Nel solco aperto dall’intervista a Paolo Persichetti, ospitiamo un contributo di Marco Grispigni sul tema della violenza politica nel lungo Sessantotto italiano.
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Un tema che non può essere eluso nel dibattito storiografico sul periodo, ma che vede ancora oggi gli storici e le storiche arrancare, in linea generale, di fronte alla voluminosa preponderanza delle interpretazioni politico-giornalistiche e, in tono minore di quelle memorialistiche. Prendendo a pretesto il volume di Gentiloni Silveri sulla storia dell’Italia repubblicana, Grispigni evidenzia i limiti di buona parte delle ricostruzioni storiografiche sul tema della violenza politica.
Dalla definizione dell’oggetto stesso degli studi (cos’è esattamente la violenza politica?) alla periodizzazione del fenomeno (con le polemiche intorno al ruolo periodizzante dei due «grandi eventi» rappresentati dalla Strage di Piazza Fontana e del rapimento e uccisione di Aldo Moro, fino alla (in)capacità di leggere la varietà fenomenologica del fenomeno armato sul piano non solo dei repertori d’azione, ma anche della progettualità e della capacità di comunicare ed interagire coi movimenti di massa.
Se conoscere ciò che eravamo ci permette di capire meglio ciò che siamo oggi, l’importanza del tema della violenza politica negli anni Settanta del secolo scorso non risiede solo, quindi, nella necessità di comprendere il fenomeno in sé, ma anche e soprattutto in quella di saperlo collocare in modo corretto nella storia recente d’Italia, sottraendolo dal ruolo di «alibi» per qualsiasi ricostruzione storica ad uso politico che assolva dalle proprie responsabilità una classe imprenditoriale e politica che, in modo bipartisan, ci ha portato esattamente alla situazione in cui siamo. [A. P.]
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Il tema della violenza politica nel corso degli anni Settanta sta diventando anche per la storiografia contemporaneistica un punto di riflessione ineludibile. Oltre a una significativa mole di ricerche su aspetti specifici prodotte in ambito universitario, ormai sono numerosi i lavori di storici che ricostruiscono le vicende del nostro paese con al centro dell’attenzione il decennio che segna la transizione tra l’età dell’oro e quella della catastrofe. In questi lavori, anche quando la violenza politica, gli «anni di piombo» per capirsi, non è l’oggetto di studio, la sua presenza e il ruolo giocato in queste vicende non può essere eluso. Certamente siamo lontani da qualsiasi capacità degli storici di «egemonizzare» l’interpretazione di quegli anni. La narrazione degli anni Settanta continua a essere sostanzialmente quella degli «anni di piombo» grazie ai numerosi lavori di giornalisti che dominano il chiacchiericcio autoreferenziale con il quale stampa e televisione non fanno che parlare dei lavori sul tema opera di giornalisti, o invitarli come «esperti» dell’argomento. D’altronde come si sa bene, la «casta» è sempre quella degli altri. L’unica narrazione finora capace di competere minimante con quella giornalistica è la memorialista nella quale negli ultimi anni emerge quella dei parenti delle vittime, per lungo tempo dimenticati, scalzando quella degli ex partecipanti alla lotta armata. Indubbiamente questa mancata egemonia non è imputabile solo al «destino cinico e baro» o alla casta dei giornalisti. Un peso decisivo lo ha la scarsa capacità degli storici di costruire una narrazione globale su quegli anni spendibile sul terreno della public history, e in particolar modo l’incapacità dell’accademia ad affrontare un tema delicato come quello della lotta armata, nonostante siano passati oltre 40 anni, rinunciando a un approccio paludato, ricco di giudizi etici a priori e povero invece della spregiudicatezza necessaria per interrogarsi su un fenomeno complesso e articolato. Questa mia convinzione è uscita ulteriormente rinforzata dopo la lettura del recente volume di Umberto Gentiloni Silveri, Storia dell’Italia contemporanea. 