lunedì 21 settembre 2020

In ricordo di Rossana Rossanda, ancora comunista ancora dissidente

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Pubblichiamo una conversazione della fondatrice del Manifesto con Marco D'Eramo pubblicata sul secondo numero di MicroMega, anno 2017. Più di cento nomi compaiono in questa intervista. Da Togliatti a Pajetta, da Castro a Ingrao, la vita della fondatrice del Manifesto ha incrociato quella dei maggiori protagonisti della sinistra (italiana e non solo) dal dopoguerra a oggi. E lei stessa ne è stata una delle figure più influenti. “Se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa di te”.

Rossana Rossanda in conversazione con Marco D'Eramo

Verso la fine di La ragazza del secolo scorso scrivi una frase strana: «Del resto, il mio scacco come persona politica è totale soltanto da una ventina d’anni». Poiché tu scrivevi queste parole nel 2005, il tuo «scacco come persona politica» si riferiva alla metà degli anni Ottanta, non prima, non dopo. Bizzarro, no?

Bizzarro.

Ma perché?

Forse perché avvertivo che stava maturando una crisi definitiva nel Partito comunista, cui devo la mia identità politica. La crisi non era recente, tanto meno è avvenuta con la caduta del Muro di Berlino. Nell’89 si è solo catalizzata: il Pci non ne ha dato una spiegazione. Si è limitato a incassare il giudizio dei suoi avversari storici: «Era sbagliata l’idea stessa di comunismo». Identica posizione tra i russi, i cinesi, i cubani. Nessuno cerca di dare un’altra spiegazione, nessuno di loro dice: «Perseguivamo un ideale giusto ma abbiamo commesso i seguenti errori». Nessuno si chiede perché la crisi abbia colpito tutti e nello stesso momento.

Non è forse dovuto anche al fatto che il marxismo non ha previsto gli effetti del marxismo? Nel senso che l’esistenza stessa del marxismo, con tutto quel che ha comportato in termini di nascita di movimento operaio e di regimi proclamatisi marxisti, ha fatto sì che le previsioni del marxismo non si realizzassero?

Sì, in parte, se intendi dire che all’estendersi del comunismo si sono opposte potenze o forze politiche di indirizzo soprattutto neoliberale: le avevano spaventate non solo le virtù, ma soprattutto i vizi dei partiti comunisti e dei cosiddetti socialismi reali. Ma c’era un nostro limite teorico: quel che Marx dice della contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e sistema politico del capitale lo abbiamo concepito come un processo sicuro, inesorabile, che si sarebbe concluso con la vittoria del comunismo. Cosa che non si è verificata. Alla domanda «quando è avvenuta la crisi nel comunismo russo?», risponderei: quando Lenin afferma «bisogna saper chiudere una rivoluzione» e lo fa con la Nuova politica economica. Forse la verità è che non si chiude una rivoluzione se non approfondendola, e non nel senso di «reprimere più avversari», ma approfondendo il carattere irreversibile della nuova società, cioè nella direzione contraria a quella che Lenin credette di dover scegliere. Probabilmente era dovuto anche al fatto che la Rivoluzione del ’17 è avvenuta come una mobilitazione di minoranze relative e in pochi luoghi, non di tutta la popolazione e su tutto il territorio della futura Unione Sovietica. Sicché quando i bolscevichi hanno avuto il potere, hanno dovuto gestire un paese enorme con enormi problemi, e segnato da una grande arretratezza e con una popolazione in gran maggioranza non alfabetizzata. Il problema del diverso sviluppo fra città e campagne riemerge alla fine del ventennio con l’accelerazione imposta ai contadini, ma soprattutto con il fatto che bisogna nutrire gli operai con la loro produzione – questione che ha portato allo scontro con Bukharin.

Secondo me è l’Unione Sovietica ad aver sotterrato il vero internazionalismo.

Lascia perdere. Non è stato un proposito, ma un effetto. La Terza Internazionale è stata una forza unitaria che ha affrontato problemi che l’Occidente neppure si sogna. Che poi essa non fosse l’internazionalismo come lo pensiamo noi, è un’altra storia. All’interno del suo gruppo dirigente ci fu discussione vera. Non è stato un legame puramente formale.

Non è solo il comunismo sovietico a essere stato tradito, c’è stata anche la sconfitta del maoismo. Adesso, quarant’anni dopo, come vedi la traiettoria del maoismo?

Ho pensato che il maoismo rappresentasse, diciamo, una opposizione di sinistra al XX congresso del Pcus e alla linea di Khrušcˇëv. L’Occidente sostiene invece che è stato una forma di dittatura. Sospendo il giudizio.

Tutto quello che si legge sulla Rivoluzione culturale è che era peggio dei gulag staliniani.

Conosco questa letteratura, ma non c’è nessuno che mi offra serie pezze di appoggio, anche per la difficoltà di esplorare un mondo assai diverso dal nostro.

Ma com’è che il maoismo è stato sconfitto in modo così totale?

Perché all’interno del Partito comunista cinese c’era una posizione che, soltanto per intenderci, chiamerei socialdemocratica, favorevole a uno sviluppo sociale sì, ma più lento. Mao le ha dato una zampata pubblicando il famoso «Bombardate il quartier generale», cioè legittimando e scatenando l’ondata di protesta che si era aperta all’Università di Pechino. Anche sul modo in cui ci viene raccontata quella vicenda ci sarebbe da indagare: non credo che Lin Biao stesse scappando con dei soldi verso l’Unione Sovietica. Magari è stato ucciso.

È probabile. Il fatto è che non si riesce a capire quanto la Rivoluzione culturale fosse movimento popolare di base, e quanto uno scontro di vertice.

Ma che cosa vuol dire «base» in un partito come quello cinese? L’apparato? I militanti? In genere, non mi pare facile da definire: lo si può fare, con un po’ di fatica per l’Italia, ma come si fa per la Cina? È un mondo che non conosciamo e i nostri parametri politici sono diversi. Pensa ai primi film di Zhaˉng Yìmóu, il regista di Lanterne rosse, Sorgo rosso e del bellissimo Ju Dou – che si svolge attorno a una coppia di tintori di seta. Siccome i protagonisti sono operai, possiamo dire che è «un film operaio»? Certo non è il proletariato descritto da Marx o Engels; e infatti Mao dice a un certo punto: «Il nostro proletariato sono i contadini», che è una maniera un po’ semplificata di metterla giù.

