venerdì 26 febbraio 2021

La legge sui rider è aggirabile. Ecco perché i pm vanno in soccorso dei "nuovi schiavi".

"Dovrebbe essere il parlamento a riconoscerli come subordinati", dice il giuslavorista Marco Barbieri.

Rider

“Oggi molti giornali scrivono che nella norma che abbiamo previsto per tutelare i rider abbiamo mantenuto il cottimo. Falso. È una bufala gigantesca!”. Era il 6 agosto 2019, apice della tensione politica che due giorni dopo sarebbe sfociata nella caduta del Governo Conte I sotto i colpi di Matteo Salvini dalla battigia del Papeete Beach, e Luigi Di Maio rivendicava i risultati della sua battaglia da ministro del Lavoro a favore dei ciclofattorini: “Basta sfruttamenti. Abbiamo dato ai rider la dignità del lavoro e la possibilità di scegliere se e come lavorare. Questa è la verità. Questi sono i fatti. E ci riempiono di orgoglio”. Sembra che i fatti invece lo abbiano smentito se a distanza di quasi due anni tocca ancora una volta alla magistratura intervenire a tutela dei “nuovi schiavi” della Gig economy. È una storia che si ripete: dove il legislatore fallisce una toga supplisce. L’inchiesta della Procura di Milano guidata da Francesco Greco sui rider estesa a tutto il territorio nazionale ha portato a una maxi ammenda per 733 milioni di euro complessivi per quattro tra le principali aziende di delivery che operano in Italia. Per il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e la pm Maura Ripamonti i rider da lavoratori autonomi dovranno passare allo status di parasubordinati, con contratto di lavoro coordinato e continuativo. Basta quindi con il pagamento a cottimo ma un contratto fisso, con tanto di obbligo di visite mediche, formazione e fornitura di attrezzature adeguate.

L’indagine riguarda 60mila rapporti di lavoro nel corso degli quattro anni e ha investito i vertici e i rappresentanti legali di quattro società di food delivery (Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo). Le multe sono state fatte per violazione della legge 81, che nei suoi vari articoli prevede obblighi di prevenzione dei rischi, obbligo di visite mediche e protezione individuale. Le violazioni hanno portato poi “alla contestazione di una serie di reati contravvenzionali per il totale di 733 milioni”, che possono essere estinti in parte, a patto che le aziende si mettano in regola con le prescrizioni e assumano i rider. Le aziende hanno novanta giorni di tempo per non incappare in un decreto ingiuntivo. Un impianto che Assodelivery, l’associazione delle piattaforme, rigetta totalmente lasciando aperta la via dell’appello

Secondo Greco quello dei fattorini in bicicletta, scooter e monopattini è a tutti gli effetti un lavoro “subordinato”. Dove però il datore di lavoro non è un “capo reparto come una volta” ma i lavoratori sono “guidati, sorvegliati, valutati attraverso l’intelligenza artificiale, da un programma informatico”. In altre parole, il capo è l’algoritmo. È l’algoritmo infatti che decide a chi affidare una consegna, chi favorire e chi penalizzare. E le chat allegate agli atti dell’indagine offrono uno spaccato del meccanismo perverso di cui spesso sono vittima i fattorini: come si legge nell’informativa dei Carabinieri del Nucleo Tutela Lavoro gli episodi per i quali il ‘ranking’ (la valutazione che dà più o meno chance a un rider di essere assegnato a una consegna) veniva declassato non sono isolati, ma praticamente costanti. Nelle chat si legge ad esempio un rider lamentarsi: “Oggi pioveva e sono caduto dalla bici mentre facevo una consegna. Quando sono arrivato dal cliente mi accorgo che ho perso l’ordine durante la caduta”. Secondo un altro fattorino, “in piena pandemia obbligano i riders a consegnare ai piani, pena abbassamento del punteggio”. “Non ce la faccio più - scrive un rider sardo - sbagliano fisso i chilometri e mai a favore nostro, sempre a favore loro. Fanno errori del genere su milioni di Rider. Fanno miliardi di euro levandoli alle nostre tasche”.

La magistratura milanese è intervenuta a gamba tesa contro le società di delivery con una inchiesta che, scattata nel 2019 dopo gli accertamenti su alcuni incidenti stradali, si è allargata concentrandosi soprattutto sul tema della sicurezza sul lavoro - messa ancora più a rischio durante la pandemia - che è strettamente connessa alla tipologia di rapporto di lavoro instaurato tra datore e lavoratore (c’è poi nell’inchiesta anche un filone “fiscale”).

Quello della magistratura milanese è solo l’ultimo di una lunga serie di interventi a tutela dei rider, una su tutte la sentenza della Corte di Cassazione (n. 1663/2020) secondo cui si applica “la disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le volte in cui la prestazione del collaboratore abbia carattere esclusivamente personale e sia svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi e al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente”. 