1943-2019, pubblicato a fine del 2019 per Il Mulino. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, il crollo della Prima Repubblica era stato accompagnato dalla pubblicazione di numerose opere di sintesi sulla storia dell’Italia repubblicana, alcune di ottimo livello (penso ai libri di Silvio Lanaro, Pietro Scoppola, Paul Ginsborg) che partendo dall’immediato dopoguerra giungevano fino alla fine degli anni Ottanta e alla chiusura del secolo breve. Il lavoro di Gentiloni Silveri tenta un’operazione ancora più ambiziosa prolungando lo sguardo dello storico fino ai giorni nostri, anche se a me sembra che questo sguardo sul presente sia una scommessa sostanzialmente persa. Gli ultimi due capitoli sugli anni Duemila sono infatti privi di una chiave di lettura storiografica; un susseguirsi di nomi ed eventi tutti interni alla politique politicienne nell’assenza totale di una lettura sui cambiamenti radicali della composizione sociale del paese e dell’economia (per fare un semplice esempio nell’indice dei nomi non troverete citato Luciano Gallino, e infatti nel testo non troviamo nessun riferimento alla «finanziarizzazione dell’economia»). Al contrario, quello che a me è sembrato il merito principale di questo lavoro, è quello di leggere l’intera storia repubblicana con lo sguardo attento e centrato sul contesto internazionale, dapprima della Guerra fredda e poi del «vincolo esterno» dell’Unione europea. In questo senso la storia d’Italia perde gran parte di quella presunta «eccezionalità» del caso italiano, compresa la stucchevole lamentazione sul «paese mancato», una sorta di chiave interpretativa storiografica che fa da pendant alla tiritera politica sulla mancanza di una «destra normale». La ragione, però, per la quale ho pensato di utilizzare questo testo per un discorso più generale sugli anni Settanta e la violenza politica è dovuta al fatto che delle quasi 400 pagine del volume, un quarto trattano del decennio «maledetto», con due capitoli «Anni Settanta» e «Il funerale della Repubblica». I due capitoli si dividono il compito: nel primo la complessità del decennio è al centro della narrazione. Il lungo Sessantotto produce effetti e allarga gli spazi di democrazia soprattutto grazie all’incontro tra studenti e operai. Le domande di partecipazione oltrepassano la capacità dei partiti di essere filtro e tramite e i movimenti ampliano la dimensione del politico. Certamente la strage di piazza Fontana introduce un clima di paura e di odio, le cifre della violenza si impennano, ma l’espressione «anni di piombo» «non restituisce agli anni Settanta la natura composita che li ha attraversati» (p. 126). Il secondo invece ruota intorno al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro e quindi affronta il tema della violenza politica. In questo capitolo emergono, a mio parere, i limiti riscontrabili anche in numerosi altri lavori di impianto storiografico che rendono assai poco convincenti i tentativi della storiografia italiana di lettura del fenomeno della violenza politica. Voglio cercare qui di elencarne quattro, usando il testo di Gentiloni Silveri come spunto e come modello abbastanza rappresentativo di come l’accademia affronta questo tema.
