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intervista a Francesco Benozzo
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Prof. Francesco Benozzo, Lei è autore del libro Memorie di un filologo complottista pubblicato
da Edizioni La Vela. Il complottismo rappresenta l’abito mentale
naturale di un filologo, mosso, forse più degli altri, dalla ricerca
della verità; in che modo il complottismo costituisce un dovere anche
per la stessa scienza, che – come Lei afferma nel pamphlet – «o è complottista o è qualcosa di diverso dalla scienza»?
L’opposizione oggi in voga tra complottisti e seguaci della scienza è
un pretesto, o meglio un tentativo di liquidare come paranoici o
infondati i tentativi di capire qualcosa al di là della narrazione
univoca. In questo mio libro ho deciso di assumere
l’aggettivo/sostantivo “complottista” come una qualità e non come un
insulto. Se la filologia cerca, a partire dalle tracce, una narrazione
che va oltre la cronaca o l’apparenza delle cose e delle parole – e lo
ha sempre fatto, essendo questo un fatto connaturato al suo statuto di
disciplina storica – allora la filologia è certamente, e fieramente,
“complottista”, nel senso in cui intende questa modalità di azione il
filosofo-epistemologo Jürgen Hambermas, per il quale il complottismo, a
prescindere dalle sue conseguenze talvolta eccessive, è semplicemente
un’attitudine del pensiero che non si accontenta delle apparenze e che
cerca delle ragioni plausibili che spieghino i fenomeni della realtà.
Quale accezione veicola l’etimologia del termine complotto?
Il termine complotto è attestato per la prima volta in forma scritta in antico francese, nel secolo XII, nella variante complot, che significa ‘folla, riunione di persone’, e che è presumibilmente imparentato con il latino cumulus ‘mucchio (di persone)’, e forse anche con il latino complex ‘complice’, un termine che a sua volta viene dal verbo complicare ‘avvolgere
insieme’. A mio parere l’origine del termine è però più antica, ed è
quella documentata ad esempio dal nome di luogo Complutica, di
cui parlano gli storici greci e latini a proposito dei territori della
Galizia spagnola, che in epoca preistorica e protostorica erano
territori di insediamento celtico. Questo nome fa riferimento a una
forma celtica complou-to ‘scorrere insieme’, e dunque a un
luogo con presenza di acque, una piana dove esse si raccoglievano.
Ritengo che questa radice celtica sia quella all’origine della parola
inglese plot ‘trama, schema narrativo’, che in epoca antica
(sec. X) significava ‘appezzamento di terreno’. Le trame spesso nascoste
che i cosiddetti complottisti cercano di individuare dietro le
spiegazioni monocordi sono cioè simili, in fondo, alle reti di ruscelli e
rivoli che solcano un terreno anche quando sembrano non esserci.
Quale
posizione esprime, nei confronti di quella che definisce «una
sproporzionata e aberrante messa in scena», un “sano” complottismo?
Credo sia più una questione di “attitudine” che di “posizione”. Il mio
volumetto in questione è una specie di piccolo manuale del dubbio e sul
dubbio, e non è certamente un caso che compaia in questi mesi di
emergenza sociale e di smarrimento percettivo. Non ho certamente paura a
ripetere, come ho fatto fin dai primi giorni di marzo del 2020, che
ritengo che siano state messe in atto misure sproporzionate e non
giustificabili. Anche se spesso ho dovuto sopportare, per questa mia
posizione, diverse accuse, alcune minacce e numerosi insulti – sia
all’interno del mondo universitario che da parte di persone
scandalizzate dalle mie esternazioni – resto fermo, in virtù di quanto
osservo senza alcun pregiudizio, sulle mie idee. È per me una ragione di
conforto pensare che, insieme ad altri, a pensarla non diversamente da
me sono state e sono persone autorevoli e stimabili, non certo
relegabili in una gabbia di matti occasionali e nemmeno accusabili di
un’ansia di protagonismo. Tra gli altri, penso con gratitudine
soprattutto alla lucidità misurata di un filosofo timido e
universalmente noto come Giorgio Agamben, la cui voce sobria e acuta si è
fatta sentire anch’essa fin da subito, per esprimere legittimi dubbi a
partire da quello che egli ha chiamato in diversi suoi scritti degli
scorsi anni lo “stato d’eccezione”, che tutto d’un tratto si è palesato
sotto i nostri occhi con le sue modalità oppressive, autoritarie,
surreali. Affibbiare ad Agamben l’etichetta di “negazionista”, se non
altro per la storia che egli incarna come persona oltre che come
studioso, diventa una conferma della malafede collegata alla narrazione
autoritaria imposta. L’istinto del dubbio appartiene a Homo sapiens fin
dal Paleolitico, ed è certamente uno degli slanci cognitivi legato alle
capacità di “leggere” e immaginare il mondo che ne hanno consentito
l’evoluzione rispetto agli altri primati. L’attuale impossibilità di
sostenere posizioni contrarie a quella ufficiale senza venire tacciati
di qualche nefandezza, vale a dire l’attuale sospensione di ogni
possibile dibattito, ricorda pericolosamente certi scenari distopici
intuiti dalla fantascienza già a fine Ottocento, se non addirittura
periodi storici cupi che nella sua storia la nostra specie non ha certo
mancato di esplorare.
In che modo la nostra visione dell’esistenza è una conseguenza dell’invenzione del concetto di tempo?
