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di Franza Ferrè
Tra il 2015 ed il 2016 il governo italiano, all’epoca guidato da Matteo Renzi, fece entrare in vigore due leggi di riforma del settore bancario che miravano a togliere di mezzo le ultime due categorie di soggetti che, in qualche imperfetto modo, ancora ispiravano la loro attività creditizia a princìpi di cooperazione e mutualità, ovvero le Banche Popolari e le Banche di Credito Cooperativo. Le due tipologie di banche dovettero ottemperare, chi prima chi dopo, chi spontaneamente chi obtorto collo, alla legge che prescriveva alle Banche Popolari di trasformarsi in SPA ed alle Banche di Credito Cooperativo di affiliarsi ad una capogruppo con almeno un miliardo di capitalizzazione con pieni poteri di direzione e coordinamento sulle singole BCC.
Un paio di anni prima della Riforma (maiuscola), il sottoscritto ebbe la ventura di andare a lavorare in un Ente del mondo Cooperativo, nel perimetro di quella che poi sarebbe diventata una delle due Capogruppo. Sulla base della pur parziale conoscenza diretta e di solide letture in tema bancario ed economico, trovavo sempre più assurdo il progetto di riforma ed incomprensibile l’apparente entusiasmo con cui le Banche di Credito Cooperativo si stavano consegnando disarmate alle nuove Capogruppo e nel 2018, in pieno furore attuativo dei complicatissimi passaggi organizzativi necessari (cui stavo partecipando per lavoro) mi misi a studiare come tutto ciò era potuto avvenire.
Studiando genesi e passaggi intermedi divenne sempre più chiaro ed evidente che i motivi di quel percorso erano tutti politici ed avevano come obiettivo primario quello di mettere sotto tutela BCE le ultime due componenti “refrattarie” del mondo bancario italiano. La pervasività ed invadenza della presenza BCE nelle Capogruppo confermava giorno dopo giorno che il disegno non era vigilare sull’attività di intermediari diventati improvvisamente significant (come dicono loro), ma dirigerli e comandarli dall’interno. Obiettivo ultimo: uniformarli alla visione one size fits all e soprattutto farli smettere di fare credito, in particolare alle PMI italiane, piccole, quindi brutte e cattive. E fa niente se tutto ciò toglierà alle BCC il loro mercato di riferimento e le porterà a perdere quote di mercato, banche che proprio sulla loro peculiarità, diversità, conoscenza del territorio avevano costruito il modello di business (vincente fin qui, molto più del modello spinto dai funzionari BCE). In realtà, anche dando per buona (e non lo è) la visione BCE per cui l’unica cosa che conta è il patrimonio, le BCC avrebbero potuto ottenere la solidità richiesta non solo sottomettendosi ad una capogruppo eterodiretta, ma anche unendosi in organismi di altro tipo, denominati IPS (Institutional Protection Scheme). Lo sostenevo nell’Instant Book nel 2018, ma soprattutto lo sostenevano gli studiosi che si erano occupati prima, e più autorevolmente, di me della materia, come, tanto per fare due nomi, Vladimiro Giacchè e Rainer Masera.
Un IPS è definito dalla normativa europea come “un accordo di responsabilità contrattuale o previsto dalla legge che tutela gli enti partecipanti e, in particolare, garantisce che abbiano liquidità e solvibilità sufficienti a evitare il fallimento, ove necessario”. In Europa, sono stati costituiti degli IPS in tre paesi: Spagna, Germania ed Austria, cui aderiscono un numero di banche pari al 50% (!) del totale dei paesi Area Euro, con attivi che rappresentano il 10% del totale. Le norme di vigilanza riservano – non per caso, dato che si tratta di un istituto usato principalmente in Germania – diverse agevolazioni agli IPS, la principale delle quali prevede che, se un IPS contiene solo banche con meno di 30 miliardi di Euro in asset è vigilato dall’autorità di controllo nazionale e non da quella europea (BCE). Oggi il 60% delle banche italiane sono sottoposte alla vigilanza di BCE, mentre lo è solo il 4% delle (numerosissime) banche tedesche. I requisiti per la costituzione di un IPS sono specificati dalla normativa europea e prevedono che l’ente sia in grado di sostenere gli aderenti in caso di crisi significativa, che si doti di meccanismi di prevenzione di comportamenti opportunistici (prevedendo, se del caso, anche sanzioni) ma senza poter interferire nella gestione delle banche aderenti, la cui contribuzione al capitale comune deve essere commisurata alla sua rischiosità.
