Parla il medico di Lampedusa, ora eurodeputato: "La Commissione non supera Dublino, lo ricalca. I principi europei non sono quelli di Orban o di qualche politico nostrano".
Il piano della Commissione europea sull’immigrazione è “a dir poco deludente”. E’ senza appello il giudizio di Pietro Bartolo, medico dei migranti a Lampedusa, eletto al Parlamento europeo l’anno scorso. La proposta, ci dice tra rabbia e commozione, “non supera il regolamento di Dublino, anzi di fatto lo ricalca”. Stamane Bartolo ha esposto le sue critiche in Commissione Libertà civili al Parlamento Europeo davanti ai commissari europei Margaritis Schinas e Ylva Johansson, autori del pacchetto presentato ieri. E non è stato il solo. Sono tanti i parlamentari delusi. Del resto, nella scorsa legislatura il Parlamento Europeo ha votato a maggioranza una riforma del regolamento di Dublino poi affossata dagli Stati membri. “Ecco – dice Bartolo – la Commissione avrebbe dovuto adottare quella proposta e rendere obbligatoria la solidarietà dei paesi membri sui ricollocamenti: sanzioni per chi non accetta. Non lo ha fatto...”.
Dopo tanta attesa, la Commissione ha partorito un topolino?
Neanche quello ha partorito. Il piano non supera il regolamento di Dublino ma lo ricalca, tentando di mettere in pratica le parti che non sono mai state implementate per bene, come per esempio l’attenzione ai minori. In più, la proposta contiene novità che ci sono state propinate come soluzione della situazione, ma in realtà si tratta del pre-screening di chi arriva, procedura che prenderà cinque giorni di tempo, e poi le procedure di frontiera, altre 12 settimane. Il tutto sempre a carico del paese di primo ingresso e con i migranti che in tutto questo tempo aspettano nei centri. La Commissione parla di solidarietà da parte degli altri Stati membri solo nei casi in cui dovesse esserci particolare pressione nei paesi di primo approdo: ma che vuol dire? L’emergenza c’è sempre!
Due modi per dirsi solidali: ricollocamento o rimpatrio.
Esatto. Ma il ricollocamento resta rarissimo: solo nel caso in cui abbiano diritto all’asilo, quando sappiamo che il problema più grosso riguarda i migranti cosiddetti ‘economici’. Oggi in Commissione Libe ho provato a chiedere quale sia la differenza tra gli uni e gli altri: non sono forse persone che scappano perché non hanno alternative? Nessuno mi ha saputo rispondere, perché non c’è una risposta: sono perfettamente uguali. Quanto al rimpatrio, è la parola più usata nel piano della Commissione, è ovviamente gradito di più. Ma anche in questo caso non è semplice, perché bisogna avere accordi con i paesi di rientro. E poi perché deve essere volontario e non forzato e deve garantire diritti, sicurezza, l’incolumità degli interessati una volta tornati nel paese d’origine. Quindi servirebbero delle procedure di monitoraggio per capire che fine fanno poi queste persone. Di tutto questo non c’è alcunchè nel piano della Commissione.
Dunque il piano non servirà ad alleviare la pressione sui paesi di primo approdo?
Al contrario. Tutto questo si scaricherà sui paesi di primo approdo: Grecia, Cipro, Italia, Malta, Spagna dovranno sobbarcarsi quanto già impone Dublino 3 più le nuove procedure sul pre-screening e quelle di frontiera. C’è un problema di fondo…
Quale?
Ci dimentichiamo che stiamo parlando di persone. Guardi: le interviste, gli interventi, le parole sono importanti perché servono a informare e io ci credo. Ma mentre stiamo facendo questa intervista non posso non pensare che di sicuro c’è qualcuno che sta morendo in quel mare che mi appartiene e che mi manca. Dobbiamo sempre ricordare che si gioca tutto sulla pelle di queste persone, costrette a stare in attesa in centri di accoglienza che tali non sono. Per esempio il campo distrutto dall’incendio a Lesbo non si può definire ‘centro di accoglienza’: ospitava oltre 12 mila persone, ben oltre la sua normale capienza, in condizioni disumane.