Il primo punto è quello del «di che parliamo quando parliamo di violenza politica». Appare chiaro che per gran parte degli storici il tema della violenza politica è quasi esclusivamente quello degli anni Settanta. La violenza politica esercitata nel quadro del monopolio statale dell’esercizio della violenza non è «politica». Occorre volgersi ad altre discipline, come la scienza politica e penso soprattutto ai lavori di Donatella Della Porta, per leggere un quadro diacronico che copra l’intero arco del periodo repubblicano rispetto all’esercizio della violenza politica da parte di differenti attori sociali. Specialmente nei lavori di sintesi, la pluralità degli attori che esercitano la violenza all’interno del conflitto sociale scompare, così come il dispiegarsi nel tempo e l’intrecciarsi di fasi caratterizzate da un «protagonismo» di soggetti politici differenti. Il modello di gestione dell’ordine pubblico non è quasi mai messo in relazione con le forme del conflitto sociale, come se l’uno non condizionasse fortemente l’altro. Lo stesso vale per gli «strumenti» con cui la violenza politica, sia come difesa dell’ordine esistente che come sovversione, viene esercitata. Il secondo punto, come è logico quando parliamo di approccio storico a degli eventi, è quello della periodizzazione. Se normalmente di violenza politica si parla solo quando viene esercitata in maniera significativa da attori sociali che non sono gli apparati repressivi dello Stato, nella quasi totalità dei lavori diviene una categoria utilizzata e utilizzabile esclusivamente nel contesto degli anni Settanta. Ma quando cominciano e quando finiscono gli anni Settanta? Mentre il consenso è abbastanza diffuso sulla fine, più o meno la metà degli anni Ottanta, sull’inizio la discussione, e in alcuni casi la polemica, è più accesa. Il nodo è il 12 dicembre 1969, la cosiddetta «fine dell’innocenza». Ora, su questa allocuzione spesso si fa della polemica, specie dopo che nelle autobiografie di numerosi partecipanti alla lotta armata il «trauma» della strage di piazza Fontana è assunto quasi a elemento giustificativo delle scelte successive. È chiaro che se con una presunta «innocenza» si intende un carattere assolutamente pacifico dei movimenti sociali che dal 1967 giungono fino alla fine del 1969, ci troviamo semplicemente di fronte a un’affermazione ridicola e falsa. Basta ricordare Valle Giulia o la statua di Marzotto e ancor di più le pratiche di violenza operaia che accompagnano l’esplosione del conflitto di fabbrica. Resta però lo scarto enorme che la strage di Milano introduce non solo rispetto alle centinaia di migliaia di persone che hanno dato vita ai vari movimenti sociali che attraversano il paese, ma anche, più in generale, rispetto all’insieme della popolazione, introducendo l’idea che la morte, per ragioni politiche, sia in agguato nella vita normale di tutti i giorni. È proprio questo che intende Giorgio Boatti quando nel lontano 1993 pubblica il suo ottimo libro sulla strage (Piazza Fontana: 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza perduta). Per molti studiosi quindi, e anche per chi scrive, la «strage di Stato» è il punto di partenza di quel ciclo di una quindicina di anni in cui la violenza politica è un elemento fondamentale della scena. Per altri studiosi invece, e sembrerebbe anche per Gentiloni Silveri, piazza Fontana non è il punto di partenza. «La parabola della violenza politica e della sua presenza è quindi più lunga e coinvolgente di quanto spesso non si pensi. Inizia prima della strage di piazza Fontana, anima gruppi marginali che si muovono soprattutto nelle periferie delle grandi città, coinvolge personaggi e biografie che di lì a poco faranno il passo senza ritorno in direzione della clandestinità del terrorismo militante» (p. 158). È la tesi sostenuta anche da altri studiosi, penso ad Angelo Ventrone (Vogliamo tutto) o Guido Panvini (Ordine nero, guerriglia rossa). Il problema, in questo caso, è quali siano gli avvenimenti che possono giustificare questa periodizzazione per cui la violenza politica caratterizzerebbe anche gli anni precedenti la strage di piazza Fontana. Di casi concreti se ne citano ben pochi; a volte il riferimento è alla morte di Paolo Rossi nel 1966, oppure a qualche documento di sparute formazioni marxiste-leniniste dove ci si dichiara pronti per la clandestinità e la rottura rivoluzionaria. Poca roba. L’unica vera «pezza d’appoggio» a questa periodizzazione precoce è in realtà «l’idea stessa di rivoluzione». «La cultura della rivoluzione, l’attesa messianica dell’ora giusta per travolgere equilibri e rapporti di forza si contrappongono alla costruzione per via democratica, alla fatica del giorno per giorno, alla condivisione di un tessuto di regole, relazioni, comportamenti e istituzioni» (p. 155).
