Ottant'anni fa moriva il pensatore tedesco che ha cercato di liberare il marxismo dall'influenza dell'ideologia del progresso e dalla visione lineare del tempo storico, concependo la rivoluzione come un freno d'emergenza.
jacobinitalia.it Michael Löwy
Com’è noto, Walter Benjamin è morto il 26 settembre del 1940, ottant’anni fa, a Portbou, dopo un tentativo di fuga dalla Francia di Vichy verso la Spagna. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale nell’estate del 1939 Benjamin viene internato in un campo, come migliaia di altri rifugiati tedeschi ebrei e/o antifascisti, in quanto «cittadino di un paese nemico». È uno dei capitoli più infami della storia già non molto gloriosa della Terza Repubblica francese. Benjamin viene poi liberato grazie all’intervento di scrittori e intellettuali francesi, e cerca di «scomparire» a Marsiglia, ma l’armistizio e l’istituzione della repubblica di Vichy lo fanno sentire improvvisamente in trappola: una dopo l’altra cominciano le retate di «stranieri indesiderati» e la Gestapo si aggira ovunque, usando il nome eufemistico di «Commissione dell’armistizio». È a questo punto che bussa alla porta di Benjamin Lisa Fittko, una rifugiata tedesca (ebrea) antifascista, che stava organizzando una fuga verso la Spagna per i soggetti più a rischio. Il piano è passare dalla cosiddetta Route Lister, un sentiero accidentato che attraversa i Pirenei fino a Portbou. Aiutato da Fittko, tra tante difficoltà causate dal suo stato di salute, Benjamin alla fine raggiunge il paesino spagnolo oltreconfine. Poco dopo viene arrestato a Portbou dalla polizia franchista, che, con il pretesto dell’assenza di visto d’uscita francese, lo consegna ai gendarmi di Vichy, ovvero alla Gestapo. Così Benjamin decide di suicidarsi.
Il mondo attraversa la «mezzanotte del secolo»: il Terzo Reich di Hitler aveva occupato mezza Europa con la complicità dell’Unione Sovietica stalinista. In questo contesto, per quanto dettato dalla disperazione, l’estremo gesto di Benjamin è un atto di protesta e di resistenza antifascista. Nelle brevi tesi che seguono proporrò alcune note sul contributo di Walter Benjamin alla teoria critica marxista.
I – Walter Benjamin appartiene alla teoria critica in senso lato, cioè a quella corrente di pensiero ispirata a Marx che, a partire da o attorno alla Scuola di Francoforte, mette in discussione non solo il potere della borghesia, ma anche i fondamenti della razionalità e della civiltà occidentale. Amico intimo di Theodor Adorno e Max Horkheimer, Benjamin ha indubbiamente influenzato i loro scritti, soprattutto l’opera seminale Dialettica dell’Illuminismo, in cui si possono trovare molte delle sue idee e, qualche volta, «citazioni» senza riferimento alla fonte. A sua volta, però, anche Benjamin si è dimostrato sensibile ai temi principali della Scuola di Francoforte, pur differenziandosene per alcuni tratti peculiari e che costituiscono il suo specifico contributo alla teoria critica.
L’autore non riuscirà mai a trovare una posizione accademica; la bocciatura della sua tesi di abilitazione sul dramma barocco tedesco lo condanna a un’esistenza precaria come saggista, «uomo di lettere» e giornalista anticonformista, che, naturalmente, subisce un grave colpo durante gli anni dell’esilio parigino (1933-40). Benjamin era un esempio ideal-tipico della Freischwebende Intelligenz di cui parlava Karl Mannheim essendo al massimo grado un Aussenseiter, un outsider, un marginale. È forse proprio questa situazione esistenziale che ha dato al suo sguardo il suo peculiare acume sovversivo.
II – All’interno del gruppo di pensatori della teoria critica, Benjamin è il primo ad aver messo in discussione l’ideologia del progresso, filosofia «incoerente, imprecisa, non rigorosa», che concepisce il processo storico solamente come «il ritmo più o meno rapido con cui gli uomini e le epoche avanzano sulla via del progresso» (La vita degli studenti, 1915). Si è anche spinto più in là degli altri nel tentativo di liberare una volta per tutte il marxismo dall’influenza delle dottrine borghesi «progressiste». Così, nei Passages si dava come obiettivo «la dimostrazione di un materialismo storico che ha annichilito in sé l’idea del progresso». Perché «è nell’opposizione alle abitudini del pensiero borghese che il materialismo storico trova la sua fonte». Benjamin era convinto che le illusioni «progressive» come quella di «nuotare nel flusso della storia» e la visione acritica della tecnologia esistente e del sistema produttivo avessero contribuito alla sconfitta del movimento operaio tedesco da parte del fascismo. Tra queste illusioni dannose figura lo stupore per la possibilità stessa del fascismo nell’Europa moderna, figlia di due secoli di «progressi di civiltà» (nel senso di Norbert Elias). Come se il Terzo Reich non fosse, per l’appunto, proprio una manifestazione patologica della stessa civiltà moderna.
