavoro e le condizioni di vita di vasti
settori proletari. E, su tutto, dichiarando guerra alla conflittualità,
condizione sine qua non per garantire i profitti delle aziende
multinazionali. Al grande capitale occorreva stabilire nuovi margini
della democrazia parlamentare che potevano contenere sia colpi di stato e
dittature (come in Cile e in Argentina) sia l’autoritarismo «ferreo» di
governi alla Thatcher. Da questo punto di vista si rende comprensibile
il salto all’attacco al cuore dello Stato come scelta strategica delle
Br per rinsaldare e dare prospettiva ai rapporti di forza favorevoli
conquistati nelle fabbriche e nei territori. Questo il quadro ed è
indubbio che, almeno in Italia, i progetti della ristrutturazione
liberista della produzione e dei rapporti sociali non hanno avuto vita
facile grazie al movimento rivoluzionario e alla lotta armata. Quadro
che cambia con l’arretramento di quel movimento e le modificazioni a
livello internazionale a favore del fronte imperialista.
Che la
tendenza dei programmi del grande capitale fossero quelli analizzati è
da tempo sotto gli occhi di tutti nella loro piena realizzazione. Negli
anni in cui le Br l’hanno teorizzata erano appunto una tendenza, un
processo e non un dato di fatto, soprattutto nell’«anello debole della
catena» come l’Italia. Dentro questo quadro contraddittorio abbiamo
oscillato tra una visione materialistica dello stato delle cose presenti
e la sballata convinzione di un precipitare all’ordine del giorno delle
dinamiche di rinnovamento/riorganizzazione della politica e
dell’economia. Per questo nella testa di qualcuno si era formata la
convinzione che non rimanesse che armare le masse essendosi esaurito
ogni spazio di tutela dei loro interessi materiali immediati. Ammesso
che le condizioni di una rottura rivoluzionaria ci fossero, i tempi in
politica non sono un accidente che si possono dilatare o accorciare a
proprio piacimento e i nostri sono stati decisamente sfasati mancando la
periodizzazione della «lunga durata» e il suo andamento affatto
lineare. Fino a che tutto è diventato una rincorsa a fiato corto nel
tentativo di rimediare agli errori. Fuori tempo massimo.
C’è un dato che sembra essere costante nella storia delle Br, contraddittorio perché al tempo stesso ne costituisce la forza e l’originalità ma anche uno dei punti deboli e dei limiti, e cioè il carattere sperimentale, che discende dalla loro eterodossia. Il non avere modelli di riferimento gli dà la libertà e le mette in condizione di dover sperimentare. Come si dice nel testo, si parte «da una base progettuale che tende a precisare, per approssimazioni successive, la propria proposta politico-strategica, come anche le soluzioni tattiche».
Ma la sperimentazione non è sempre stata la caratteristica dei processi rivoluzionari? A quale modello si è ispirata la Cina di Mao, la Cuba di Castro o le guerriglie dell’America latina? A quale la rivoluzione dei curdi del PKK, dei greci del «17 novembre», dei compagni dell’Eta, degli zapatisti e quella guidata da Sankara? È certo esistito un paradigma rivoluzionario novecentesco che ne ha dettato i caratteri generali ma sul terreno della pratica ciascuno ha dovuto fare i conti con la propria composizione di classe, con la storia e le tradizioni sociali del proprio paese, con la propria collocazione in ambito internazionale, con il grado di consenso/controllo del potere e, soprattutto, con il livello dello scontro di classe. Se il Partito comunista cinese avesse dovuto considerare la classe operaia il soggetto centrale del processo rivoluzionario, avrebbe dovuto inventarsela. E non è forse vero che certe direttive da Mosca abbiano «ingessato» l’andamento delle rivoluzioni specie nei paesi in via di decolonizzazione? Noi siamo stati il frutto di una fuoriuscita dal modello insurrezionale, partito-esercito, ormai impraticabile nelle situazioni metropolitane al livello di maturazione del conflitto rivoluzione/controrivoluzione. Troppi i dispositivi di controllo, non ultimi quelli di partiti e sindacati. Troppi i livelli di differenziazione e relativa mediazione. Al contrario la guerriglia offriva un modello di possibilità di attacco anche ad alto livello con una forza militare ridotta. Quello che conferiva incisività non era la sua endemicità. Ossia non era decisiva la quantità e il livello delle azioni messe in campo quanto la capacità di cogliere il maturare delle contraddizioni di classe, i piani del nemico, i punti deboli del suo schieramento, il livello del peso politico della guerriglia nel movimento rivoluzionario. Questo ha comportato la necessità di affinare le armi dell’analisi di contesto e compiere i salti necessari per non perdere la capacità offensiva e disperdere i rapporti di forza conquistati. Ossia sperimentare sul campo la validità delle proprie analisi.