Voglio dire che Lin Biao probabilmente è stato ucciso durante una lotta di potere di vertice. Non è stato un movimento di popolo…

Non sarei così perentoria. Fra le poche persone di cui mi fido e che hanno vissuto in Cina e che vi hanno scritto, c’è l’italiana Edoarda Masi. Quello che lei descrive è uno scontro di vertice che si incrocia con un movimento di massa; le Guardie rosse sono un fatto popolare autentico e giovanile. C’è da riflettere su che cosa sia un gruppo dirigente in un partito comunista, non ridotto all’immagine caricaturale che si dà oggi dei comunisti.

Ho capito, ma il risultato è che la Cina è una distopia: ha tanta libertà quanta ne aveva l’Urss di Stalin e ha tanta uguaglianza quanta l’America di Trump.

Sarei più prudente. Di una forma di libertà, la Cina ne ha parecchia, come dimostra il suo enorme sviluppo. Essa lascia, apparentemente, più libertà ai ceti possidenti. Ma andrebbe studiato il ruolo «della repressione consentita»: nel senso che il sistema deve avere la capacità di modificare le teste in modo reale, di averne un consenso. Magari della libertà di parola – tolti gli intellettuali e una parte di ceto politicamente formato – forse non gliene frega nulla. Al Pcc importa lavorare a fondo sulla struttura sociale del paese e ci riesce, diversamente dai comunisti russi.

È ironico che continui a chiamarsi comunista un partito che promuove il capitalismo forse più spietato della Terra.

Non sarei così sicura che sia il sistema economico o politico più crudele.

Sul Financial Times è uscita una storia sulla rinascita del culto di Mao, incoraggiata dall’attuale leader cinese Xi Jinping, che però persegue una politica del tutto opposta al maoismo.

I cinesi non tentano mai di annullare la loro storia precedente. Usano Mao come eroe popolare pur facendo il contrario di quel che egli proponeva.

Torniamo a casa nostra: dal tuo libro sembra che la vera crisi del comunismo italiano sia innescata nel 1956, con la repressione dell’Ungheria, e che da allora sia stato un aggravarsi continuo.

Sì, ma sino alla fine degli anni Sessanta da noi ci fu una speranza: quel che cambia la natura del partito è, credo, il compromesso storico negli anni Settanta. Spiegare alla propria base che era necessaria un’alleanza strategica con la Democrazia cristiana non era semplice. Era una svolta a 360 gradi. E quella che in Berlinguer dovette essere un’idea ambiziosa – puntare su una certa condanna della ricchezza propria della tradizione cattolica – nelle periferie si è trasformata in un tentativo di fare con la Dc accordi al ribasso. Tieni presente che nel 1975, l’Italia prese dovunque un colore rosso. Erano rosse Milano, Venezia, Torino, Firenze, Roma, Napoli.

Negli anni Cinquanta hai diretto la Casa della cultura di Milano, poi nel 1959 sei entrata nel comitato centrale e nel 1963 sei stata eletta in parlamento. Come ricordi quegli anni, prima milanesi poi romani?

Nel 1951 avevo 27 anni, c’era una specie di giovinezza delle giornate, dei mesi, e poi la guerra era alle spalle, era durata sette anni e non ne potevamo più. Oggi dire «Casa della cultura di Milano» sembra una cosa imponente. In realtà, la Casa della cultura nasceva per la seconda volta: prima era presso la sede dell’ex Circolo dei nobili a due passi dalla Scala, poi, dopo il 1948 e la presa dal potere da parte della Dc, in un seminterrato comprato da un certo numero di persone della sinistra, dove la domenica scorrazzavano enormi topi, ma nel quale scendeva l’intelligencija italiana ed europea. Fu il centro della discussione di tutte le forze laiche e il luogo di raccolta della cultura milanese. Giorgio Strehler e la gente del Piccolo Teatro erano di casa. Chiamavano Jean Vilar e Jean-Louis Barrault. Un amico era Jean-Paul Sartre, persona molto cortese e alla mano (fra i pochi attenti a quanto potevamo spendere), l’unico che si chiedesse: «Ma come pagherà le mie fatture questa poveretta?». Una volta vinse un premio e buttò l’assegno nel cestino, pensava fosse un’onorificenza apparente. Mentre in genere, quando i «grandi» venivano in Italia, mi venivano i brividi a pensare ai soldi che avremmo speso… Fatto salvo il rispetto per Neruda, egli fu una botta difficile da smaltire. Certo venivano volentieri anche perché dove c’era un Partito comunista li trattava piuttosto male. Ricordo che una volta a Berlino, mi pare fosse il ’60, dissi ad Alfred Kurella, che era il mio omonimo nella Ddr e che ha una storia personale abbastanza interessante, «Stasera vado al Berliner Ensemble» [compagnia teatrale fondata da Brecht] e lui mi rispose «Bertold Brecht va bene per l’Occidente, ma del socialismo non ha capito niente». E pensare che Brecht è forse il poeta più «staliniano» che ci sia. Il partito tedesco, la Sed, mi è parso il Partito comunista più stupido che abbia conosciuto.

Ma fuori dal Pci chi frequentavi?

A Milano la resistenza c’era stata sul serio ed era stata lunga. Pareva che ci conoscessimo tutti. Ho avuto rapporti di vera amicizia con Riccardo Lombardi e Lelio Basso, peraltro non morandiani. E nella cultura ero legata a Franco Fortini, Vittorio Sereni e molti altri. Conoscevo anche alcuni grandi borghesi come Raffaele Mattioli, erede di Jósef Toeplitz e amico di Piero Sraffa: era in buoni rapporti col Pci soprattutto attraverso un’eminenza grigia, Franco Rodano, marito della leader delle donne comuniste, Marisa Cinciari.

Nel tuo libro fai descrizioni inattese dei dirigenti comunisti. Per esempio quella di Giancarlo Pajetta.

Era tagliente e disperato. Viveva molto poveramente, come se non avesse interiormente mai cessato di essere in galera, nei pressi di una marrana alla periferia di Roma. Tu sai cos’erano le marrane?