Per il 99,9 per cento della nostra esistenza siamo stati cacciatori e
raccoglitori, e le categorie che plasmano il nostro modo di essere, di
pensare, di immaginare sono ancora necessariamente le categorie spaziali
che abbiamo sviluppato nei milioni di anni in cui ciò che contava era
il territorio, la distanza, la localizzazione. Questa circostanza è ben
documentabile a livello linguistico, studiando gli aspetti spaziali
delle lingue e verificando come quelli temporali siano una derivazione
di questi. Soltanto con il Neolitico, circa 10.000 anni fa, quando
abbiamo incominciato ad allevare ciò che cacciavamo e a coltivare ciò
che raccoglievamo, possiamo dire che sono subentrate le categorie legate
al tempo, perché soltanto dopo questa rivoluzione sono diventate
cruciali l’osservazione delle stagioni, la percezione dei cicli lunari,
la consapevolezza della successione delle generazioni. Il tempo, da cui
oggi siamo governati, è in fondo un’invenzione neolitica. In termini
paletnologici, cioè, la dicotomia spazio/tempo illustra la dicotomia
Paleolitico/Neolitico, e si porta dietro altre biforcazioni che
rappresentano e illustrano la nostra recente storia e la nostra attuale
deriva evolutiva. Tra le tante, basta che ricordiamo nomadismo vs.
stanzialismo, società libertaria-orizzontale vs. società
stratificata-verticale, assenza del concetto di proprietà vs. accumulo
dei beni e nozione di possesso, matriarcato vs. patriarcato, totemismo
animale come forma di animismo ecosistemico privo del concetto di
trascendenza vs. religione antropomorfa e gerarchica dotata di regole e
per accedere a una vita dopo la morte, scontri tra piccole comunità nel
territorio di caccia vs. guerre per il dominio del territorio. In questo
senso possiamo dire che la nostra visione dell’esistenza – stanziale,
stratificata, patriarcale, provvista di forme religiose e spesso
disciplinata da esse, divisa in stati, regolata da alternanze di guerre e
di tregue alle guerre stesse – è una conseguenza dell’invenzione del
concetto di tempo.
Il 2021 è l’anno delle celebrazioni
per i 700 anni dalla morte di Dante: quali forme assume la ‘congiura dei
dantisti’ da Lei denunciata?
Ho intitolato così quel capitolo – La congiura dei dantisti – riproponendo nel libro un Appello all’UNESCO per liberare Dante dai dantisti,
che ho pubblicato qualche anno fa. Si tratta di pagine in fondo
scherzose, ma nascono nondimeno da una mia costernazione per i livelli
di astrazione e di autoreferenzialità raggiunti, tra gli studi
filologico-letterari, in particolare da quelli relativi a Dante. Il mio
sconcerto parte dalla costatazione del numero di articoli, libri,
seminari, convegni e dibattiti dedicati a Dante, secondo i miei calcoli
quantificabili intorno ai 900.000. Questo fatto fa capire, se non mi
sbaglio io, a quali livelli di astratta reificazione dei testi possa
giungere la filologia, in questo caso quella dantesca. Uso il termine
reificazione per indicare la tendenza a una rinuncia alla comprensione
di ciò che si studia o di cui si parla, magari attuata attraverso
un’iper-comprensione: qualcosa che in entrambi i casi indica che ci si
lascia sovrastare dal fenomeno o dal testo studiato, e che, soprattutto,
si smette di guardarlo per quello che è, confondendo in questo caso la
bibliografia con la realtà.
In cosa deve tradursi, per la filologia, la spinta ad un «anarchismo epistemologico»?
La filologia è nata come arte eversiva – Luciano Canfora la chiama “la
più eversiva delle discipline” – in quanto, alle sue origini, ha
rivendicato il diritto di leggere e studiare le Sacre Scritture
essenzialmente come testi, strappandole all’oscurantismo di chi ne era
il custode e ne rivendicava il possesso. La mia sensazione è che in
molti casi i filologi abbiano poi tradito questa natura rivoluzionaria,
finendo per sostituirsi agli oscurantisti che avevano combattuto, e
considerandosi i detentori della tradizione culturale e dei testi da
essi studiati. Si tratta, come purtroppo sappiamo, del malinconico
destino di quasi tutte le rivoluzioni. L’anelito alla libertà resta però
costitutivo della filologia, e va a mio parere preservato come sua vera
essenza, ma penso che sia necessario, per la libertà, emanciparsi dal
limite di concepire se stessa come affrancamento da qualcosa, come
risposta a un sistema dogmatico, come alternativa a una condizione.
Diversamente, si rischia sempre di trasformare l’amore per l’ignoto in
un’ossessione per l’esattezza e l’ansia fondamentalmente eversiva di
conoscere direttamente i testi nella rivendicazione di un metodo seriale
per misurarli. L’istinto libertario deve sempre mantenersi sulla
frontiera fluttuante dell’arbitrio, per liberarsi dal rischio costante
di metamorfosi dogmatiche. Nel corso della sua storia, la filologia ha
cercato di fondare la libertà per meglio disegnarla attraverso i limiti
in cui essa era costretta, comportandosi in questo senso come una specie
di liberalismo, tendendo insomma a un massimo grado di stabilità. Ciò
che può ancora fare, invece, è sottrarre la libertà da qualsiasi
vincolo, valorizzando la sua potenza illimitata, comportandosi come una
specie di anarchismo. Questa è certamente una delle direzioni che
vorrebbe sempre tenere presente quella che in altri libri ho chiamato
l’Etnofilologia.
FONTE: https://www.letture.org/memorie-di-un-filologo-complottista-francesco-benozzo
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