Diversamente da altre organizzazioni combattenti le Br hanno
sempre identificato nella Dc il nemico principale. Ma il ciclo di lotte
di quegli anni vede anche lo scontro tra due vie e due concezioni
presenti all’interno del movimento operaio: da una parte la tradizione
terzinternazionalista e il progetto di integrazione della classe operaia
nello Stato e dall’altra la centralità del conflitto capitale/lavoro,
la guerra di classe, la distruzione dello Stato. Compromesso storico e
attacco al cuore dello Stato.
Si, nonostante il peso
dell’azione controrivoluzionaria del partito e del sindacato comunisti
le Br hanno condotto una battaglia politica nel movimento per affermare
la centralità della Democrazia cristiana nel campo nemico. Tra noi e i
comunisti c’era una contrapposizione di altra natura. Proprio perché si
trattava del conflitto tra due anime interne alla classe, per dirla alla
cinese, si trattava di una «contraddizione in seno al popolo» e come
tale andava trattata. La presenza negativa del più grande partito
comunista d’occidente in questo paese non è certo stata secondaria nel
procedere dello scontro, ma questo nulla toglie al fatto che si
trattasse di contraddizioni reali che vivevano all’interno della classe
operaia. La Dc deteneva il potere e non lo avrebbe mai ceduto ai
comunisti, nonostante la loro forza elettorale e la loro fattiva
collaborazione. Proprio le vicende legate alla «campagna di primavera»
ne sono una dimostrazione: il governo sarebbe rimasto ed è sempre
rimasto saldamente in mano alla Dc mentre i loro «alleati»
perfezionavano la loro deriva socialdemocratica. Ai comunisti sono
andati incarichi di «lavori sporchi» di contenimento e repressione e per
questo sono stati particolarmente invisi nell’ambito dei movimenti. Non
senza qualche ragione. Ma per arrivare al governo hanno dovuto
cancellare il peccato della loro origine nel campo comunista, mai del
tutto amnistiato nell’occidente capitalistico, sconfessare ideologia e
alleanze, cambiare nome e cognome. Nel conflitto degli anni ’70, secondo
la nostra visione, erano sì lo Stato ma quello interno alla classe
operaia. Nei loro confronti andava usato il bisturi più affilato. La
gestione autocritica dell’azione contro Guido Rossa ne è l’esempio più
appropriato, come anche la fotografia di quanto lo scontro fosse interno
alla classe operaia.
Stando ad una verifica dei fatti,
la presenza della guerriglia non ha rappresentato un ostacolo né allo
sviluppo del movimento, né alle conquiste del movimento operaio degli
anni 70, al contrario, ha contribuito a spostare i rapporti di forza e
ha rallentato il processo di ristrutturazione.
Su questo
non ci dovrebbero essere dubbi. La forza dei movimenti in quegli anni
era un concerto polifonico che andava ben oltre le differenze. E il
travaso reciproco di forza funzionava almeno quanto era in grado di
ottenere conquiste che mai sono state tanto rilevanti. Come è evidente,
soprattutto oggi, quella sul piano sanitario. E questo al di là della
autorappresentazione dei diversi soggetti in campo che, nella sconfitta,
è diventata uno scarico di responsabilità da imputare alle Br. Persino
le battaglie per i diritti civili non subivano danni nonostante le tesi
cospirazioniste dei pacifisti impegnati nella battaglia per il divorzio
mentre le Br sferravano il primo «attacco al cuore dello stato» con il
processo al giudice Sossi. Ma, aspetto ancora più importante, basterebbe
analizzare le vicende legate allo scontro che ha riguardato la Fiat per
rendersi pienamente conto di quanto sia stata determinante la crisi
della guerriglia nell’accelerazione della ristrutturazione e
nell’attacco alle avanguardie interne alla fabbrica.