I torrenti con i canneti, no?

Proprio così. Ricordo che un giorno di Natale l’ho trovato sotto casa mia a Milano in via Bigli, e gli ho detto: «Ma che fai?», «Ah, dice, «cerco una trattoria». «Una trattoria il giorno di Natale? Vieni su da me, ti faccio da mangiare». Mio marito, Rodolfo Banfi, era paziente e si divertiva. Quella sera Pajetta era talmente infelice che ci ha detto: «Io potrei uccidermi adesso». Allora dopo un’ora che si lamentava, gli dico: «Guarda, quella è la finestra: o ti butti giù subito o non mi rompi più le scatole con questa solfa». E lui: «Ma lo dici sul serio?». «Sì lo dico sul serio». Fra l’altro sarebbe finito nel giardino del museo Poldi Pezzoli che è molto bello.

Sei perfida.

La sola cosa che gli è andata bene nella vita è stata avere avuto una compagna come Miriam [Mafai], che quando lui faceva questo show scoppiava a ridere. E quindi gli ha fatto bene, penso. Sua figlia Giovanna sarebbe venuta a lavorare più tardi al Manifesto.

E Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao che conoscesti meglio a Roma?

Per me la domanda più difficile è su Togliatti come persona. Dopo il Sessantotto, sono stata come tutti molto antitogliattiana, ma ora mi domando come sarebbe stato Togliatti nel Sessantotto. Certo più attento di quanto non sia stato il Pci. Non lo avrebbe ostacolato, pensava che non si dovesse mai andare contro un movimento di sinistra spontaneo, magari per un motivo di opportunismo. Una volta, a Milano, Adriano Celentano venne a una festa dell’Unità destando la collera di tutti i vecchi della federazione del Pci. Togliatti era invece curioso e interessato. Togliatti come persona rimane davvero per me un interrogativo. Perché poi ho potuto frequentarlo abbastanza, nel senso che eravamo sempre i primi ad arrivare a Botteghe Oscure, dove era la sede centrale del Pci a Roma, io perché ero sola e abitavo lì vicino, Togliatti non so per quale motivo. Quindi tra le 8.30 e le 9.30 potevo bussare e chiedere: «Posso entrare?». Io fra i dirigenti non contavo niente e lui era incuriosito dalla «compagna di Milano» che canzonava come sociologa. Allora avevo la responsabilità politica anche degli Editori Riuniti e pubblicammo Trockij, Kamenev e l’opposizione operaia, alcuni fra i primi protocolli del Pcus. Lo avevo avvertito in modo generico: «Pubblicherei materiali degli anni Venti». E lui mi rispondeva sempre: «Fai, fai». Un giorno si trovò quei testi sul tavolo, ed esclamò: «Ma che stai facendo?». Gli risposi: «Ma sei tu che mi hai detto “fai, fai” e io l’ho fatto».

Quindi secondo te se Togliatti non fosse morto nel 1964, forse il Pci avrebbe seguito un’altra traiettoria.

Credo che le cose sarebbero andate in modo almeno parzialmente diverso. Per esempio, aveva cambiato totalmente la redazione di Rinascita, che era una specie di sua rivista personale, facendovi entrare uno come Aldo Natoli, e poi Bruno Trentin, Luciano Barca, Romano Ledda, e me, considerati in genere come i giovani agitati. L’unico dei vecchi rimasti era Mauro Scoccimarro, della commissione di controllo del partito. Davanti alla scrivania di Togliatti, in perpendicolare, c’era un tavolo dove stavamo noi. Dall’altra parte della scrivania Scoccimarro, come per dire: io ho un rapporto alla pari. Ricordo che, come Scoccimarro apriva la bocca, Togliatti, che era pestifero, gli diceva cortesemente: «Vuoi parlare tu Scoccimarro?». Lui diceva «sì» ovviamente, e Togliatti tirava subito fuori dal cassetto uno dei cataloghi delle case editrici antiquarie che prediligeva e cominciava a sfogliarlo. Appena Scocciamarro taceva: «Hai finito, Scoccimarro?». E quando lui diceva «sì» Togliatti rimetteva il catalogo nel cassetto.

L’altro non capiva, faceva finta di non capire?

Faceva finta, credo. Ma ti ripeto, continuo a pensare che i rapporti interni specifici di un Partito comunista, anche quello italiano, sarebbero da indagare. Certo, erano molto diversi da quelli che sarebbero ora. Pensa che prima del Sessantotto, questi personaggi andavano a cena o al cinema da soli, senza guardie del corpo, cosa che adesso non si può neanche immaginare. Li accompagnava sì e no l’autista, il più delle volte no, perché per risparmiare il partito aveva detto: «Basta con gli autisti, prendete la patente». Tra quelli che presero la patente c’era Pajetta, che guidava come un matto. Comunque, nella mia esperienza, molto modesta, Togliatti fu quello che mi apriva tutte le porte; non certo per ingenuità. E quindi mi chiedo che cosa pensasse davvero e che cosa sia stata la sua vita per molti aspetti pensante e anche crudele.

In quegli anni andasti a Cuba con K.S. Karol, che sarebbe diventato il tuo secondo marito, e parlaste molto con Fidel Castro.

