giovedì 31 dicembre 2020

Migranti e rotta balcanica: a piedi nudi nella neve

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Nei 25 anni passati dagli accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina s’è rivelata essere poco più di un’espressione geografica. Bosgnacchi, serbi e croati fingono d’essere uniti, ma sono divisi su tutto. Tranne che su una cosa: non volere i migranti. «Difendiamo la nostra città!». I profughi di ieri contro i profughi di oggi. La gente che un tempo veniva sfollata e che ora usa lo sfollagente. Nel gelo di fine anno, nella glaciale indifferenza che il Covid fa calare su qualunque altra emergenza globale, alle porte dell’Europa c’è un problema migranti che si sta trasformando in una guerra fra poveri, in una “vera catastrofe umanitaria” – dice l’ONU – che nessuno sa affrontare: almeno tremila mediorientali, nordafricani, asiatici da giorni vagano in ciabatte a venti sottozero per le foreste della Bosnia nord-occidentale, al confine con la Croazia, arrivati lungo la rotta dei Balcani e rimasti senza un campo dove rifugiarsi e respinti dalle guardie di frontiera croate e infine rifiutati dai cittadini bosniaci di Bihac. Che non li vogliono ospitare. Che presidiano la vecchia fabbrica dismessa di Bira, dove s’è provato a reperire un rifugio.

«Difendiamo la nostra città!», il grido di battaglia lanciato su Facebook da un gruppo di “patrioti” fra migliaia di follower e di like, fra politici e media locali che descrivono gli intrusi come criminali, terroristi, portatori di malattie.

Da Sarajevo, il Governo lascia fare e si volta dall’altra parte, nonostante abbia ricevuto 60 milioni dall’UE (più altri 25 in arrivo) proprio per tamponare questo disastro migratorio. Solo UNHCR e OIM, le organizzazioni mondiali per i rifugiati e i migranti, hanno rotto il silenzio con parole molto dure: «Nevica, siamo sotto zero, non c’è riscaldamento, niente», ha twittato spazientito il responsabile OIM per la Bosnia, Peter Van der Auweraert, ormai a fine mandato. «Non è così che dovrebbero vivere le persone. Servono coraggio politico e azione. Adesso».

Il caso esplode ora perché sabato scorso, alla notizia che la loro tendopoli di Lipa sarebbe stata chiusa, i disperati hanno incendiato il campo. Ma nessuno può dirsi sorpreso da quel che succede: è da mesi che molte ONG denunciano le condizioni di Lipa, 30 chilometri da Bihac, un campo temporaneo in mezzo al nulla, impiantato ad aprile per fronteggiare la pandemia. Le tende dovevano sbaraccare in settembre, ma nessuno ha fatto granché, per paura delle proteste degli abitanti della regione.

E il 9 dicembre, quando l’OIM ha deciso di non voler finanziare più un campo così inadeguato per l’inverno, concordando con le autorità locali una sistemazione nei container di Bira, la crisi è precipitata: 400 migranti hanno preso le loro quattro cose e hanno provato a entrare in Croazia, come al solito respinti dalla polizia di Zagabria con modi ruvidi (sono numerose le accuse di violenze); qualcuno esasperato ha dato fuoco alle tende; a tutti gli altri non è rimasto che vagare nei boschi innevati. Congelati, in un Paese pietrificato. Coi piedi violacei, la febbre alta, poche coperte, qualche pasto offerto dalla Croce rossa bosniaca: «Viviamo come animali», ha detto ai microfoni d’una tv Kasim, un giovane pakistano. «Anzi, gli animali vivono meglio di noi. Se non ci aiutate, moriremo. Per favore, aiutateci!».

Non dicano che non si sapeva. I Balcani sono l’area d’Europa a maggior concentrazione d’organizzazioni internazionali, militari e umanitarie, ma da quando è stata chiusa la rotta Turchia-Grecia-Macedonia-Serbia-Bosnia, le migrazioni sono continuate e poco s’è fatto: solo dal 2018, il governo di Sarajevo ha dovuto gestire 60 mila rifugiati e ora ne ha 6.500 in campi fatiscenti, oltre a questi 3.000 a spasso. La Croazia ha alzato un muro invisibile, sessanta respingimenti al giorno, e un dossier presentato la settimana scorsa alla commissaria UE per gli Affari interni, Ylva Johansson, censisce 12.654 abusi subiti dai migranti finiti in mano alle mafie o alle (spesso corrotte) polizie balcaniche.

Sono stati documentati da Amnesty International autentici casi di tortura: profughi sequestrati in cambio di riscatto, un marchio a fuoco sulle braccia a titolo del pagamento avvenuto. Da più di due anni c’è una coraggiosa maestra elementare bosniaca di Bihac, Zehida Bihorac, che in totale solitudine porta medicinali, vestiti, cibo e racconta sui social quel che patiscono i migranti nella Krajina, in fondo a quei 1.600 chilometri di cammino, di paura, di fame, di torture che li portano da Lesbos alle frontiere dell’Europa. Zehida ha ricevuto minacce, ha chiesto (spesso inutilmente) la protezione della polizia e il suo caso, come quello di tutti i volontari bosniaci che aiutano gli immigrati, ha spinto perfino le Nazioni Unite a protestare, chiedendo un’indagine sulle violenze xenofobe.

Tutto questo, a 25 anni da Dayton. E da quegli accordi di pace che nel dicembre 1995 liberarono gli stessi bosniaci dalla guerra, dal genocidio, dai campi profughi in cui erano stati cacciati, dall’incubo di dover vagare in cerca d’un destino migliore. Mai più, si diceva allora. In questo quarto di secolo, la Bosnia Erzegovina s’è rivelata essere poco più di un’espressione geografica, congelata in una pace vuota e fredda. Bosgnacchi, serbi e croati fingono d’essere uniti, ma sono divisi su tutto. Tranne che su una cosa: non volere i migranti.

L’articolo è tratto dal Corriere della Sera del 30 dicembre 2020

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