Partendo quindi dall’idea di rivoluzione come responsabile di una successiva deriva violenta dei movimenti di contestazione, si risale «per li rami» fino alla fine degli anni Cinquanta e al cattivo maestro Raniero Panzieri, reo di cercare di riattualizzare l’idea di rivoluzione in Occidente e con essa la rottura violenta del quadro politico esistente. Se questo tipo di lettura ha un senso nella storica letteratura di stampo conservatore, da Burke in poi, con l’idea di rivoluzione come foriera di violenza ingiustificata e terrore, diviene meno convincente se applicata meccanicamente a un certo punto della storia italiana e solo a un’area politica in una logica post hoc ergo propter hoc. Chi ha esercitato violenza politica fino al ricorso alla lotta armata sono gruppi provenienti da una determinata area politica, quindi risaliamo ai loro «maestri» per comprendere come già in quelle riflessioni fosse possibile scorgere quei ragionamenti, quelle teorizzazioni, che sono alla base dell’agire armato. Più semplicemente, a mio parere, l’idea che la strage di piazza Fontana non segni l’inizio di una fase politica nuova, nella quale la pratica della violenza politica diviene un elemento centrale dello scontro sociale in atto, è legata alla difficoltà nell’ammettere che il punto di rottura si situi in un evento nel quale le responsabilità di ampi settori dello Stato e del ceto politico dominante sono difficilmente negabili. Non si fa carriera e non si va in televisione e sui giornali dicendo che gli «anni di piombo» cominciano con la strage di Stato. Passiamo ora al terzo punto. È possibile trovare nelle riflessioni storiografiche sulla violenza politica la capacità di distinguere fra forme e pratiche di esercizio della violenza, progetto politico, impatto sui movimenti sociali, dinamica sociale e radicamento? La risposta è prevalentemente negativa. Quando va bene si distingue fra formazioni armate clandestine e violenza diffusa all’interno dei movimenti sociali e non si ipotizzano meccanici travasi da un ambito all’altro. Normalmente però il tutto va insieme come un grande minestrone. Torniamo all’esempio del volume di Gentiloni Silveri che, per comprensibili motivi di sintesi, parla sostanzialmente solo delle Brigate rosse. Alla base della scelta armata e della clandestinità ci sono «analisi inconcludenti e prive di ogni riferimento con la realtà della fabbrica e con le trasformazioni del mondo del lavoro» (p. 159). Quando ci si inoltra nel cuore della vicenda del rapimento di Aldo Moro ci imbattiamo in un «delirio di argomentazioni» e in un «linguaggio sinistro». Al lettore di queste pagine non può che sorgere a questo punto un dubbio atroce: come sia potuto accadere che queste analisi inconcludenti e argomentazioni deliranti abbiano dato vita a un fenomeno, quello della lotta armata, che per un lungo periodo ha attraversato e insanguinato il paese. Un fenomeno che per quanto riguarda la partecipazione a organizzazioni clandestine si chiude con oltre quattromila condannati a pene detentive e quindi, considerando chi è sfuggito alla giustizia anche perché ha svolto un ruolo secondario, i cosiddetti «fiancheggiatori», ha interessato qualche decina di migliaia di persone. Un delirio collettivo, un virus ante covid? È chiaro che il tentativo di comprendere lascia spazio, o meglio si sottomette, a un bisogno di condanna etica preventiva, formulata dalla considerazione sulla sostanziale patologia delle argomentazioni che sostengono la scelta armata. A questo punto, anche tra le pagine degli storici più attenti alle fonti e alla loro critica, riemerge quella lettura cospirazionista, l’unica in fondo capace di dare un senso all’enorme impatto sulla vicenda italiana di un fenomeno che si è liquidato come delirante. «Rimangono grandi interrogativi, versioni che non collimano, compromissioni di