Era il 1967 e Carlos Franqui, già direttore del Lunes de Revolución, ci aveva invitato al Salón de Mayo, un convegno di intellettuali che si supponevano amici di Cuba. C’era un’enormità di gente, incrociavi dal fisico Jean-Pierre Vigier al promotore del Black Power, Stokely Carmichael. Una volta, vidi sotto il palco, dal quale Fidel teneva uno dei suoi interminabili discorsi, Giangiacomo Feltrinelli in guayabera e cappellaccio sfondato. L’Avana aveva un suo fascino fra il vecchio centro, ancora popolato dalla memoria di Hemingway, e i quartieri nuovi attorno al Malecón. Un gran disordine, una percepibile scarsità, trasporti approssimativi, auto americane rattoppate fino all’inverosimile, cinema e arti di prim’ordine, dibattito zero e l’unico giornale, Granma, illeggibile. La sera del 26 di luglio, anniversario dell’assalto alla caserma Moncada, fummo trasportati tutti nella provincia di Oriente, sopra Santiago di Cuba, per vedere un insediamento operaio nuovo e incontrare Fidel Castro. Fu un viaggio epico, le guaguas cadevano morte in mezzo a un polverone credo di bauxite. Ricordo Marguerite Duras e Michel Leiris come pazienti maschere d’argilla rossa. Marguerite Duras fu una sorpresa, perché non si dava mai l’aria di occuparsi di politica, ma era una donna molto attenta. Karol e io parlammo tutta la notte con Fidel, il quale poi ci invitò ad accompagnarlo nel giro che doveva fare per l’isola. E così facemmo. Guidava lui stesso la prima jeep ed era manifestamente sicuro, la gente che incontravamo lo interpellava con simpatia. Fu un viaggio per molti aspetti interessante. Vi partecipavano Celia Sánchez, la sua compagna, sottosegretaria di Stato, e gran parte del governo. A un certo punto ci prese un temporale, l’esercito alzò le tende e mise i fornelli da campo e, naturalmente, affidarono a me, cioè all’italiana, il compito di preparare gli spaghetti al pomodoro. Dopo un po’ che mi affaccendavo, spunta Castro che mi dice: «Guarda, la salsa si fa così e così». E io: «Non mi insegnerai come si fa il sugo». Lo ammise di malavoglia. Parlammo con lui per molte notti di seguito, apparentemente ammetteva i dubbi e le critiche: «Hay problemas, hay contradicciones». Era curioso della storia sovietica: aveva vissuto per un pezzo in Messico, ma non sapeva che Stalin aveva fatto uccidere Trockij, gli parve un’enormità!

Nel libro, a questo proposito scrivi: «La capacità di non sapere nulla di quel che succede fuori dal proprio orizzonte non cessa di meravigliarmi».

Sì. Ma l’esercizio della critica non gli era congeniale, come succede per lo più ai gruppi dirigenti. Quando decise di affidare al fratello Raúl le redini del governo, si limitò a dire: «Il modello che proponevamo non era adatto a Cuba», un po’ poco.

Per tornare al Pci, tu a un certo punto scrivi che «era diventato perbene». Non è stato proprio il perbenismo a causare alla lunga la sua morte?

Come ebbe a dire una volta Giorgio Amendola: «Noi comunisti siamo gente come gli altri». Mi scandalizzò, non volevo assolutamente essere come gli altri. Amendola fu il solo a dire, a cadavere di Togliatti ancora caldo: «Bisogna unificarci coi socialisti», cosa che a nessun altro sarebbe stata perdonata. Egli stesso non perdonò mai al Manifesto di esistere, fu il primo che, incontrandomi nel giugno ’69, mi annunciò: «Vi buttiamo fuori». E non per antipatia personale. Era un animale interamente politico. Ricordo un episodio a Botteghe Oscure: tutto il gruppo dirigente aveva l’ufficio al secondo piano, mentre io (Cultura), un intelligente compagno che morì presto, Luciano Romagnoli, e Ledda per Critica marxista, eravamo al quinto, dal quale, detto fra parentesi, si vedevano splendidi tramonti. Per parlare con i dirigenti, eravamo noi a scendere; né Togliatti né Ingrao li vedemmo mai al quinto piano. Invece Pajetta e Amendola salivano quasi ogni mattina, aprivano la porta e s’infilavano sfacciatamente in ogni riunione: volevano sapere come la pensavamo. C’era un piccolo ascensore che funzionava soltanto per gli interni; ricordo, subito dopo la morte di Togliatti, Amendola che ne esce, elegantissimo come sempre nel suo corpaccione elefantesco, e mi fa: «Vieni, andiamo a prendere un caffè al bar Roma». Con lui e Pajetta eravamo abituati a prendere un caffè assieme più o meno verso le 10.30. Quella volta lì, scendendo mi fa all’improvviso: «Voi cosa pensate adesso? Che cosa si ha da fare del partito?», e intendeva dire, chi pensavamo dovesse dirigere il partito. Gli risposi: «Beh, o tu o Ingrao». Obiettò fermamente: «No, il partito si dividerebbe», e poi aggiunse guardandomi: «Tutti stretti attorno a Enrico». E io stupita: «Quale Enrico?», perché non è che fossero emersi tanti Enrichi. E lui: «Berlinguer». Berlinguer aveva un incarico nel Lazio ma quando mai si andava a scegliere un segretario del partito nel Lazio! Io: «Ma non è possibile, non è un leader!». Di fatto il Pci ha costruito letteralmente Berlinguer, il «leader», anche diffondendo un mucchio di sue fotografie, cosa che non era affatto nell’abitudine e nello stile.

In quel periodo nel Pci era molto influente il filosofo Lucio Colletti: le quattro-cinque volte che lo nomini nel libro, ne parli sempre con una certa simpatia, anche se poi Colletti è diventato addirittura berlusconiano.

Io non rispondo di quello che la gente diventa. Colletti era un uomo intelligente, molto colto, molto amato come professore. Negli anni Sessanta fondò e diresse una rivista, La Sinistra. Credo che la convergenza tra Pci e Dc negli anni Sessanta e poi Settanta lo avesse avvicinato ai socialisti, e poi una parte di essi, con Craxi, diventò berlusconiana.

Forse la tua simpatia deriva dal fatto che Colletti era stato vicino al Sessantotto. E voi, come viveste quel biennio ’68-’69 con il movimento studentesco, il maggio francese, la primavera di Praga, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la fondazione della rivista il Manifesto, l’autunno caldo del ’69, la vostra espulsione dal Pci?

Lo vivemmo con stupore e allegria. Le cose parvero perfino eccessivamente facili. Chi aveva mai visto tanti studenti in piazza e dalla parte di una sinistra radicale? Non mi pare che contasse negativamente la vicenda cecoslovacca. C’è una bella espressione coniata da Ernst Fischer, che era stato segretario del Partito comunista austriaco e ne fu buttato fuori 4 perché si era pronunciato contro quello che chiamò, appunto, «Panzerkommunismus». Allora era solitario, ammalatissimo, venne praticamente a morire in Italia. Berlinguer non trovò mai il tempo di incontrarlo. Il Panzerkommunismus rimase una discriminante fra noi nel partito. Ma subito dopo il Sessantotto degli studenti, nel ’69 ci fu la più grande e più colta lotta operaia del dopoguerra: l’«autunno caldo». Il Pci non la sostenne; anzi durante le procedure della nostra espulsione ci fu detto che quella non era «una vera stagione di lotte». Invece lo fu, la Cgil e, in particolare, la Fiom di Trentin, lanciò con successo la parola d’ordine del «sindacato dei consigli». La Cgil e la Fiom ebbero un rapporto complesso con Botteghe Oscure, furono i soli anni nei quali il sindacato fu egemone nell’opinione pubblica rispetto al partito. Bruno Trentin, che era un grande amico, polemizzava col partito.

