mercoledì 30 dicembre 2020

Libri. Eroi ed eroine.

Finito il tempo delle grandi narrazioni nazionalpopolari, dei miti classici e religiosi, lo spazio lasciato vuoto è stato occupato dalla rassicurante cultura pop. Si tratta di un campo nient’affatto neutrale e pacificato.

 

jacobinitalia.it Gaia Benzi

Il 19 ottobre 2020 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso di una cerimonia annunciata nel giugno precedente, ha conferito le onorificenze di Cavaliere dell’Ordine al Merito agli «eroi» della pandemia.

La caratura eroica delle gesta dei medici, degli infermieri e delle infermiere, dei ricercatori e delle ricercatrici che «si sono particolarmente distinti nel servizio alla comunità durante l’emergenza del Coronavirus» era stata sancita nei mesi precedenti dagli osanna a reti unificate – malgrado le rimostranze dei diretti interessati, che in più occasioni si erano detti disponibili a rinunciare all’appellativo in cambio di fondi, attrezzature e interventi concreti. Ma la macchina era partita, e il paese aveva bisogno di celebrare i suoi eroi «in trincea» per mascherare le carenze strutturali di una sanità al collasso ed elaborare il trauma.

In questa seconda ondata, ora che il lockdown è soft e la produzione non si è mai fermata, di eroi ed eroine non si parla più. La categoria di eroe ha ormai esaurito il suo compito all’interno della narrazione collettiva, quello di ammansire le coscienze ed evitare di alzare le paghe di chi produce e riproduce il tessuto sociale. Il mondo straordinario degli eroi della quarantena, dei lavoratori e delle lavoratrici essenziali costretti a uscire di casa e rischiare il contagio tra marzo e aprile, è stato trasformato per decreto nel mondo ordinario di tutte e tutti, e le loro gesta non hanno più nulla di eccezionale.

L’«eroe» può così tornare nel prudente alveo della narratologia, dopo aver svelato per un attimo la funzione politica che riveste come punto di condensazione dei valori dominanti. Ma quella dell’eroe «è una figura potente, pervasiva, che forse vale la pena di sottrarre a un immaginario conservatore se non addirittura reazionario», e negli scorsi mesi sono usciti due saggi che, partendo da prospettive diverse, provano a effettuare proprio questa sottrazione: Eroine di Marina Pierri (Tlon, 2020) e Il viaggio rivoluzionario dell’eroe del collettivo Antongiulio Penequo (Mimesis, 2020).

Entrambi si pongono come obiettivo l’analisi dell’epos moderno, fatto di saghe transmediali e serie tv, fumetti supereroistici e trasposizioni cinematografiche di successi della letteratura di genere. Finito ormai il tempo delle grandi narrazioni nazionalpopolari, dei miti classici e religiosi, lo spazio lasciato vuoto è stato occupato dalla rassicurante cultura pop e dal suo libero mercato di stereotipi. Tanto Pierri quanto Penequo considerano questo un campo nient’affatto neutrale e pacificato, ma anzi un terreno di conflitto aperto, da abitare criticamente, ponendosi nell’atteggiamento partecipante tipico di un ascolto attivo che interroga narratore e materia narrata. Partendo dai saggi capostipite di questo filone critico-interpretativo, L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell e Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler, Pierri e Penequo lavorano sui meccanismi di costruzione dell’immaginario e sugli archetipi collettivi, con l’obiettivo dichiarato di trovare strumenti che aiutino il pubblico partecipante a costruire la propria soggettività personale e politica, e a dare forma a nuovi paradigmi di rivendicazione e lotta.

«Narrare, conoscere e insorgere hanno la stessa forma»

Il viaggio rivoluzionario dell’eroe si apre con una dichiarazione di intenti esplicita e circostanziata: le narrazioni sono il presupposto immateriale alla nostra capacità di valutare l’orizzonte di possibilità in cui ci muoviamo, come individui e come società. Sempre scissi tra ciò che percepiamo come possibile e ciò che desideriamo, le narrazioni delimitano questo «spazio simbolico oppositivo, tra soggettività ed eterodirezione», determinando «le forme che presiedono allo sviluppo della coscienza e dell’azione, o alla loro inibizione».

In un momento in cui la capacità di immaginare il futuro è sempre più compromessa dal presente e dalle sue pastoie, con lo spettro di Tina (There Is No Alternative) di thatcheriana memoria a incombere sulle utopie, vecchie e nuove, indagare questo spazio simbolico restituisce respiro al ragionamento. Per farlo, però, bisogna subito sgombrare il campo dall’accezione banalizzante di eroe, portatrice di «aspetti bellici, retorici e patriarcali»: un «eroe conservatore», che alle lotte di emancipazione di oppresse e oppressi non ha nulla da dire.