Lo chiamerebbe lager?
Un luogo lasciato in condizioni disumane si può certo definire campo di concentramento. Come quelli che ci sono in Libia: lì oltre alla condizioni disumane dal punto di vista igienico-sanitario, le persone subiscono anche violenze, stupri, sevizie, torture. Tutto questo è inaccettabile.
Ci sono cose positive nel piano von der Leyen?
Qualcosina c’è. Per esempio c’è un’attenzione particolare ai minori, ma questo era previsto già nel Dublino III. C’è il ricongiungimento familiare, già previsto ma non implementato. In questo piano il concetto viene esteso anche ai fratelli, non più solo genitori e figli. Ed è esteso anche alla famiglia che si forma durante il viaggio verso l’Europa, non solo la famiglia d’origine. Sono viaggi lunghi, è normale che si formi una famiglia. Ma stiamo parlando di briciole: non è questo il modo di risolvere l’emergenza immigrazione.
Cosa avrebbe dovuto fare la Commissione europea?
Avrebbe dovuto adottare la riforma del regolamento di Dublino passata a larga maggioranza nel Parlamento europeo nella scorsa legislatura. Prevedeva il ricollocamento automatico e obbligatorio in tutti gli Stati membri. Quando arrivano a Lampedusa o a Lesbo, queste persone sono arrivate in Europa, c’è poco da aggiungere. Il problema è europeo e deve essere l’Europa ad assumersi la responsabilità di condividere la solidarietà. Basta leggere l’articolo 80 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea: i padri fondatori dell’Europa si sono basati su principi universali come l’accoglienza, la solidarietà, il rispetto dei diritti umani. Ma non basta la volontarietà: bisogna trovare il modo per obbligare gli Stati membri a condividere le responsabilità.
Come?
Dobbiamo cercare di convincere tutti e chi non accetta, come i paesi del blocco di Visegrad, deve subire delle sanzioni. Mica può comandare Visegrad in Europa? E poi bisognerebbe fare in modo che la riforma passi in Consiglio Europeo con voto a maggioranza. Quella approvata dal Parlamento europeo si è bloccata in Consiglio perché gli Stati membri hanno deciso che doveva essere votata all’unanimità. Ma il diritto di veto non può esistere su questi argomenti. Sono questioni che devono essere votate a maggioranza qualificata: siamo in democrazia, la maggioranza deve contare.
Il governo italiano però non alza la voce sulla nuova proposta della Commissione. Come lo spiega?
Io sono Pietro Bartolo, da 30 anni mi occupo del fenomeno immigrazione, conosco le sofferenze, le atrocità che ho visto. Loro non hanno visto niente. E poi forse io ho diritto di parlare così, mentre loro magari puntano al negoziato per cercare di ottenere dei risultati. Ma io non posso non parlare in questi termini. Se io sono qui in Europa, non è perché sono un politico ma perché mi sono stancato di vedere tutte quelle atrocità e ho deciso di entrare in politica perché credo nella buona politica e nella necessità che sia l’Europa a dare risposte. Penso che la politica sia servizio: non è che quando diventi onorevole ti dimentichi del tuo mandato.
Oltre al danno, la beffa: il piano rischia comunque di non passare in Consiglio. L’ungherese Orban lo boccia, come gli altri paesi di Visegrad.
Loro sono allergici alla parola accoglienza e invece vanno d’accordo con la parola rimpatrio. Addirittura immaginano hotspot fuori dal territorio europeo. Questo non è accettabile, non fa parte della nostra cultura. I principi dei padri fondatori dell’Europa non erano quelli di Orban e nemmeno di qualche politico italiano che nemmeno voglio nominare perché mi fa male e fa male all’Italia della democrazia, l’Italia che ha una Costituzione straordinaria, culla della cultura infettata dalla cultura dell’odio, del rancore. Il piano rischia di non passare perché si ostineranno a votare all’unanimità, ne basta uno che non si presenta per affossarlo. Cosa facile perché l’immigrazione in politica viene usata per scaricare colpe e distrarre dai veri problemi difficili da affrontare.
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