Secondo la vulgata della sinistra, Trentin stava alla Cgil come Ingrao stava al Pci, cioè buoni e perdenti. D’altronde nel tuo libro a un certo punto definisci Ingrao «figura innocente, arcangelesca».

Trentin non è stato un perdente. Mentre Ingrao sì; è stato un perdente per una qualche sua incertezza di fondo. Nel ’66 propose libertà del dissenso e un modello di transizione sociale che incontrarono ambedue netta contrarietà da parte della direzione: venne allora mazzolato di brutto. Anche se raramente si poté constatare una popolarità grande come la sua: i comunisti adorano chi critica il gruppo dirigente ma poi rientra nell’ordine. E Ingrao ha sempre esitato a fare un gesto di rottura col suo partito. In quella occasione, alcuni di noi avrebbero voluto seguirlo con i propri interventi, ma egli ci raccomandò di tenere un profilo basso e disciplinato. Non volle mai coinvolgere un gruppo nella sua disgrazia e forse essere accusato di frazionismo. Più tardi, nell’ottobre del ’90, durante la discussione precedente al XXII congresso che seguiva la dichiarazione di Occhetto di cambiar nome al partito, ci fu una riunione della seconda mozione (Ingrao e Bassolino ad Arco, in provincia di Trento). La relazione doveva essere tenuta da Lucio Magri, che ne aveva parlato a lungo con Ingrao, il quale aveva approvato il suo testo; ma quando fu chiaro che avrebbe portato a una rottura, Ingrao preferì affermare che non se la sentiva di rompere con il partito. Restò famosa la frase: «Preferisco rimanere nel gorgo». Ingrao ha sempre voluto difendere l’unità del partito, e la cosa bizzarra è che Magri – che molti anni prima era stato segretario dei Giovani cattolici – non gli rimproverò mai di averlo abbandonato nel momento decisivo. Nel mio libro, lo attacco molto di più, pur avendogli voluto molto bene. E adesso quelli che portano avanti la ripubblicazione dei suoi scritti, Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, sottolineano più volentieri l’Ingrao poeta, l’amante della musica e del cinema, il comunista del dubbio, piuttosto che approfondire il fatto che negli anni Sessanta e Settanta venne da lui e dagli ingraiani la proposta di un indirizzo veramente diverso, slegato sia dal compromesso storico sia da Amendola.

Ma tu, alla fin fine, che giudizio dai su Berlinguer?

Era un comunista diritto, onesto, appassionato e aperto al dialogo; non un grande statista. Si sbagliò del tutto sulla Democrazia cristiana scommettendo su un accordo cui né essa né Moro furono mai disposti. Dopo il ’79 tornò all’opposizione dura, appoggiò la proposta della Fiat ed ebbe contro di sé Giorgio Napolitano e la destra del partito.

Ma lui con il compromesso storico non fece solo un’operazione politica: dietro c’era anche un’idea culturale di società austera.

Mirava a una società anticapitalista, moralmente pulita e austera.

Piuttosto precapitalista.

Non direi. Pensava al superamento del capitalismo nel senso di Marx, come un movimento che costruisce la società e viene distrutto dal proletariato. Pensava che la Chiesa cattolica fosse fondamentalmente avversa al denaro e a una società dei consumi, e lo incoraggiavano in questa logica Franco Rodano, Bufalini e in genere il partito romano.

Affrontiamo il Manifesto. Il nucleo originario che nel 1969 lanciò la rivista e poi fu espulso (o non gli fu rinnovata la tessera) era costituito nel Pci da te e Luigi Pintor, più o meno della stessa età (tu del 1924, lui del 1925), da Aldo Natoli con parecchi anni di più (1913), e poi un po’ più giovani, a scalare, Eliseo Milani (1927), Luciana Castellina (1929), Valentino Parlato (1931), Lucio Magri (1932). Con che spirito intraprendeste quest’avventura?

L’idea del Manifesto nasce a Milano da Lucio Magri e me. Vi aderiscono Luigi Pintor, Eliseo Milani, Luciana Castellina, Valentino Parlati e altri. A Roma incontra un dirigente di grande seguito come Aldo Natoli. Fu un tentativo di essere comunisti e insieme libertari: questo era l’insegnamento del Sessantotto. Nel quale entrava fortemente la problematica della persona cui noi comunisti eravamo stati educati a non dare troppo peso. La rottura col partito avvenne nel corso delle lotte operaie del ’69, quando il Manifesto raccolse molti quadri nelle città italiane e anche molti studenti, attratti però di più – credo – dal gruppo Lotta continua. Noi fuoriusciti dal Pci fummo il gruppo che durò più a lungo, non senza incontrare ostilità da parte degli altri: rimanemmo sempre un po’ sospetti ad altri gruppi e in genere ai sessantottini puri. Eravamo colti, tentavamo di essere marxisti, leggevamo e facevamo leggere. Nel collettivo, specie nel giornale, si crearono perfino degli elementi «familisti»: io avevo giusto l’età per essere madre della maggior parte dei ragazzi che ci seguivano. E mi pareva naturale assumere un ruolo di suggeritrice e consigliera nelle questioni di cultura e di anima. Non ho avuto figli, ma tutta questa figliolanza. Mi considerarono madre e quindi anche castratrice. Fu un legame profondo e che durò a lungo. Forse talvolta cortocircuitato dalla nostra inclinazione all’autorità. Il gruppo del Manifesto perde la sua ragione di stare assieme quando cadono le speranze del cambiamento perché viene tentato un accordo – almeno da una parte di noi alla cui testa c’era Lucio Magri – con la corrente socialista, che aveva finito per confluire nel Pdup, in particolare Vittorio Foa e Pino Ferraris. Fu un percorso accidentato, seguito più dai manifestisti di base, legati all’organizzazione del movimento; Pintor lo lasciò presto, non accettando che il giornale dipendesse in qualche modo dal Pdup; Vittorio Foa e io fummo direttori per qualche mese. I socialisti erano fra i più persuasi che noi fossimo una filiazione dei comunisti, proprio culturalmente e caratterialmente; Vittorio Foa non lo scordò mai e penso che non ci apprezzò affatto. Del resto eravamo stati sempre arroganti: la prima baruffa del giornale avvenne con Umberto Eco, che scriveva con lo pseudonimo Dedalus; quando se ne andò, Luigi scrisse un corsivo intitolato «Fuori uno». Era solo il primo dei collaboratori più prestigiosi con i quali rompevamo.