La notizia è che, quattro anni dopo la Riforma e grazie anche ad un emendamento introdotto dal sen. Bagnai al Decreto Fiscale del 2019 (che aveva neutralizzato l’obbligo introdotto dalla legge di strutturarsi in Gruppi) le Banche di credito cooperativo dell’Alto Adige, il “terzo polo” del credito cooperativo italiano, il 13 novembre scorso hanno costituito il primo IPS italiano. L’iniziativa è stata approvata da Banca d’Italia, la stessa Banca d’Italia che nel 2016, nell’audizione parlamentare in cui si discuteva il progetto di legge della Riforma del settore, diceva per bocca del suo Direttore Carmelo Barbagallo, che
“Altre soluzioni, ad esempio un sistema di tutela istituzionale volto a proteggere la liquidità e solvibilità delle banche aderenti (Institutional Protection Scheme – IPS), non sarebbero da sole sufficienti. L’IPS è utile per prevenire il deterioramento delle situazioni aziendali e, in caso di crisi, evitare che i costi ricadano sui depositanti e sugli altri investitori; tuttavia, a differenza del gruppo bancario, non consente (…) il reperimento sul mercato dei capitali delle risorse patrimoniali necessarie per l’adeguata ricapitalizzazione degli aderenti.”
I ventriloqui di Via Nazionale, del resto, non si sbagliavano, dato che BCE, commentando una proroga dei tempi della Riforma, disse nel 2018 che
“il potere conferito alla capogruppo di gestire gli enti affiliati e di coordinare il gruppo è cruciale per il successo della riforma”
Oggi, a due anni di distanza, sono tutti concordi, perfino Banca d’Italia, nel considerare che la vigilanza Europea sui Gruppi Cooperativi non sia proporzionata all’operatività ed alle caratteristiche dell’attività svolta dai vigilati. In più, la prevista declinazione del concetto di “mutualità” nei criteri di Vigilanza sulle BCC, richiesta dalla Legge 136/2018 (governo gialloverde) è rimasta nei cassetti del Ministero dello Sviluppo Economico, mentre uno dei presupposti della Riforma, ovvero l’attrattività nella ricerca di nuovi capitali “sembra (come dice P.P.Merlini, Responsabile First per il Credito Cooperativo) non funzionare; anzi, il sistema tende a smarrire le caratteristiche proprie del credito cooperativo, quali mutualità e territorialità”.
Se n’è accorto perfino il Presidente del Consiglio che, recentemente, ha dichiarato “Quella riforma ( …) dobbiamo prenderne atto, rischia di portare a un’eccessiva omologazione regolamentare del modello bancario, con vincoli pensati per le banche cosiddette “sistemiche” che rischiano però concretamente, adesso ne siamo consapevoli, di frenare l’erogazione di liquidità sul territorio”.
“Adesso ne siamo consapevoli” dice lui.
Si poteva, e si doveva, esserne consapevoli PRIMA. E questo vale anche per i sindacati (che volevano, e vogliono ancora, addirittura il “Gruppo unico”) e per quei presidenti di BCC che rifiutarono nel 2015 (così raccontano fonti interne al mondo cooperativo) l’ipotesi IPS per beghe interne di cortile, ben prima che lo facesse Banca d’Italia.
Oggi abbiamo una buona notizia, però: l’IPS è vivo, anche in Italia, e lotta insieme a noi… meglio tardi che mai, dice il proverbio. Se si vuole riportare il mondo del credito cooperativo ad essere … cooperativo (e forse pure redditizio) la strada è quella: per chi non la vorrà prendere in considerazione, nemmeno adesso, valga ciò che disse Dante “chi è causa del suo mal, pianga sé stesso”… altrimenti, dove non arriverà il Covid, arriverà la Riforma.
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