Nei cinque saggi che compongono il libro, Penequo prova a sbrogliare la matassa eroica – composta da un miscuglio di «forza liberatoria» e «residui irrazionali» (Maurizio Marrone, La decisione dell’eroe. Apocalisse, zombie e clown) – riconoscendone la vocazione rivoluzionaria e dispotica insieme, e scegliendo di battere le strade in cui a emergere è la prima. Le tradizionali tappe del viaggio dell’eroe vengono trasposte in contesti inusuali, mandando in cortocircuito gli schemi interpretativi.

Nel primo saggio della raccolta, Cambiare il mondo con un bacio, Luca Cangianti paragona l’eroe allo scienziato innovatore descritto da Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche che, come i protagonisti di Stranger Things, è in grado di vedere il sottosopra, cioè di scorgere un’altra interpretazione della realtà sotto le vestigia del paradigma dominante. Proprio questa capacità di accedere al mondo straordinario e di svelarne l’esistenza è stata secondo Cangianti la molla che ha permesso a Marx di scrivere il Capitale e iniziare la sua peculiare rivoluzione teorica. In un altro esempio, ardito ma interessante, Cangianti paragona It di Stephen King al Capitale di Marx: come a Derry si nasconde una creatura aliena in grado di cancellare il proprio ricordo dalle menti degli abitanti, così «nel Capitale la realtà mostruosa dello sfruttamento economico è invisibile, nascosta sotto una superficie popolata da entità quali prezzi, merci, scambio tra equivalenti, uguaglianza e democrazia».

In L’eroe smascherato eppure rivendicato, Fabio Ciabatti traccia un sintetico quadro evolutivo della figura dell’eroe, dall’epos mitico premoderno fino alla contemporaneità, passando attraverso la disillusione dell’eroe borghese di Otto e Novecento. In ognuna di queste tappe, il conflitto tra soggettività eroica e mondo oggettivo si ricompone in maniera differente, rispecchiando i valori e il gusto della società in cui la narrazione è nata e situata. L’ultima tappa, secondo Ciabatti, è proprio l’eroe del Viaggio descritto da Vogler: un eroe neoliberista, meritocratico, sorretto dalla mera forza di volontà, che si muove in una società opaca, ostile e atomizzata, e per il quale «la padronanza di sé compensa l’impossibilità di controllare il mondo».

Il conflitto tra soggetto e mondo a quest’altezza si è ormai ridotto alla dimensione psicologica, secondo i dettami dell’Arco di trasformazione del personaggio delineati dalla sceneggiatrice Dara Marks. La sua fisionomia nasce vecchia, da un tuffo nel passato, composta dalla mescolanza dell’eroe granitico del «romanzo popolare» di epoca fordista (il John Wayne tutto d’un pezzo dei western d’antan) con gli antichi riti d’iniziazione. Il risultato è un viaggio eroico che parte da una «dissonanza cognitiva» del protagonista e si conclude con la trasformazione interiore volta a ricomporre questa dissonanza. L’ultima tappa del Viaggio di Vogler, il ritorno al mondo ordinario, altro non è che il lieto fine hollywoodiano, in cui il singolo, trasformato dagli eventi, scopre che la felicità sta nell’adattarsi a un mondo «che gli preesiste immutabile».

L’unica speranza di dare vita a un eroe rivoluzionario è allora trovarne uno «che sia espressione di una dissonanza cognitiva collettiva e non meramente individuale», tale da impedire la ricomposizione pacificata del conflitto.

«Il Viaggio è finito. Il Viaggio è ricominciato»

Il viaggio davvero rivoluzionario, sostiene Ciabatti, è quello che «non può concludersi», in cui il ritorno al mondo ordinario – il ritorno alla normalità – non è né possibile né auspicabile. E quale viaggio dell’eroe è più rivoluzionario, a questo punto, se non il viaggio dell’eroina?

In Eroine Marina Pierri fa un passo indietro rispetto a Penequo, e analizza la questione da un’angolatura diversa. Non cerca di capire come il viaggio dell’eroina (singolare) possa immediatamente diventare viaggio delle eroine (plurale, politico), ma poggia sull’assunto femminista che il personale è già politico e si chiede in che cosa differisca il viaggio dell’eroina dal viaggio dell’eroe.

Basandosi sul libro di Maureen Murdock, Il viaggio dell’Eroina, e sugli scritti di Kim Hudson e Victoria Lynn Schmidt, Pierri nega categoricamente che lo schema di Vogler possa essere riprodotto in versione femminile senza colpo ferire, perché le figure archetipiche su cui si basa il Viaggio dell’eroe sono intrise di un’inservibile cultura patriarcale. Tutto il libro di Pierri ruota attorno alla possibilità di delineare un eroismo femminile che esca dallo steccato degli stereotipi in cui lo sguardo maschile l’ha sempre confinato: per dare vita a un’eroina c’è bisogno innanzitutto di escludere il secolare male gaze – l’atto di raffigurare le donne da una prospettiva maschile, nelle arti visive e nella letteratura – dal suo processo di soggettivazione.