La magistratura spesso si è vista costretta a intervenire a causa dell’inerzia del legislatore. Un intervento che prometteva di essere risolutivo ma poi rivelatosi inefficace è stato il famoso decreto Rider del Governo Conte I. Il decreto legislativo 128/2019 dava in sostanza due opzioni alle società di delivery: o riconoscere la natura di lavoro etero-organizzato con l’applicazione del contratto nazionale di categoria (Merci e logistica) o un contratto nazionale definito tra le organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative a livello nazionale. L’obiettivo era quindi di evitare che un rider dovesse lavorare dieci ore al giorno tutti i giorni per arrivare a uno stipendio minimamente dignitoso. In ogni caso veniva escluso il ricorso al cottimo. Non è stato sufficiente.

“Il decreto Rider ha rappresentato certamente un passo in avanti”, dice all’HuffPost Danilo Morini della Filt Cgil, “ma nella normativa italiana restano dei buchi in cui poi le associazioni datoriali si inseriscono. Il decreto rider lascia aperta la porta a delle forzature, questo è evidente”. “Il cosiddetto Decreto Rider è stato certamente un passo avanti ma presenta alcuni elementi di compresso e pasticci tecnici che lasciano spazio all’ambiguità. Ma che sia stato un passo in avanti lo dimostra la sentenza della Cassazione del 2020 che in un passaggio richiama il decreto 128/2019”, spiega all’HuffPost il professore di Diritto del Lavoro dell’Unifg, Marco Barbieri, già componente della commissione ministeriale di Nunzia Catalfo per la riforma degli ammortizzatori sociali. “Il problema vero e irrisolvibile è che cerchiamo di arrampicarci sugli specchi di alcune definizioni ambigue che qualificano i rider con formule intermedie tra il lavoro subordinato tout court e il lavoro autonomo. Queste doppiezze consentono alle piattaforme di adottare espedienti truffaldini e di aggirare le norme, continuando così a trattare questi lavoratori, a tutti gli effetti dipendenti, come autonomi. E questa è, a mio avviso, una forma di schiavitù”.

Una forzatura, anche scomposta, del decreto Rider è avvenuta pochi mesi fa quando Assodelivery ha firmato il nuovo contratto nazionale dei rider con un solo sindacato, per nulla rappresentativo a livello nazionale, l’Ugl. Un accordo definito da più parti “pirata” e sconfessato dallo stesso Ministero del Lavoro a settembre scorso con una lettera inviata all’associazione datoriale. D’altronde, la poca convenienza per i lavoratori dell’intesa sindacale è subito saltata all’occhio: spacciato come la prima del suo genere in Europa rivolta ai fattorini al servizio delle piattaforme digitali, metteva alcuni punti fermi nel trattamento economico minimo per le consegne e nelle integrazioni, riconosceva la copertura infortunistica e assicurativa già prevista dalla legge, finalmente assegnava ai rider dispositivi di protezione (in base alle consegne) ma non diceva nulla sulla madre di tutte le battaglie dei fattorini, il riconoscimento di lavoro subordinato e anzi confermava la tipologia di lavoro a cottimo, con la retribuzione legata sempre alle consegne e non all’orario di lavoro. Il compenso minimo di 10 euro l’ora infatti non viene pagato per un’ora effettiva di lavoro o di disposizione ma al tempo che la piattaforma reputa collegabile ad ogni consegna. Per gli uffici del Ministero allora guidato da Nunzia Catalfo, si tratta di un accordo contra legem.

Eppure ieri, nella sua reazione all’inchiesta della magistratura, Deliveroo ha dichiarato che “i documenti trasmessi fanno riferimento a vecchi contratti: dal novembre 2020, infatti, i contratti dei rider che collaborano con Deliveroo sono disciplinati da nuovi contratti individuali che fanno riferimento al CCNL Rider”. Ma quel contratto è carta straccia. Tant’è che, dopo la firma tra Ugl e Assodelivery, i tavoli per arrivare a un Contratto Nazionale non si sono fermati e anzi sono proseguiti, sotto il coordinamento dell’ex ministra Catalfo. Con un obiettivo primario: fare davvero gli interessi dei lavoratori riconoscendogli lo status di subordinati. Se poi a farlo fosse il Parlamento, e non la magistratura, sarebbe un doppio passo in avanti: “Il rider autonomo non esiste - aggiunge ancora il professor Barbieri - è come il muratore part time, utile forse ad aggirare i controlli ispettivi ma chiaramente una figura professionale inesistente. Un passo avanti lo ha fatto il tribunale di Palermo che ha riconosciuto giustamente i rider come lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Ora servirebbe che il legislatore faccia lo stesso”, conclude il giuslavorista.

Nessun commento:

Posta un commento