Ritorniamo
su un punto cui accennavi sopra, e cioè il peso del «nucleo storico» in
carcere. Se è vero che dal carcere non si può dirigere la guerriglia,
la si condiziona, o almeno nel vostro caso sembra averla condizionata.
Ribaltando il principio guida delle Br dove la pratica ha sempre
preceduto la teoria, finite – parlo delle Br fuori dal carcere – per
cercare di adattare la realtà alla teoria. Il documento restituisce
questo processo in termini politici e in termini politici dà anche una
spiegazione che ha portato alla centralità del «nucleo storico».
Sintetizzando, dopo la «campagna di primavera» la fase della propaganda
armata si esaurisce e le Br cercano, senza trovarlo, il passaggio alla
fase successiva che il nucleo storico identifica, teorizzandolo
sull’esperienza concreta delle lotte in carcere, nel passaggio alla
guerra civile. Siamo nel 1979 e la Direzione Br si scontra con una
realtà che al contrario non è in alcun modo assimilabile o
generalizzabile con il contesto carcerario. Basti solo pensare alla
vicenda Fiat. Il nodo della crisi, che non si risolverà, è che dopo la
propaganda armata e in un contesto di lotte resistenziali la guerriglia –
o almeno l’esperienza delle Brigate rosse – non trova soluzioni. Su
questo nodo politico avviene la spaccatura all’interno delle Br.
n
verità questo precipitato ha una lunga incubazione e attraversa le
tappe che hanno portato a maturità la crescita politica e organizzativa
delle Br. A un’analisi a posteriori si possono rilevare i chiaroscuri di
un rapporto dentro/fuori che non necessariamente doveva avere un
epilogo tanto negativo. E questo ha messo in evidenza errori, malintesi,
incertezze progettuali e inadeguato governo delle contraddizioni
interne. Esemplificativo è il passaggio del processo di Torino. Alla
sbarra praticamente l’interezza del quadro dirigente originario. Si
trattava del primo processo in cui lo Stato intendeva dimostrare la
forza di seppellire i comunisti armati sotto secoli di galera e
celebrare la sua vittoria sull’eversione. Non è andata così. La stretta
dialettica tra i compagni prigionieri e l’Organizzazione all’esterno
rendeva possibile dimostrare nella pratica che «la rivoluzione non si
processa». Di più, che a essere processato era lo Stato. Quel processo
ha visto rimandi successivi a causa della difficoltà di costituzione
della giuria popolare, proprio per la politicità che aveva conquistato
grazie alla conduzione in aula dei compagni e l’attacco esterno
dell’organizzazione.
L’esemplificazione di «chi processa chi» con un
iter giudiziario bloccato (fino all’intervento persuasivo
extragiudiziale del Pci a sanare la riluttanza dei giurati) e il
sequestro di Aldo Moro rendeva palese la forza dell’attacco al cuore
dello stato nella disarticolazione degli assetti di potere. Fuor di
polemica, non capire e rifiutare questo passaggio non spiega come si
potesse sviluppare un processo rivoluzionario endemicizzando lo scontro
senza tentare di individuare e anticipare il progetto
controrivoluzionario della borghesia. Organizzarsi sul terreno della
lotta armata per agire sul piano dei bisogni credo sia una partita persa
in partenza.
Il processo di Torino ha contribuito enormemente ad
aumentare la visibilità dei prigionieri all’esterno e il loro prestigio
nell’Organizzazione, anche per il livello del loro contributo teorico.