Ma ci fu una rottura anche con Natoli.

Aldo era il più anziano di noi e aveva una grande storia nel Pc romano. Non era d’accordo che dovessimo organizzare anche noi un partito e non gli piaceva il giornale. Con Pintor fece una litigata omerica: aveva scritto un editoriale che sforava di 20 righe la gabbia grafica di Trevisani. Luigi Pintor gli disse senz’altro «taglia» e lui «col cavolo che taglio, fammi girare» in pagina interna». Per il giornale era una bestemmia. Di Trevisani e della sua rivoluzione grafica eravamo orgogliosissimi. Quel che posso dire è che il Manifesto ha conosciuto molte rotture ma nessuna di natura bassa o personalistica. Anche noi rappresentavamo una specificità dei comunisti del Nord, più legati alla classe operaia rispetto a quelli del Centro-Sud: per la storia del comunismo italiano sarebbe interessante esaminare queste due piste di lavoro. Non è difficile osservare che nel gruppo dirigente i vecchi quadri furono messi fuori attorno all’VIII congresso da una generazione più giovane, nessuno dei quali veniva però da una fabbrica di Torino o Milano.

Noi milanesi ci consideravamo l’anima più moderna, più industriale, più operaia, più colta, quelli che qualche testo di Marx l’avevano letto.

Va bene Foa e Natoli, poi però vi siete divisi anche con Lucio Magri e con Luciana Castellina.

Io mi sono divisa. Verso la metà degli anni Settanta, Lucio mi disse: «Non ce la facciamo più, il Sessantotto non ce la fa più». E non aveva torto. Ma io non ho mai accettato di riannodare col Partito comunista; in fondo lo consideravo un matrimonio nel quale non si può dire a un certo punto «cambiamo strada». Forse non era una posizione prevalentemente politica. Prevalentemente politica fu la posizione di Lucio Magri e quella di Pintor, anche se Pintor rimase deputato nella Sinistra indipendente, mentre Magri rientrò nel partito nel 1984; ma ambedue avevano interiormente ricomposto con Berlinguer, che a sua volta stava cambiando strada, capendo che l’accordo con la Democrazia cristiana non era più possibile. E a quel punto propose anche al Manifesto di rientrare nel Pci, sia pure in via riservata. Ma che cosa avrebbe portato nel Pci il Manifesto? Un gruppo di quadri dirigenti, che infatti vi affluirono e vi restarono a lungo, e poi il giornale. Sennonché Michelangelo Notarianni, Valentino Parlato e io, non fummo d’accordo; sapevamo che il giornale non sarebbe sopravvissuto. Così nel corso di un comitato centrale abbiamo detto: «Noi non vi consegniamo il giornale; è nato in un altro modo e lo manteniamo indipendente». Era il gesto più antidemocratico possibile: eravamo in tre su tutto il comitato centrale, ma avevamo la forza di farlo e la redazione era con noi. Non che io non pensassi come Magri che ormai la spinta «propulsiva» del Sessantotto fosse finita, era che mi pareva che il giornale avesse costituito un nucleo vitale per una battaglia di cultura politica e di sostegno alle lotte operaie e che avrebbe potuto continuarla. In realtà non è stato così: quando il movimento del Sessantotto fu esaurito e poi caddero anche i «socialismi reali» e i partiti comunisti, lo stesso giornale, come tutta la sinistra radicale, ne seguì paradossalmente le sorti. Oggi il Manifesto è il solo giornale autonomo che resta, ma dubito che riesca a dare un contributo politico e teorico che conti. E credo che questa sia stata anche la conclusione di Lucio Magri; a un grave lutto personale si è aggiunta in lui la costatazione che i nostri progetti si erano insabbiati, forse definitivamente. Questo lo indusse al suicidio. Ne parlammo a lungo nei giorni che lo precedettero perché la nostra amicizia non si era mai spenta.

Forse si è ucciso perché non accettava la vecchiaia.

Ma no. Credo che l’idea di essere un vecchio non lo abbia mai sfiorato, era sempre un bel ragazzo, uno sportivo, cosa che gli uomini perdonano ancora più difficilmente di quanto le donne non perdonino la bellezza a una di loro. Non potevo lasciarlo morire da solo, così lo accompagnai sino alla fine [Rossanda accompagnò Lucio Magri nel viaggio in Svizzera per compiere il suo suicidio assistito nel novembre 2011]. A riflessione fatta, ho avuto nel Manifesto dei compagni di valore cui ho voluto bene: Luigi Pintor, Lucio Magri, Aldo Natoli e anche Valentino Parlato, ma fra loro fu sempre difficile un accordo. A parte il fatto che erano tutti dei «tombeurs de femmes» e le loro conquiste venivano a miagolare da me. Se scrivessi la storia privata del giornale sarebbe divertente. Io ero più giovane di Natoli, avevo uno o due anni più di Luigi e parecchi più di Magri e di Parlato. Cercavo di tenerli assieme col risultato che ognuno mi rimproverava più o meno esplicitamente che non scegliessi la sua parte.

Ma del Manifesto in quanto giornale quotidiano cosa pensi? Il primo numero del quotidiano uscì nell’aprile 1971.

