domenica 28 febbraio 2021

C’è poco da rider.

Collaboratori a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato per quanto riguarda aspetti retributivi, previdenziali, assicurativi, di salute e sicurezza”. A questa conclusione è giunta l’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Milano per i profili penalistici e dall’Ispettorato nazionale del lavoro, a cui hanno partecipato l’Ispettorato del lavoro e il nucleo ispezioni lavoro dei Carabinieri di Milano, l’Inps e l’Inail e che riguarda “l’inquadramento dei rapporti di lavoro dei rider”.

 

ilsimplicissimus Anna Lombroso

”Non schiavi ma cittadini, ne vanno assunti 60mila”, ha dichiarato il Procuratore di Milano annunciando che sono state indagate 6 persone, tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza delle società Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo, alle quali sono state “contestate ammende ” sui profili di sicurezza dei fattorini per “oltre 733 milioni di euro”. 

In realtà un anno fa i rider di Foodora avevano ottenuto lo stesso riconoscimento grazie a una sentenza della Cassazione, che pose fine a un contezioso iniziato nel 2017 quando alcuni fattorini avevano fatto causa all’azienda. Già allora la Corte,  nell’ ammettere l’assimilazione del contratto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato alle “forme contrattuali comuni”, in virtù degli  obblighi di pagare una penale se non effettuano la consegna a tempo debito, quello di sostare in luoghi prestabiliti in attesa, quello di  verificare la corrispondenza tra l’ordinazione e il prodotto  ritirato dal ristorante o dal magazzino e di comunicare l’avvenuto recapito, intendeva colpire gli abusi di chi  impedisce di fatto il riconoscimento del loro status di lavoratore dipendente.

Allora come oggi, siamo nuovamente di fronte a un esercizio di potere sostitutivo della magistratura chiamata a coprire le falle della politica e le sue  giravolte propagandistiche come nel caso dell’iter del decreto Dignità che in prima battuta dava una interpretazione del lavoro subordinato,  estesa a “chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore”,  per poi invece riallinearsi al dettato del Jobs Act, condannando questi mestieri alla precarietà estemporanea.

Toccherebbe dire grazie al Covid che ha rivelato la dipendenza totale del sistema dalle infrastrutture logistiche globali, che sono state consacrate come  “essenziali” per la sopravvivenza della società “confinata”, riconoscendo al settore la condizione di operatore di importanza vitale e ai suoi dipendenti quella di eroi predisposti al sacrificio  a dispetto di sicurezza, garanzie e diritti.  

L’indispensabilità  dei servizi online, siano essi di chat, videochiamata,  app comprese quelle intese alla sorveglianza, di acquisto e consegna a domicilio, ha consolidato il regime monopolistico delle reti della logistica e delle società di intermediazione commerciale just in time (consegna di prodotti a domicilio, dai pasti ai libri). E si sono aggiunti alla rete di dominio anche i principali gruppi di vendita al dettaglio che hanno  accelerato la loro conversione all’e-commerce e al recapito a domicilio,  contenendosi il pubblico che continuerà per chissà quanto tempo a vivere e consumare sotto la minaccia costante del contagio.

Per questo è altamente improbabile che la sentenza e le indagini delle quale istintivamente abbiamo goduto come di un elementare segnale di civiltà,  diano risultati concreti. Intanto perché  l’epifania del vaccino lascerà immutato lo stato di eccezione delle restrizioni, delle chiusure, delle mascherine, dei distanziamenti, e poi perché il sistema economico e sociale non fa retromarcia rispetto a certi fenomeni: l’assetto delle relazioni produttive e delle abitudini di consumo  non lo permette, come abbiamo verificato con la eclissi del commercio al dettaglio di vicinato, con la demolizione delle cattedrali del consumo, centri, mall, empori che da tempo si misurano con la necessità di convertirsi alla vendita online e alla consegna a domicilio, e che ora  sono in procinto di trasformarsi anche loro da intermediatori in produttori.

Anche in questo caso la riconversione di interi comparti posizionerà la consegna a domicilio  come asse centrale intorno alla quale si metterà alla prova lo spirito di iniziativa e il potenziale  dell’azienda che inevitabilmente farà ricorso a una manodopera non qualificata e a basso costo.