Col senno di poi si può dire che tutto questo avesse già in nuce l’esito
negativo che ha avuto? Certo è che, come sostengono i compagni del
testo in esame, l’Organizzazione, sia pur recalcitrante, ha scelto di
adottare in toto la produzione programmatica proveniente dal carcere in
una vistosa virata economicista del suo progetto. E la contraddittorietà
con cui è stata agita non è stata sufficiente a evitare il
capovolgimento di un caposaldo dei suoi fondamenti nel tentativo di
adattamento della realtà alla teoria. Nonostante il suo avanzare incerto
il «dopo Moro» ha significato una stagione di crescita e grande
vitalità dell’Organizzazione in un contesto nazionale che ha toccato il
massimo dello sviluppo dei gruppi armati. L’interpretazione che i
prigionieri hanno dato di questa situazione è stato il precipitare qui e
ora della «conquista delle masse sul terreno della lotta armata». I
programmi «immediati» dovevano costituirne il viatico, traducendo
meccanicamente la capacità di organizzare delle rivolte in carcere con
il precipitato in termini di condizioni sociali talmente contrapposte al
sistema vigente da poter essere soddisfatte solo armi alla mano a
livello di massa. Naturalmente la pratica dell’Organizzazione non poteva
essere all’altezza di tale aspettativa e il dissenso è andato crescendo
fino a sfociare nella rottura. La spinta decisiva è stata un progetto
di evasione dall’Asinara che ovviamente aveva come condizione
imprescindibile il supporto dell’Organizzazione. Per noi si trattava di
un attacco dal mare con un allestimento logistico del tutto diverso da
quello metropolitano a cui eravamo abituati. Le forze impegnate erano
notevoli e anche di più le difficoltà di portare a termine l’operazione
senza danni. Ma non ci siamo tirati indietro. La preparazione è durata
tanto da consumare tutti i mesi estivi. Basti pensare alla difficoltà di
una via di fuga fino all’entroterra o alla scarsa propensione del luogo
al furto di veicoli tanto che le macchine necessarie le abbiamo dovute
portare dal “continente”. Alla fine dell’estate abbiamo dovuto desistere
data la rarefazione della popolazione locale con la partenza dei
turisti. Per noi si trattava di un rinvio, per i compagni in carcere di
un tradimento. Secondo loro non è che non avevamo potuto ma non avevamo
voluto. Questa la sostanza della loro accusa. Lo sviluppo dello scontro è
andato verso la deriva scissionista dopo la richiesta di dimissioni
dell’esecutivo, in seguito reiterata dai separatisti della colonna
milanese. Finalmente dall’interno del carcere era stato costruito un
gruppo all’esterno che rispondeva pienamente alle aspettative dei
teorici della guerra sociale totale. In tutta evidenza, in questo
bilancio, le responsabilità personali non sono state secondarie.
Un altro aspetto portato in luce dal documento è questo:
benché le Br ponessero sin dal 1975 come obiettivo strategico quello di
staccare l’Italia “anello debole della catena imperialista” per una
collocazione nell’area dei paesi non allineati, nella visione strategica
brigatista, secondo quanto è scritto nel documento, si sottolinea
l’assenza di un collegamento della guerriglia all’interno di un fronte
antimperialista, in una strategia globale antimperialista, che era al
contrario una questione importante e molto presente nel contesto che
aveva determinato l’origine stessa della guerriglia. Si tratta di una
linea di combattimento che le Br-Pcc tentano di riprendere negli anni
’80 con la costruzione del Fronte combattente antimperialista. Per la
prima volta le Br escono dall’ambito nazionale e attaccano direttamente
la Nato con l’azione Dozier e in seguito con l’azione che colpisce
Leamon Hunt. L’appunto critico che viene mosso, in particolare su
Dozier, è che si tratta di un mutamento importante all’interno delle Br
che non viene compreso fino in fondo teoricamente, manca di un impianto
strategico.
