giovedì 25 febbraio 2021

Il governo dei Giavazzi.

La nomina dell'economista liberista come consigliere a Palazzo Chigi getta le ombre del passato sulla riconversione ecologica promessa da Mario Draghi.


Una restaurazione, senza neanche passare per la rivoluzione. È difficile non pensarla in questi termini, di fronte all’ipotesi, riportata da molti organi di stampa, che sia Francesco Giavazzi a sostituire Mariana Mazzucato, teorica dello «stato imprenditore» e di un nuovo modello keynesiano nell’innovazione, nel ruolo di consigliere economico della Presidenza del Consiglio. Sarebbe il quarto incarico governativo a nostra memoria per il professore della Bocconi: dirigente del Ministero del Tesoro tra il 1992 e il 1994, a occuparsi di privatizzazioni, poi consigliere economico di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi quando quest’ultimo era definito da Guido Rossi «l’unica merchant bank in cui non si parla inglese», tra il 1998 e il 2000, e infine consulente di Mario Monti per la spending review nel 2012. Anni meravigliosi, in cui sono state poste le fondamenta dell’economia pubblica italiana come la conosciamo ora.

Un suo ritorno a Palazzo Chigi, già anticipato, del resto, dall’utilizzo di frasi intere tratte da un suo editoriale dello scorso anno nel discorso con cui il presidente del consiglio Mario Draghi ha chiesto la fiducia alle camere, sarebbe un segnale molto netto dell’impostazione ideologica che Draghi intende dare al proprio governo. Dopo settimane di chiacchiere su keynesismo e liberalsocialismo e di stucchevoli riferimenti a Federico Caffè come «maestro» del presidente del consiglio, a prevalere nell’organigramma dell’esecutivo sarebbe una scuola nettamente diversa.

Francesco Giavazzi, oltre a essere un economista di primissimo livello, tra gli italiani più affermati nella sua disciplina a livello internazionale, ha infatti un merito inequivocabile nella trasparenza delle proprie posizioni politiche: è un liberista convinto e orgoglioso, che non nasconde le proprie idee. Nel 2013 ha firmato la prefazione della nuova edizione italiana di Liberi di scegliere, testo classico di Milton Friedman e sua moglie Rose, ripubblicato in quell’occasione dall’Istituto Bruno Leoni, think tank dell’ultraliberismo italiano e, recentemente, del negazionismo climatico. I suoi editoriali pubblicati nel corso degli anni sulle pagine del Corriere della Sera e de LaVoce.info rappresentano la sintesi più nota al grande pubblico italiano del pensiero economico dominante nella sua versione più radicale: stato minimo, privatizzazioni, fiducia cieca e assoluta nel mercato, smantellamento di servizi pubblici e diritti dei lavoratori, rigore di bilancio come dogma intoccabile.

Il 4 agosto 2007, nelle settimane dell’esplosione della bolla dei mutui subprime degli Stati Uniti, scriveva sulla prima pagina del Corriere: «La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda». Una fede incrollabile nel capitalismo, la sua, che neanche il successivo crollo della finanza americana riuscì a scalfire. Il giorno dopo il fallimento di Lehman Brothers, il 16 settembre 2008, pubblica su LaVoce un articolo intitolato «Una vittoria del mercato», la cui prima riga recitava: «Ieri è stata una buona giornata per il capitalismo». Insomma, nell’agosto 2007 non c’era nessuna crisi, nel settembre 2008 c’era ma il mercato la stava gestendo alla grande, nel 2009 era già finita. Il 23 aprile di quell’anno, infatti, l’editoriale di Giavazzi sul Corriere archiviava già tutto in un memorabile appello all’indulgenza plenaria: «È venuto il momento di smetterla con le inutili discussioni sulle colpe della finanza e sul futuro del capitalismo (certo non saremo noi a determinarne la svolta, se mai ci sarà) e invece pensare al domani».

Sarebbe facile infierire sulla nota preveggenza degli economisti e su come ciò cozzi con l’idea tecnocratica del «governo dei migliori». In questa sede ci interessa segnalare soprattutto la coerenza ideologica di Giavazzi, il suo inequivocabile posizionamento, e l’imbarazzo che ciò dovrebbe causare a chi per settimane ha cercato di rivendere all’opinione pubblica progressista l’idea di un governo Draghi nella peggiore delle ipotesi politicamente neutro e nella migliore avanguardia del nuovo keynesismo.