III – Se la maggior parte dei filosofi della teoria critica condivideva l’obiettivo di Adorno di mettere la critica romantica conservatrice della civiltà borghese al servizio degli obiettivi emancipatori dell’Illuminismo, tra tutti Benjamin è il pensatore che ha mostrato maggiore interesse per questa appropriazione critica dei temi e delle idee del romanticismo anticapitalista. Nei Passages si fa riferimento a Korsch per evidenziare il debito di Marx (attraverso Hegel) nei confronti dei romantici tedeschi e francesi, anche i più controrivoluzionari tra loro. Non si fa scrupoli a usare le argomentazioni di Johannes von Baader, Bachofen o Nietzsche per demolire i miti della civiltà capitalista. Esiste in Benjamin, come in tutti i romantici rivoluzionari, una dialettica sorprendente tra un passato lontanissimo e un futuro di emancipazione. Da qui l’interesse dimostrato per la tesi di Bachofen (cui si erano ispirati sia Engels che il geografo anarchico Elisée Réclus) sull’esistenza di una società senza classi, senza poteri autoritari e senza patriarcato, agli albori della Storia,.
Questa sensibilità permette a Benjamin di comprendere molto meglio dei suoi amici della Scuola di Francoforte il significato e la portata di un movimento romantico/libertario come il surrealismo, al quale in un articolo del 1929 assegna il compito di indirizzare lo slancio dell’ubriachezza (Rausch) verso la causa della rivoluzione. Più tardi anche Herbert Marcuse si renderà conto dell’importanza del Surrealismo come tentativo di collegare arte e rivoluzione, ma ci vorranno quarant’anni.
IV – Come i suoi amici di Francoforte, Benjamin sposava una sorta di «pessimismo critico», che assumeva in lui forma rivoluzionaria. Nel suo articolo del ‘29 sul surrealismo, afferma addirittura che essere rivoluzionari significa agire per «organizzare il pessimismo». Poi, esprimendo la sua sfiducia per il destino della libertà in Europa, conclude ironicamente: «Fiducia illimitata solo nella IG Farben e nel pacifico perfezionamento della Luftwaffe». Certo, neanche un pessimista per eccellenza come Benjamin poteva prevedere le atrocità che la Luftwaffe avrebbe inflitto alle città europee e alle popolazioni civili; né che appena una decina d’anni dopo la IG Farben si sarebbe contraddistinta per la produzione del gas Zyklon B, usato per «razionalizzare» il genocidio di ebrei e zingari. Tuttavia, Benjamin è stato l’unico pensatore marxista di quegli anni a intuire i mostruosi disastri cui rischiava di andare incontro la civiltà borghese in crisi.
V – Più degli altri pensatori della teoria critica, Benjamin ha saputo mobilitare in modo produttivo i temi del messianismo ebraico in favore della lotta rivoluzionaria degli oppressi. I motivi messianici si trovano anche in alcuni testi di Adorno, soprattutto nei Minima Moralia, e in Horkheimer. Ma è in Benjamin, e in particolare nelle tesi Sul concetto di storia, che il messianismo diventa un vettore centrale della rifondazione del materialismo storico, per salvarlo dal destino di automa cui il marxismo volgare (socialdemocratico o stalinista) lo aveva condannato. Si trova in lui una sorta di corrispondenza (nel senso baudeleriano del termine) tra irruzione messianica e rivoluzione come interruzione della continuità storica, intesa come continuità del dominio.
Per il messianismo come Benjamin lo intende, o meglio lo inventa, non si tratta di attendere la salvezza che verrà da un individuo eccezionale, un profeta inviato dagli dei: il «Messia» è collettivo, perché a ogni generazione è stata data «una debole forza messianica» che si tratta di esercitare nel migliore dei modi possibile.