Tutto vero. Nei nostri documenti il
riferimento strategico alla questione internazionale è ricorrente, anche
perché lo scenario che si era aperto con le rotture rivoluzionarie
delle «zone di influenza» dopo la Seconda guerra mondiale sono state uno
degli elementi che hanno favorito anche l’insorgenza degli anni ’70. Ma
è come se il sottinteso fosse internazionalisti sì ma «ognuno a casa
sua». La nostra storia è strettamente legata a quella del soggetto
rivoluzionario da cui le Br sono nate, ossia gli operai del polo
industriale del nord di cui hanno seguito anche la sorte. Certo
«provincialismo» brigatista è andato in parallelo con la particolare
forza della guerriglia e del movimento rivoluzionario nel nostro paese
che, paradossalmente, non ha facilitato la costruzione di battaglie
comuni con altre forze antimperialiste di diversa cultura politica. Al
di là di relazioni di scambio e sostegno il capitolo «internazionale» è
rimasto vacante nella nostra agenda. Ci sentivamo nello stesso flusso
rivoluzionario ma, come anche altre forze combattenti, in un contesto
internazionale caratterizzato dalla autodeterminazione delle singole
esperienze. La vicinanza con le altre forze guerrigliere in Europa si è
limitata alle analogie riscontrabili in alcune battaglie (vedi sequestro
di Martin Schleyer), ma gli obiettivi comuni delle organizzazioni
combattenti, come la liberazione dei prigionieri, non sono stati
sufficienti a colmare le distanze strategiche. A dispetto di quanto
andavamo teorizzando circa la necessità di un fronte comune delle forze
guerrigliere e con il campo dei paesi non allineati nei fatti ha
prevalso la nostra specificità alla «fatica» di individuare e percorrere
i terreni propri di un fronte antimperialista. Alla fine degli anni ’70
e anche in coincidenza con la sconfitta del soggetto politico che
avevamo messo al centro del nostro progetto, diventava non più
rinviabile colmare il vistoso vuoto di progetto, anche in presenza della
ripresa di movimenti contro le basi Nato e contro la guerra. In
extremis abbiamo cercato di recuperare il terreno perduto su un
programma di «guerra alla guerra» che andasse a rafforzare l’attacco
alla tecnocrazia neoliberista. Veramente troppo tardi per elaborare una
strategia all’altezza del compito anche alla luce della crisi di
credibilità che aveva scavato a fondo al nostro interno e non solo.
La
ritirata strategica: riprendendo quanto dicevo sopra, anche in questo
caso il dato sperimentale mi sembra quello più evidente, con un concetto
tra l’altro estraneo alla tradizione Br.
Beh, fare come se nulla fosse stato dopo il fallimento
dell’operazione Dozier e la costatazione di quanto fosse profonda la
crisi interna non espressa prima, sarebbe stato il massimo. Certo è che
abbiamo dovuto cercare una via d’uscita sotto i colpi del contrattacco
nemico e quella di ricorrere a ripieghi buoni solo in termini ideali
(ritirarsi nelle masse) e per altri lidi e condizioni ha prevalso.
Abbiamo cercato di capire come organizzare la resistenza per contenere
le perdite, analizzare le cause del tracollo e verificare la possibilità
di riprendere a combattere. Non ultima la verifica dello stato di
salute della nostra credibilità e della rete di sostegno.
A
differenza delle altre «ritirate» compiute dall’Organizzazione l’ultima
avveniva alla fine della lunga stagione di offensiva dei movimenti e nel
pieno delle nostre lacerazioni. Occorreva perciò addestrarsi per capire
quale fosse un difficile «che fare» non escludendo la verifica che ce
ne fosse ancora uno praticabile. Nella consapevolezza che una guerriglia
urbana non può ritirarsi per un tempo indefinito senza perdere
fisionomia, riferimenti di classe e affidabilità. In quella situazione
il dato sperimentale è stato fortemente condizionato dal contrastare un
nemico che, grazie alle informazioni dei «pentiti», aveva deciso in
tutta evidenza di sferrare il suo attacco finale. Mentre i nostri
compagni continuavano a cadere, mentre i conflitti a fuoco per strada si
moltiplicavano, i buontemponi della «rivoluzione alle porte»
completavano la loro operazione denigratoria alimentando il coretto che
ci voleva arresi a un passo dalla rivoluzione e trascinandoci in uno
scontro frontale contro la follia della loro guerra ai compagni che
avevano dato informazioni sotto tortura. Solo dopo l’esaurirsi
dell’effetto e della disponibilità alla collaborazione di quanti si
andavano «pentendo» abbiamo potuto riprendere l’attività, a fiato corto
per risorse e lucidità. C’erano ancora compagni che si univano a noi per
percorrere una strada mai tanto incerta. Nella scomparsa di tutte le
altre ipotesi di lotta armata praticate.