Lasciamo giudicare al lettore la compatibilità tra questa prospettiva e le posizioni che Francesco Giavazzi ha portato avanti negli anni. Chi scrive ha avuto modo di familiarizzare con i suoi testi quando questi difendevano a spada tratta la riforma Gelmini dell’università nel 2010, definita «una riforma che va difesa» sul Corriere del 30 novembre 2010. Per la verità, Giavazzi ha sempre mosso una critica all’allora ministra dell’istruzione nel governo Berlusconi e ora ministra degli affari regionali nel gabinetto Draghi: limitarsi a tagliare drasticamente i fondi alle università pubbliche non era abbastanza; molti atenei andavano semplicemente chiusi, e il sistema di finanziamento dei rimanenti doveva basarsi su una liberalizzazione totale delle rette, come nel modello privatistico diffuso nei paesi anglosassoni. Del resto, scriveva su La Voce il 28 novembre 2012: «Siamo sicuri che questo paese davvero abbia bisogno di più laureati?».

Una visione, quella della fine di qualsiasi idea redistributiva e universalistica dei servizi pubblici, per lasciare spazio alla privatizzazione totale, che non si limita all’università. Il 23 settembre 2012, in coppia con Alberto Alesina, Giavazzi pubblica sul Corriere un editoriale intitolato «C’era una volta lo stato sociale» in cui propone esattamente l’abolizione del modello redistributivo e universalistico del welfare, a vantaggio di un modello in cui i servizi pubblici fanno da rete di supporto di ultima istanza per i più poveri, mentre tutti gli altri comprano istruzione, sanità e pensioni sul mercato. In tempi di pandemia, è particolarmente interessante il passaggio che quell’articolo dedica alla sanità: «Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l’investimento. Invece, se anziché essere tassato con un’aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate».

Una visione da friedmaniano ortodosso, in aperto contrasto con ciò che resta del modello sociale europeo e perfettamente in linea con le politiche che ci hanno allegramente portato prima alla crisi del 2008, poi al decennio dell’austerità e ora ad affrontare la pandemia di Covid-19 con una rete di servizi pubblici ridotta all’osso da decenni di picconate. Un modello che ritorna nel pamphlet Il liberismo è di sinistra (Il Saggiatore), pubblicato nel 2007 sempre con Alberto Alesina: nel libro, la parola «licenziamento» nelle sue varie forme compare 44 volte, sempre in accezione positiva, mentre la parola «diritto» compare 7 volte, 6 delle quali in accezione negativa. Le ricette presentate nel testo sono quelle classiche della scuola di Chicago: liberalizzare completamente i licenziamenti, limitare il più possibile gli obblighi dell’impresa nei confronti dei dipendenti, tagliare drasticamente il finanziamento pubblico all’università scaricandolo su studenti e famiglie, ridurre all’osso ogni spesa pubblica e ogni pubblica amministrazione, sostituire il sistema pensionistico pubblico con la previdenza privata in stile americano, ritirare completamente lo stato dal campo dell’economia cedendo tutto ciò che può essere ceduto. L’ultimo capitolo del libro contiene un elogio al limite della commozione nei confronti del thatcherismo, già citato in lungo e in largo nel testo come massimo esempio di politica economica: «Considerate l’Inghilterra di fine anni Settanta. Il paese era sull’orlo del baratro economico, preda di sindacati combattivi e nelle mani di un partito laburista massimalista. Era una società bloccata che pareva destinata a un inevitabile declino. È bastata Margaret Thatcher per cambiare prospettiva: certo, la ‘signora di ferro’ ebbe la forza di resistere, ma ora è passata alla storia. Negli anni Ottanta era vista come una specie di mostro anche dalla sinistra italiana più moderata. Ora è un modello cui ispirarsi; meglio tardi che mai».