Per prendere a prestito le parole dell’attrice e sceneggiatrice Brit Marling, citate e tradotte da Pierri:

A volte ho la percezione di quel che lei [l’eroina, Ndr] potrebbe essere. Una donna veramente libera. Ma quando cerco di inserirla nel Viaggio dell’Eroe, si allontana come un miraggio. Mi dice: Brit, il Viaggio dell’Eroe è uno schema narrativo secolare scritto da uomini per mitologizzare gli uomini. Incita all’incidente, all’aumento della tensione, al climax esplosivo e all’epilogo. Cosa ti ricorda?
E dico: un orgasmo maschile.

Le tappe del viaggio dell’eroina ricalcano solo in parte quelle dell’eroe, e pure quando gli somigliano sono destinate ad assumere una configurazione diversa. Quello dell’eroina, potremmo dire, è un doppio viaggio, inconcluso per necessità, perché è costretta continuamente a confrontarsi con l’oppressione patriarcale che permea la sua esistenza, oltre a dover affrontare gli snodi specifici della sua storia. Se il viaggio dell’eroe è un percorso di costruzione – di sé, della comunità – nella sua lotta con l’antagonista, il viaggio dell’eroina è soprattutto un percorso di distruzione e decostruzione – di modelli comportamentali, di barriere sociali, di traumi incorporati – nella sua lotta contro la violenza patriarcale.

Se l’eroe ascende, l’eroina «discende per ascendere». Se per l’eroe la presa di coscienza può avvenire in un momento puntuale (il midpoint più volte citato da Penequo) che fa da spartiacque tra un prima e un dopo, per l’eroina i prima e i dopo sono tanti quante le fasi che attraversa. L’eroina non si limita a fuoriuscire una volta per tutte dal mondo ordinario: anche nel mondo straordinario del viaggio è costretta a combattere con quella parte di ordinarietà che ha interiorizzato, le sfaccettate e multiformi versioni di sé che il mondo patriarcale ha generato nella sua coscienza. Per questo il suo viaggio inizia ma non può finire, e la prima battaglia è quella che ingaggia per liberarsi degli stereotipi che imbrigliano la sua forza, e potersi affacciare a un sentire autentico e, infine, alla sorellanza – cioè alla coscienza politica.

Eroine è un libro interessante e importante, non solo per le singole lettrici o spettatrici, esplicitamente invitate dall’autrice a scandagliare i personaggi con cui interagiscono nel piccolo schermo e ad agirli per progredire nel proprio personale percorso di emancipazione – Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire è il sottotitolo del libro. È forse ancora più importante per tutte quelle voci femminili che lavorano in ambito narrativo e hanno a disposizione una cassetta degli attrezzi millenaria fatta e pensata dagli uomini per gli uomini, spesso inadatta a costruire eroine che non siano giovani, belle, bianche e forti – ma fragili, cioè la quintessenza del male gaze.

Il compito è improbo e il saggio di Pierri è uno strumento parziale, certo, ma ha il pregio di essere aggiornato alla contemporaneità, un primo tassello su cui costruire un’altra eroica, che forse non potrà mai essere davvero politica e rivoluzionaria come desidera Penequo senza tenere conto di tutte le soggettività che per secoli sono state escluse dalle narrazioni dominanti. Pierri su questo è molto esplicita: sulla scorta delle teorie del femminismo intersezionale si posiziona da subito, riconoscendo i limiti del proprio sguardo di donna bianca e privilegiata, e nel corso del libro è sempre disposta a passare il microfono quando necessario.

Un buon esercizio, infatti, non è soltanto chiedersi cosa si sta guardando, ma cosa non si sta guardando. Di fronte al centesimo antieroe la cui co-protagonista femminile appare essenzialmente una rompiballe o una bella statuina, o all’ennesima ragazza nera token – una sola, in un cast altrimenti interamente bianco – con un corpo filiforme, o alla decima persona trans uccisa in uno show per ‘servire le ragioni di trama’ è importante domandarsi perché, nel 2020, sia ancora così complicato raccontare una vicenda diversa, un punto di vista diverso da quelli cui siamo abituate e abituati.

In questo viaggio attraverso una straordinarietà che si fa sempre più ordinaria, in cui tutti siamo chiamati a essere eroi di un’avventura calata dall’alto, che non scegliamo ma che ci accade, è ancora possibile «rivendicare la figura dell’eroe a un immaginario antagonista, radicalmente alternativo allo stato di cose presenti»? Questi due saggi mostrano che non solo è possibile, ma è necessario. Il rischio, altrimenti, è quello di finire come i «marxisti volgari» descritti da Bloch, che colpevolmente trascurano il mondo dell’immaginazione e non montano «la guardia nelle regioni del primitivo e dell’utopia, proprio laddove i nazisti attingono il loro potere di seduzione».

*Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.

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