Per quello c’è da aver paura della rivoluzione digitale come la immaginano i suoi profeti che ha bisogno di eserciti sempre più numerosi sicché la figura del rider, da marginale che era nella forma di test da eseguire per sperimentare l’applicabilità di nuove forme di sfruttamento e di sorveglianza, sarà generalizzata e normalizzata con grande soddisfazione padronale.

Si tratta infatti di una tipologia di lavoratori  caratterizzata da una bassa sindacalizzazione, effetto  non solo dei ricatti e delle intimidazioni aziendali e contrattuali, ma anche dalla sua composizione sociale: se prima si trattava  di giovani   che intendevano quell’occupazione come temporanea, utile a arrotondare la paghetta, dando l’impressione – come succede con i cosiddetti lavoretti alla spina – di conservare margini di autonomia, oggi invece annovera meno giovani,  padri di famiglia, cinquantenni in cassa integrazione, partite IVA che fanno consegne come integrazione ad altri lavori o ai sussidi di disoccupazione.

Per questi ultimi il cottimo digitale viene percepito come un riscatto che li emancipa dallo status di disperato e al tempo stesso di parassita, conquistato lavorando con ritmi schiavistici e con un lordo a fine mese che arriva a 1200 euro, ma che sottratti  ritenuta d’acconto, benzina non tocca i 1000/900 euro, tanto che viene inteso come un non-lavoro così da non esigere coscienza della propria condizione, difesa dei propri diritti, salvaguardia della propria dignità, facendo della precarietà allo stato puro una posizione vantaggiosa che concede spazi di “autodeterminazione” da un datore di lavoro virtuale che permette di scegliersi il tragitto, il mezzo di locomozione, il percorso e la facoltà di farsi spolpare h24, festivi compresi.

Così si perpetua l’equivoco anche quando da secondo lavoro, da part time o cespite aggiuntivo si è trasformato in unica fonte di reddito, grazie al quale la subordinazione a un algoritmo è meno iniqua di quella al sciur paron in braghe bianche,   anche se è soggetto alla concorrenza con altri più giovani, più scafati tanto da mettere in piedi piccoli sistemi di caporalato, anche se si deve sottostare a una sorveglianza feroce, a arbitrarie verifiche di produttività e efficienza.   

Le forme di ricatto si faranno sempre più provocatorie e la pressione sempre più potente, perché il bacino dei potenziali addetti è sempre più largo e perché la scurezza economica e quindi contrattuale delle major della logistica consiste sempre di più in un altro brand, quello della commercializzazione die dati, che riguarda i consumi, le preferenze, le inclinazione, la diponibilità economica e di spesa degli utenti, che a clienti sono diventati produttori e dispensatori gratuiti della loro merce fatta di informazioni sensibili.

Tempo fa un rider bolognese che partecipava a una trasmissione televisiva ha confessato che da quando la nuova clientela esigente e taccagna si è aggiunta, approfitta delle opportunità del Covid per sputare sui campanelli dei destinatari che non gli danno la mancia. Altri, sempre in Tv se la sono presa sulla concorrenza sleale degli stranieri, quei maledetti immigrati che si accontentano di poco, ancora meno di loro. I sindacati confederali non si preoccupano di un target che non si iscrive, non va nei patronati, non fa tesoro del Welfare aziendale, le piazze le attraversa solo in bici e non ha rilevanza mediatica, indifferenti al fatto, non sorprendente, che l’unica organizzazione che ha messo in piedi una iniziativa di settore sia l’Ugl.

Così non sappiamo nulla del fatto che da settembre sono in corso mobilitazioni dei dipendenti di  fattorini che dipendono dalle aziende di Assodelivery (Glovo, Deliveroo, JustEat), che a Torino e Milano sono stati promossi blocchi per impedire l’asporto della merce, cortei scampanellanti in bici per bloccare  le arterie principali e che nei social si formano gruppi di denuncia e protesta.

Invece c’è da sperare che gli ultimi diano una sveglia ai penultimi che stanno nella loro tana ancora per poco protetta aspettando la pizza e gli spring rolls, senza voler sapere che sono già avvelenati dall’ingiustizia.    

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