Sarebbe sbagliato, però, ridurre la figura di Giavazzi e quelle dei suoi sodali a caricature del circo mediatico, buoni per editoriali e pamphlet. Si tratta, invece, non solo di economisti dal peso accademico notevole, ma anche e soprattutto di intellettuali organici a un determinato pezzo di società, alla sua visione del mondo e alle istituzioni che ne difendono l’egemonia. Un articolo pubblicato nel 2015 dalla ricercatrice islandese Oddný Helgadóttir sul Journal of European Public Policy, infatti, evidenzia il ruolo centrale del gruppo di bocconiani guidato da Alberto Alesina nella costruzione del meccanismo europeo dell’austerità. Il paper, intitolato The Bocconi boys go to Brussels: Italian economic ideas, professional networks and European austerity” sottolinea come l’idea dell’«austerità espansiva», di origine einaudiana, sia stata popolarizzata a livello continentale proprio da Alesina e Giavazzi, teorici a lungo tempo della necessità di un «vincolo esterno» europeo per imporre, attraverso la disciplina di bilancio, uno smantellamento del welfare che altrimenti sarebbe stato politicamente insostenibile. 

La tesi dell’austerità espansiva, smentita categoricamente dall’Europa degli anni Dieci, è stata poi rivista dai suoi stessi sostenitori, che nel recente libro Austerità: quando funziona e quando no (2019, Rizzoli) propongono una visione più articolata del tema, pur restando fervidi supporter del taglio della spesa pubblica. Lo stesso Giavazzi, negli editoriali sul Corriere della Sera e su LaVoce degli ultimi anni, si è decisamente ammorbidito rispetto all’epoca ruggente degli anni 2000, accompagnando ad esempio con favore la politica di quantitative easing portata avanti da Mario Draghi alla guida della Bce, e sostenendo l’importanza maggiore della crescita rispetto ai vincoli di bilancio. I tempi sono cambiati per tutti. Ma l’impostazione di fondo sembra rimasta quella: il 17 giugno 2020, appena finita la prima ondata della pandemia, intitolava un suo editoriale sul Corriere «I vincoli di bilancio non vanno ignorati». E il suo ultimo scritto prima dell’insediamento del governo Draghi, pubblicato sempre sul Corriere il 30 gennaio scorso, potrebbe essere considerato un manifesto politico del nuovo governo. Nel testo si legge che «è un errore continuare a ripetere che il nostro problema maggiore è il debito pubblico: il nostro problema maggiore sta nell’assenza di crescita», per poi arrivare all’ipotesi: «e se invece fosse proprio il debito la causa della nostra assenza di crescita?». Il tema di fondo è quello del Next Generation Eu, da trattare, secondo Giavazzi, non come un semplice piano di finanziamenti, ma come un’occasione per «alcune riforme senza le quali è difficile pensare che qualunque piano si traduca in crescita». Quali riforme? Il testo cita giustizia e pubblica amministrazione. Affidare quest’ultima alle gentili cure di Renato Brunetta fa presagire poco di buono, sulla direzione di queste riforme, ma chiaramente ci sarà da vedere. Per ora, quasi tre decenni di politiche ispirate agli assiomi del pensiero dominante, dalle privatizzazioni alle riforma del mercato del lavoro, non sembrano aver portato la tanto agognata crescita. Non sarebbe il caso di cambiare direzione? Davvero quello di cui abbiamo bisogno è l’ennesimo ritorno del liberismo?

L’idea del governo Draghi come grande occasione di modernizzazione dell’economia italiana, a discapito dei suoi settori più retrivi e principali, non è priva di fascino, dal punto di vista di una sinistra che non si è mai identificata con la difesa di uno status quo in cui c’è poco da difendere. Ma la direzione di questa modernizzazione fa tutta la differenza del mondo. Politiche industriali per la transizione ecologica o greenwashing per qualche azienda energetica? Programmazione pubblica dell’innovazione per creare posti di lavoro di qualità o deregulation per attirare capitali stranieri a colpi di fiscalità di vantaggio e contrattazione al ribasso? Le partite aperte sono molte, e a chi vi è impegnato da sinistra e dal basso, in una prospettiva ecosocialista, tuffarsi nelle parole vergate nei decenni da Francesco Giavazzi lascia addosso più di un brivido.

*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).

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