Non è facile parlare di Rossana Rossanda, e si sarebbe molto arrabbiata con chiunque l’avesse voluta ricordare come una “icona”, ossia qualcosa di fondamentalmente innocuo e rassicurante.
Non è facile per me, che le devo l’ingresso a il manifesto, 25 anni fa, nonostante i mugugni di molti.
In queste ore abbondano i ricordi personalizzati, ritagliati sulla misura del “testimone” di questo o quell’episodio. Credo perciò che il modo più serio di ricordarla sia per un ruolo politico-culturale, dunque collettivo.
Mi riferisco alla funzione avuta nell’impedire che “a sinistra”, si cementasse come “pensiero unico” la lettura dietrologica degli anni ‘70, vicende della lotta armata compresa. Non furono molti – anche dentro a il manifesto, e l’attuale decadenza lo dimostra – a condividere la sua volontà di capire la radicalità di scelte che certo non aveva apprezzato, e anzi combattuto.
A motivare quella che solo i superficiali possono chiamare “curiosità” giocarono certamente diversi fattori.
Di sicuro l’esperienza personale di giovanissima studentessa istriana che si offrì come staffetta partigiana, in piena guerra, andando a parlare con Aurelio Macchioro, tra i fondatori del pensiero economico italiano, comunista e allora docente in Veneto.
Sapeva per vita vissuta, insomma, che la Storia impone ai singoli di fare scelte dure, radicali per la serietà delle conseguenze che comportano – non per “estetica del gesto estremo” – che dividono un Paese, una generazione, addirittura famiglie.
Influì moltissimo, e lo spiegava con chiarezza, la vita passata nel Pci – come dirigente politico e poi come giornalista – di cui conosceva i meccanismi, i vizi, le subculture e i riti, quel “realismo conservatore” che aveva lentamente soffocato e sostituito l’originario spirito rivoluzionario.
L’aveva sperimentato sulla propria pelle, insieme agli altri redattori de il manifesto rivista (Valentino Parlato, Luigi Pintor, Michelangelo Notarianni, Eliseo Milani, Aldo Natoli, Lucio Magri, ecc), quando furono espulsi dal partito per la posizione presa sulla “primavera di Praga”.
E soprattutto quando, trasformando la rivista in quotidiano sull’onda del ‘68, insieme ai suoi compagni sentì tuonare contro di sé l’osceno “chi vi paga?” con cui veniva bollato chiunque – alla “sinistra del Partito” – osasse non solo fare una diversa politica, ma addirittura proporre organizzazione, giornali, attività. Che sicuramente “costavano”, ma che in quella temperie storica trovavano un supporto di massa straordinario. Anche dal punto di vista del crowfunding, si direbbe oggi.
Esperta, in quanto “vittima”, dei meccanismi tipici agli albori della “dietrologia”, insomma, non poteva certo farsene condizionare. Ed andò contestando tante ricostruzioni d’accatto, comprese certe scivolate assurde del suo stesso giornale, dove non mancavano i creduloni.
Fino a parlare esplicitamente di “album di famiglia” a proposito della composizione sociale e della “cultura di fondo”, sia delle Brigate Rosse che di altre formazioni più o meno combattenti.
“Album di famiglia” in senso stretto, in alcuni casi, come per esempio Reggio Emilia, dentro la cui federazione giovanile erano cresciuti insieme per anni alcuni tra i fondatori delle Br (Gallinari, Franceschini, Ognibene, Paroli, Zuffada, Bonisoli, ecc) e alcuni futuri dirigenti di Pci, Fiom, Cgil, Rifondazione.
Non è un dettaglio “complottistico” o da buco della serratura. Significava che di quei giovani “il partito” aveva saputo tutto fin dalla nascita: tipo di famiglia (quasi tutte di iscritti/dirigenti locali del Pci), studi, frequentazioni, passioni, amori, stipendi… Per chi non ne sa nulla, basta leggersi la precisa lettera di Pierluigi Zuffada, che riporta sulla terra molte questioni da decenni castellate nell’aria.
Ma “album di famiglia” anche per il momento storico. Almeno due generazioni di militanti erano cresciute nel mito della Resistenza, della rivoluzione a Cuba, delle imprese di Fidel, Che Guevara e altri; nel sostegno organizzato (soldi, medicine, ecc) ai VietCong e altri movimenti clandestini e guerriglie (anche in Europa, dove Portogallo, Grecia e Spagna sono state sotto dittatura fascista fino a metà degli anni ‘70 e oltre).
Se quello era il mood dell’epoca, come poteva essere “incomprensibile” che una fetta di quelle generazioni non provasse a sua volta a dare l’assalto al cielo? Come poteva essere che tutte le guerriglie fossero “nostre” (poi, certo, più lontane avvenivano, meglio era) meno quella che era nelle nostre strade, i cui caduti e prigionieri erano figli nostri?
Con questo spirito, e nessuna condiscendenza, organizzò insieme a Carla Mosca un ciclo di interviste con Mario Moretti, fatto prigioniero nell’aprile del 1981 – e tuttora in carcere, in regime di semilibertà, ricordiamo sempre ai dietrologi più indifferenti alla realtà dei fatti – da cui uscì uno dei pochi libri attento alla verità su quella storia, fin nel titolo (Brigate Rosse. Una storia italiana), per spazzar via le “manine occulte” e lo scemenzaio “di sinistra”.
Questo per ricordare il rigore con cui Rossana Rossanda ha affrontato l’impegno politico e giornalistico: riconoscere la realtà è la condizione indispensabile per provare a moodificarla.
In questo credo, ci sia il suo legame più profondo con il pensiero e l’epistemologia marxiana, il suo materialismo.
Il che, come sempre, non impedisce di prendere decisioni politiche sbagliate come quelle giuste, condivisibili o criticabili.
Ma stando al di sopra di quell’asticella invisibile – specie nelle “subculture” oggi dominanti – che separa un pensiero stimolante dal bla bla soporifero.
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