Riuscire a fare uscire ogni giorno un quotidiano senza mezzi, senza editori, ci stupiva e riempiva di allegria. Siamo vissuti con pochissimi soldi; avevamo stabilito di assegnare a tutti (tecnici, grafici, amministrativi, giornalisti) uno stipendio uguale e pari al contratto degli operai metalmeccanici. Quando ci siamo allontanati, la nuova direzione ha differenziato gli stipendi non capendo che finché pensi che quello che fai conta, guadagnare poco non ti pesa molto. La militanza fa stare su di giri. E credo che mediamente la nostra redazione non fosse peggiore di quella della Prima Repubblica.

Però poi non c’era la direzione… Come primo incarico fui corrispondente di Paese Sera a Parigi quando ne era direttore Arrigo Benedetti (1975-1976). Io ero un ragazzotto di 28 anni e lui uno dei più grandi direttori del dopoguerra, eppure ogni mattina ti telefonava e ti faceva le pulci all’articolo che avevi scritto. Invece al Manifesto noi siamo stati diretti da direttori che non leggevano mai nemmeno un articolo del giornale, non sapevano cosa c’era scritto. Nessuno dei fondatori del giornale aveva mai studiato da direttore.

Come no? Luigi Pintor aveva praticamente diretto l’Unità quando era un vero giornale, ed era considerato uno dei migliori giornalisti italiani. Fu il clima sessantottino a fungere da forza e anche da ostacolo: poco dopo l’inizio del giornale, Pintor mandò a tutta la redazione una normale lettera in cui indicava alcune regole di funzionamento. La reazione fu: «Ma come si permette?», i redattori attaccarono un enorme tazebao vicino all’ingresso: «Pintor come Agnelli». Il bello è che Luigi neppure se ne accorse per diversi giorni, dovetti dirgli io: «Guarda quel tazebao». Lo guardò, capì che non era tempo di disciplina e da allora pensò, come ha scritto in suo libro, che eravamo una specie di «nave dei folli».

Il problema non era che non c’era disciplina, era che non c’era organizzazione, sono due cose diverse.

Né disciplina né organizzazione rientrano nell’ideologia del Sessantotto, che rifiutava tutto quello che evocasse l’ombra di una gerarchia. I ragazzi che affluirono verso di noi cercavano un gruppo, ma senza legge, per il bisogno di raccogliersi attorno a un’idea. Questo ci tenne assieme a lungo, non come un giornale simile agli altri; ma quando è venuto meno, è stata la crisi.

E poi c’era la sempiterna discussione durata per decenni se fare un Le Monde della sinistra italiana oppure un giornale nazional-popolare.

Non ricordo che volessimo mai essere Le Monde, che rispettavamo come un giornale della classe dominante. Il nostro avrebbe dovuto essere un giornale colto ma popolare, non nel senso che tu dai a «nazional-popolare». La base del Manifesto oltre che leggerci ci diffondeva, partendo alle sei del mattino a ritirarci in treno, ma pretendeva in cambio che parlassimo dei suoi problemi, delle sue lotte. Quando andai in Cile, nel corso dell’esperienza di Allende, i calzaturieri del Brenta protestarono: «Perché ti occupi di cose lontane, che non interessano nessuno, invece che di noi?».

Ma tra tutte le cose che tu hai fatto dopo il ’69, dal Manifesto in poi, quali sono quelle che secondo te sono andate meglio?

Quelle che non sono andate come speravo sono molte di più di quelle che lo hanno fatto. Non sono entusiasta di quello che abbiamo prodotto, e in particolare di me.

Cosa ti rimproveri?

Adesso mi rimprovero di non aver pestato di più i pugni sul tavolo e aver perduto, se non la direzione, l’egemonia del Manifesto. Era già successo qualche anno prima della nostra uscita. Mi capitò di proporre che il giornale si attenesse a una certa linea culturale, che fosse esplicitamente marxista. Marco Bascetta e Stefano Menichini protestarono, Pintor e Parlato mollarono subito e io decisi: «Dunque devo lasciare».

Avresti dovuto fare come Luigi che mandava una lettera di dimissioni e poi aspettava di essere richiamato a furor di redazione.

Erano dimissioni tattiche, salvo quando se ne andò davvero. La sua rottura non fu con la redazione ma con il Pdup.

Anche con Franco Fortini il suo non fu uno scontro da poco.

Povero Fortini! Aveva osato accennare una critica al fratello di Luigi, Giaime, che era morto nell’autunno del 1943. Per Luigi era come attaccare la Madonna, si infuriò e gli dette del terrorista. Fortini rimase in collegamento personale soltanto con alcuni del giornale.

Fu difficilissimo: ogni tanto noi della cultura riuscivamo a farlo scrivere, ma si faceva pregare…

Non dimenticare che il giornale lo faceva aspettare una o due settimane prima di pubblicare i suoi pezzi.

Il Manifesto era famoso per questa arroganza sia esterna sia interna.

Ricordi il nostro slogan: «Sempre dalla parte del torto»? Era ironico, e anche in esso affiorava un po’ d’arroganza; era chiaro che pensavamo di essere stati sempre dalla parte della ragione sull’onda lunga della storia. E confesso che io, nel fondo, ne sono ancora sicura.

A un certo punto il Manifesto si schierò con Solidarnos´c´.

Eravamo collegati con due dissidenti polacchi molto interessanti, Karol Modzelewski e Jacek Kuron´; non ci veniva neppure in mente che la rivolta operaia di Danzica fosse alimentata dalla Chiesa cattolica e s’inginocchiasse volentieri; fu un’operazione in particolare di Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyła.

Ci fu un’altra grande cantonata?

Quella che prendemmo sull’Iran, seguendo Michel Foucault. Pensammo che quella di Khomeini fosse una via rivoluzionaria perché abbatteva lo scià.

Se tu guardi adesso dopo quarant’anni a tutti i gruppi degli anni Settanta, a parte la malinconia, cosa provi per quella nuova sinistra che è presto diventata vecchia, che è evaporata subito?

Non è evaporata subito, in Italia ci ha messo almeno dieci anni. Potere operaio era il gruppo più colto, Lotta continua il più diffuso portatore del rifiuto, del «tutto e subito», i marxisti-leninisti filocinesi si divisero rapidamente in due.

Che ne pensi del maoismo italiano?