VI – Di tutti gli autori della teoria critica, Benjamin è il più attaccato alla lotta di classe come principio di comprensione della storia e di trasformazione del mondo. Come scriveva nelle Tesi del 1940, la lotta di classe «è sempre davanti agli occhi di uno storico che si è formato su Marx». Ed è sempre presente nei suoi scritti in quanto legame essenziale tra passato, presente e futuro, e come luogo dell’unità dialettica tra teoria e prassi. La Storia non appare a Benjamin come un processo di sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto come una lotta all’ultimo sangue tra oppressori e oppressi; rifiutando la visione evoluzionista del marxismo volgare che vede il movimento della storia come un accumulo di «conquiste», l’autore insiste invece sull’aspetto catastrofico delle vittorie delle classi dirigenti.
A differenza della maggior parte degli altri membri della Scuola di Francoforte, Benjamin ha creduto fino in fondo e fino all’ultimo alla potenzialità emancipatrice delle classi oppresse per l’umanità. Era profondamente pessimista, ma non si è mai rassegnato, e non ha mai smesso di credere che l’«ultima classe asservita», il proletariato, «porta a termine l’opera di liberazione in nome di generazioni di vinti» (Tesi XII). Pur non condividendo in alcun modo l’ottimismo miope dei partiti del movimento operaio su «base di massa», Benjamin vede comunque nelle classi dominate l’unica forza in grado di rovesciare il sistema di dominio.
VII – Benjamin era anche il più ostinatamente fedele all’idea marxiana di rivoluzione. È vero che, contro Marx, la sua visione del concetto non lo interpreta come «la locomotiva della storia» ma come un’interruzione del suo corso catastrofico, cioè come quell’azione salvifica di un’umanità che tira il freno d’emergenza. Ma la rivoluzione sociale rimane in ogni caso l’orizzonte della sua riflessione, il punto di fuga messianico della sua filosofia della storia, la chiave di volta della sua reinterpretazione del materialismo storico.
Nonostante le sconfitte del passato, dalla rivolta degli schiavi guidata da Spartaco nell’antica Roma alla rivolta dello Spartakusbund di Rosa Luxemburg nel gennaio 1919, la rivoluzione «come Marx l’ha intes[a]», ovvero come «balzo dialettico» sotto «il cielo libero della storia» (Tesi XIV) è per lui ancora possibile. La dialettica marxiana coincide col fare «il salto della tigre nel passato»: un’irruzione nel presente, nel «tempo dell’attualità» (Jetztzeit).
VIII – A differenza dei suoi amici della Scuola di Francoforte, che erano molto gelosi della loro indipendenza, Benjamin cercò di avvicinarsi al movimento comunista. Indubbiamente in ciò ha avuto un ruolo l’amore per l’artista lettone bolscevica Asya Lacis. A un certo punto, intorno al 1926, Benjamin prende addirittura in considerazione, e lo scrive all’amico Gershom Scholem, di aderire al Partito comunista tedesco, senza portare a termine il suo intento. Nel 1928-29 visita l’Unione Sovietica: il suo Diario di viaggio contiene osservazioni critiche che suggeriscono una certa simpatia per l’opposizione di sinistra. Nonostante questo, nel corso degli anni Trenta, e soprattutto tra il 1933 e il 1935, Benjamin sembra aderire al marxismo sovietico. Sarà una parentesi breve: dal 1936 comincia a prenderne le distanze, anche se, come testimoniano le sue lettere, continua a credere che l’Urss sia l’unico paese alleato degli antifascisti, nonostante il suo carattere dispotico. La sua convinzione crolla definitivamente nel 1939, dopo il Patto Molotov-Ribbentrop: nelle tesi Sul concetto di storia (1940), Benjamin accusa i comunisti stalinisti di «tradimento della loro causa».
IX – Walter Benjamin non era «trotskista», ma ha manifestato in diverse occasioni grande interesse per le idee del fondatore dell’Armata Rossa.
X – Il pensiero di Benjamin è profondamente radicato nella tradizione romantica tedesca e nella cultura ebraica dell’Europa centrale; risponde a uno specifico contesto storico, quello del periodo tra le due guerre e delle rivoluzioni, tra 1914 e il 1940. Eppure, i temi principali delle sue riflessioni, e in particolare le tesi Sul concetto di storia, sono sorprendentemente universali: ci offrono strumenti per comprendere realtà culturali, fenomeni storici, movimenti sociali in altri contesti, altre epoche, altri continenti.
*Michael Löwy, nato in Brasile e membro della redazione di Jacobin America Latina, è direttore di ricerca presso il cnrs e ha insegna all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Tra i suoi libri tradotti in italiano Segnalatore d’incendio (Bollati Boringhieri) e Rivolta e malinconia (Neri pozza). La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
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