Negli ultimi tempi ha preso forma un corpus storiografico,
prodotto soprattutto da chi non ha avuto esperienza diretta degli anni
’70, che riporta alla luce produzione teorica ed esperienze pratiche di
quegli anni e che ragiona, questa dovrebbe essere la regola ma sappiamo
che così non è, sulle fonti nel loro contesto. Per quanto riguarda le
Br, il dato che emerge è che, diversamente da ciò che per decenni si è
affermato, la produzione teorica delle Br esisteva, e che rispetto ai
temi in discussione a livello internazionale non era affatto marginale
(il concetto di globalizzazione nel 1970, lo stato imperialista delle
multinazionali). Questa produzione teorica ha una caratteristica
fondamentale: nasce nella fabbrica, è tutta interna alla dinamica di
classe e capisce perfettamente, proprio perché lo vive nella praxis
della fabbrica, come si muove il capitale. Comparandola con quel che
viene prodotto negli stessi anni dai centri di studio dei partiti della
sinistra o anche in ambito accademico, che avevano ben più potenti mezzi
a disposizione, il dato è di grande interesse. E apre a una riflessione
sul fatto che l’esistenza di un «sapere di classe» è sistematicamente
rimosso – e qui non parlo esclusivamente di Br ovviamente.
Ormai
questo dovrebbe essere acclarato. E non tanto per spirito
autocelebrativo ma perché il «sapere di classe», contrapposto alla
presunta neutralità della tecnica produttivistica, costituisce
l’impalcatura che ha sostenuto e continua a sostenere la possibilità di
liberazione dal capitalismo. E questo è un dato che non è cambiato per
quanti tentativi di sua applicazione possano essere stati fallimentari
anche perché il conflitto di classe non si è certo esaurito nel ‘900.
Chi
leggerà non avendo familiarità con il linguaggio brigatista noterà che
ci si riferisce alle Br come «Organizzazione», un concetto e un
principio che mi pare colgano essenza e sostanza di ciò che sono state
le Br.
Si, non ci siamo mai sentiti né definiti
«partito». Abbiamo sempre pensato di essere un’avanguardia in stretta
dialettica con altre avanguardie armate e non. Non eravamo la guida di
grandi masse all’assalto di un palazzo, ma una forza politico/militare
che sul lungo periodo sperimentava la capacità di disarticolazione dei
progetti nemici con l’obiettivo di impedirne la realizzazione e favorire
e riempire di prospettiva rivoluzionaria l’opposizione di classe.
L’unità del politico/militare si rifletteva nel singolo militante che
incarnava un principio fondante dell’Organizzazione, la caratteristica
della sua formazione politica e la ricomposizione tra lavoro manuale e
intellettuale. Non è un caso che le biografie dei militanti fossero
tanto simili per estrazione sociale e cattivi maestri di se stessi.
Un
tuo compagno ha detto che avete fatto una straordinaria apologia del
potere, cioè gli avete attribuito una «lucidità strategica» che non
aveva. In Compagna Luna e Perché io perché non tu mi sembra che anche tu
faccia, con un linguaggio diverso, la stessa considerazione.
Alla
luce dei fatti è così. Nello sforzo di comprenderne la natura abbiamo
confuso le linee di elaborazione strategica del potere, per esempio le
direttive della scuola di Chicago, con la capacità politica di
traduzione da parte dei soggetti preposti. (Ma ex post a capire sono
buoni tutti!). Se si pensa al tempo che si è reso necessario perché la
gestione tecnocratica in campo economico prevalesse e trasformasse la
stessa natura della politica istituzionale; se si pensa a quanto sia
comunque contraddittoria questa realtà, si può capire quanto poca cosa
fosse quella «lucidità». Le mie considerazioni a cui fai riferimento
sono state in relazione a come sono andate le cose soprattutto durante
il sequestro Moro. L’insensatezza della «fermezza» mentre la casa
bruciava, la svalutazione dell’ostaggio («non è lui»!), l’immobilismo
dei veti incrociati tra Dc e Pci, i controlli di polizia in sostituzione
di qualsiasi iniziativa del governo, non erano una risposta ma la
fotografia di una classe dirigente alla «Todo modo». Quelle mie
riflessioni hanno trovato in seguito qualche oggettiva conferma. Infatti
di recente sono stati resi noti i verbali delle riunioni dei
democristiani e dei comunisti durante i 55 giorni del sequestro. Altro
che statisti. Da una parte una congerie di gruppi di potere e feudi
elettorali ognuno per sé e dall’altra un grande partito operaio ridotto a
garante dello status quo del potere altrui. Nero su bianco si possono
trovare nel volume Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di
primavera. Una lettura veramente molto istruttiva.
Nessun commento:
Posta un commento