livelli oscuri, contiguità con settori dello Stato e uomini dei servizi che non hanno trovato nello sforzo per raggiungere la verità le adeguate risposte» (p. 166). Quindi anche la storiografia nostrana non rimane insensibile di fronte alla possibilità di utilizzare la categoria del complotto, rispolverare il refrain dei «misteri italiani», per spiegare un fenomeno che si continua a comprendere poco. D’altronde, tornando al volume di Gentiloni Silveri, se si va alle numerose note al testo, fra i libri citati a proposito delle Brigate rosse e l’assassinio di Moro, numerosi sono i riferimenti ai lavori dell’ex senatore Flamigni, mentre sorprendentemente non troviamo mai il nome di Vladimiro Satta, uno storico certo non di estrema sinistra, che proprio sull’affaire Moro ha scritto un libro fondamentale (Odissea nel caso Moro) smontando gran parte delle affermazioni ripetute da decenni e da numerose commissioni di inchiesta parlamentare sui «misteri del caso Moro». Infine il quarto e ultimo punto, che per certi versi rinvia al precedente punto sulle periodizzazioni. Sono ormai numerosi gli studi che assumono la morte di Aldo Moro come il vero punto di svolta e sostanzialmente l’annuncio della fine della cosiddetta prima Repubblica. «Non si esagera sostenendo che il delitto compiuto dalle Brigate rosse chiude un’intera epoca mettendo la parola fine su una fase della politica italiana» (p. 183). Ora è indubbio che la morte di Moro sia un momento di passaggio e un evento chiave. Forse il più brillante cervello del ceto politico viene drammaticamente eliminato. In più la scena terribile ma surreale, sembra di essere in un film di Buñuel, del solenne funerale in San Giovanni senza la salma e la famiglia dell’assassinato, assume un valore iconico enorme. Il «funerale della Repubblica». Detto questo a me sembra poco credibile affermare che con la morte di Moro si chiuda un ciclo politico anche perché implicitamente questo significa che la causa diretta del crollo di un sistema politico, nato dopo la fine del conflitto mondiale e stabilizzatosi nel corso di un trentennio, sia l’azione di quelle organizzazioni che operano grazie ad «analisi inconcludenti» e «argomentazioni deliranti». In realtà la prima Repubblica segue il suo cammino ancora per una quindicina di anni, con sostanzialmente gli stessi attori politici. I governi nascono e cadono con la stessa cadenza di prima, incentrati sulla formula del centro-sinistra (quello della prima Repubblica) e con i comunisti all’opposizione. Addirittura il paese nella seconda parte del decennio degli Ottanta vive in piccolo un nuovo «miracolo economico». Sono gli anni dello sbandierato «sorpasso» dell’Italia nei confronti della Gran Bretagna, il 1987, in cui il bel paese diventa la quinta potenza economica del mondo capitalista. Non è certo l’assassinio di Aldo Moro a segnare la fine di un ciclo politico, non è un avvenimento interno al paese. La prima Repubblica crolla, anche lei, sotto le macerie del muro di Berlino. La fine della Guerra fredda provoca l’insostenibilità dell’enorme deficit pubblico italiano per chi quel debito lo aveva garantito per la stabilità del sistema politico di un paese con il più forte partito comunista dell’Occidente. È il sistema economico nazionale che diviene inaccettabile e insostenibile per i nostri alleati, non certo la miseria del ceto politico post Moro. E in questa insostenibilità rientra l’ulteriore costo legato alla corruzione, vero e proprio modello di sviluppo del capitalismo nostrano. Le macerie del muro aprono la strada all’azione anticorruzione della magistratura. Ora non ci sarà più nessun «porto delle nebbie» a garantire la stabilità del quadro politico. Mani pulite, possibile solo ora che il muro non c’è più, segnerà la fine di un’intera epoca.
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