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Dopo oltre quattro anni è finalmente Brexit. Contro ogni pronostico, contro ogni rivelazione più o meno falsa dei media mainstream, e contro la propaganda di Bruxelles, il Regno Unito ha tenuto testa a 27 nazioni e alla macchina politico-amministrativa dell’Ue, portando a casa un accordo sul modello canadese che era quello che all’inizio entrambe le parti auspicavano. L’Ue ha fatto fatica a rinunciare alla sua voglia di punire Londra per il voto del 23 giugno 2016, ma alla fine la realpolitik ha prevalso: il Regno Unito resta un alleato di primo piano e già Michael Gove, uno dei ministri più importanti del Governo Johnson, ha parlato di nuova “relazione speciale” con le istituzioni comunitarie sulle colonne dell’europeista Times.
Non si sono capite diverse cose leggendo molta stampa nostrana che riprendeva passo dopo passo quella inglese filo-europea (il Guardian in particolare). Perché il Regno Unito avrebbe dovuto perire fuori dall’Ue, quando Paesi come la Svizzera e la Norvegia sono tra i più prosperi in Europa senza essere membri del club di Bruxelles? Perché Londra non poteva diventare un paradiso economico e fiscale se all’interno dell’Unione esiste un Paese che già lo è, il Lussemburgo, e lo stesso Regno Unito al suo interno, già da membro dell’Unione aveva dei territori che già lo erano? Perché Londra fuori dall’Ue avrebbe dovuto sottostare a direttive e regolamenti di Bruxelles e perché le controversie sull’accordo avrebbero dovuto essere poste davanti alla Corte di Giustizia Europea e non davanti a un organismo internazionale imparziale? Domande che difficilmente troveranno risposta, visto che per anni abbiamo dovuto assistere a una sconclusionata caccia al brexiteer, con tanto di annunci di carestie, mancanza di generi di prima necessità, carta igienica e chi più ne ha più ne metta. Ultimo in ordine di tempo il mitico Guardian che ha scritto che l’uscita dall’Ue avrebbe causato ritardi nell’arrivo del vaccino anti-Covid in Inghilterra. Invece l’Inghilterra è stato il primo Paese a vaccinare i suoi cittadini.
Persi come sono stati in queste quisquilie, molti commentatori non hanno rimarcato come Johnson sia stato un negoziatore più abile di Theresa May e si trovasse in una situazione win-win. Se si fosse arrivati al no deal, avrebbe comunque ottenuto il plauso di molti suoi backbenchers, che da tempo gli stanno addosso per la pasticciata gestione del lockdown e per i suoi effetti sull’economia. Se invece avesse ottenuto un accordo avrebbe potuto presentarsi ai Comuni in tempo utile per farlo ratificare in fretta e furia prima dell’ora x, ottenendo una grande vittoria parlamentare. Perché questo è quanto succederà il 30 dicembre, quando il Brexit Deal sarà presentato alla Camera dei Comuni: gli anti-europei dello European Research Group all’interno del partito Tory hanno già convocato una riunione tecnica per verificare gli aspetti legali dell’accordo ma sanno benissimo che con il voto favorevole del Labour una eventuale loro defezione varrebbe poco o nulla in termini numerici ai Comuni. Il leader laburista Starmer ha portato i Laburisti su posizioni di brexitismo pragmatico: ok all’accordo perché così il mondo del business soffrirà il meno possibile. Starmer si riconnette con la confindustria britannica (CBI) e con i votanti per il Leave del Red Wall, ma all’interno del suo Governo Ombra sembra che non tutti vogliano seguirlo. Inoltre, sarà curioso vedere come faranno i 650 parlamentari a votare alla Camera dei Comuni con le pesanti restrizioni imposte dal lockdown e le misure di distanziamento sociale. La scorsa primavera per il voto sulle misure di sostegno all’economia la coda dei parlamentari votanti arrivava fino alla Portcullis House, sede degli uffici del Parlamento, dall’altro lato del Westminster Bridge.
L’uscita di un membro di peso dall’Ue ha determinato un fatto storico e geopolitico epocale, che non è possibile limitare alla fine del programma Erasmus o al ritorno del passaporto per andare Oltremanica. Un Regno Unito sciolto da vincoli che la maggior parte degli inglesi ha ritenuto essere troppo stretti con Bruxelles si affaccia nelle relazioni internazionali con una nuova strategia – definita Global Britain – che gli permetterà maggiori margini di manovra in ambito di accordi commerciali, strategie di difesa e politiche migratorie. In un solo anno Johnson ha realizzato quanto aveva promesso nella campagna elettorale del 2019: portare a termine la Brexit. Nel Regno Unito il programma elettorale non è un semplice pezzo di carta da “vendere” agli elettori, ma il faro dell’attività del partito di maggioranza relativa, del Governo e dei tecnici che hanno il compito per legge – ripetiamo: per legge – di implementarlo. Da Londra arrivano almeno due lezioni fondamentali anche per il nostro Paese: il voto dei cittadini si deve rispettare anche se non piace (e anche se avviene tramite referendum consultivo) e le promesse elettorali si mantengono. Francamente, tutto un altro mondo.
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