Quelli di Servire il popolo, seguaci di Aldo Brandirali, erano alquanto chiesastici, persuasi che «bisogna vivere da poveri». Io, figlia del Partito comunista, ero dell’idea che bisogna vivere come se si fosse ricchi. Già a Milano, con i miei amici nel partito, del sindacato, di sabato, se non c’erano riunioni, ci fiondavamo in treno a Genova a fare il bagno sulla riviera. C’era sempre qualche casa di genitori libera dove dormire, stavamo in barca tutta la domenica e alla sera avevamo i soldi per una pizza o per un gelato e scendevamo a Portofino. Ho sempre pensato che gli operai vivono poveramente, e che nel tempo breve che abbiamo, dobbiamo cercare non di rinunciare a tutto, ma di avere tutto.

E gli altri gruppi?

I due più interessanti sono stati Potere operaio e Lotta continua. Potere operaio, diventato a un certo punto Autonomia operaia, resta un focolaio di riflessione marxista. E così Paolo Virno e il gruppetto di Padova. Puoi non essere d’accordo, ma non sono il silenzio della mente. Lotta continua resta sostanzialmente in Adriano Sofri.

C’è stato anche Guido Viale. Nel libro parli qua e là del femminismo, ma non lo affronti. Eppure nel 1981 fosti una delle fondatrici della rivista L’Orsa minore, la cui redazione era formata da Maria Luisa Boccia, Franca Chiaromonte, Giuseppina Ciuffreda, Licia Conte, Ida Dominijanni, Anna Forcella, Biancamaria Frabotta, Tamar Pitch.

Ho scoperto il femminismo tardi e non è mai stato il mio impegno principale. Forse lo è di più adesso, in tarda età e, per così dire, con un piede nella fossa.

Come l’hai incontrato?

La scoperta di un radicalismo del problema delle donne, della loro condizione, di come è il rapporto fra i due sessi è stato uno dei fondamenti del Sessantotto, che ha segnato un cambiamento durevole. Sotto il profilo personale, fu Lidia Campagnano a mettermi in contatto con Lea Melandri; con la Libreria delle donne c’è stato sempre amore e scontro. Le mie amiche femministe mi hanno sempre criticata e una di loro mi apostrofò: «Con te un giorno faremo i conti». Molte di loro mi dicono: «Gli uomini non si sono occupati di noi e a noi non interessa occuparci di loro». Su questo non sarò mai d’accordo: se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa di te.

A un certo punto scrivi che è una grande difficoltà «essere nello stesso tempo donna e persona».

Ma sì, il femminismo affermava: «Non si può dire persona, va detto maschio o femmina, persona è un neutro inesistente». Io ero e resto per quel neutro inesistente. Mi sono formata prima del femminismo. Al Manifesto lo incontrammo prima con Lidia Menapace, poi soprattutto con Ida Dominijanni, legata alla Libreria di Milano, dove ho conosciuto anche Luisa Muraro, una donna molto intelligente. Uno dei punti che ci separano è che le donne più impegnate scrivono, in genere, come se reinventassero tutto. Io ho bisogno di informarmi su cosa è stato scritto prima e senza di loro.

Comunque ti ho visto sempre piuttosto diffidente verso la teoria della differenza.

Non ne ho mai accettato la tesi estrema, che il genere femminile è quasi una specie altra. Ma è un discorso troppo complesso da fare in due battute.

Ma quando dicono che le categorie del pensiero sono tutte diverse…

Possono esserlo effettivamente, come fra gli uomini lo sono per ragioni di classe. Una femminista francese, Françoise Duroux, ora purtroppo deceduta, aveva tentato di approfondire se si può parlare delle donne come di una classe a parte. A me pare difficile.

C’è bell hooks, una femminista americana, che dice di sentirsi identità multiple: lei è donna, è proletaria, è nera e sono tre cose che per lei contano quasi nello stesso modo.

Lo si può capire. Io sono stata privilegiata, e non solo perché siamo in una zona privilegiata del mondo. Al Manifesto le donne hanno sempre avuto un ruolo preminente, siamo state spesso più di metà della redazione, alcune donne hanno diretto il giornale ma tutte sono state influenti. Penso alle altre testate: Corriere della Sera, la Repubblica. L’editoriale è qualche volta di una donna? Lo scrive qualche volta Chiara Saraceno, in quanto specialista della società civile, oppure Nadia Urbinati come politologa o Lucetta Scaraffia come esperta di teologia. Come donna sono stata privilegiata anche perché coi miei uomini mi è andata bene: intelligenti, simpatici, divertenti. Non solo non mi hanno ammazzata (come capita a non poche…), ma mi hanno voluto bene e mi hanno aiutata. Ma già come emancipata sentivo la specificità di essere donna: quando parlavo alla Camera, c’era sempre una parte dell’emiciclo ad ascoltarmi, non perché dicessi cose straordinarie, ma perché ero una delle 14 deputate su 600.

L’altro grande tema su cui ti sei impegnata a fondo è stato il garantismo. Nell’85 fondasti insieme a Luigi Manconi e a Massimo Cacciari la rivista Antigone.

Prima avevo un’idea sommaria della giustizia. A educarmi fu Luigi Ferrajoli e l’occasione fu il processo «7 aprile», processo assurdo e che infatti finì in grandissima parte in assoluzioni, ma dopo avere inflitto agli imputati cinque anni di galera. L’aveva istruito un magistrato, Pietro Calogero, convinto che il terrorismo rosso si identificasse in Autonomia operaia. Non è mai stato vero. Si può essere in disaccordo con Toni Negri, ma le Brigate rosse sono un’altra cosa. Anche esse dovrebbero essere capite: ci fu un momento di vera simpatia popolare per le Brigate rosse. Io sono andata a cercarli, volevo vedere che cosa fossero e da dove venivano e resto in amicizia con Mario Moretti; ho sempre pensato che è un figlio estremo del Movimento operaio italiano.

Proprio del movimento operaio?

Sì, degli operai. È venuto dalla Siemens, come altri sono venuti dalla Fiat o dall’Alfa Romeo di Arese e anche da Genova. Il Pci rifiutò di porsi il problema e lo Stato italiano fu soltanto repressivo: il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, a sua volta poi ucciso dalla mafia, si fece dare l’indirizzo e forse la chiave della sede delle Br genovesi, credo da Patrizio Peci, e li fece uccidere nel sonno 5. Ne ho scritto diverse volte e nessuno mi ha mai smentita. Del resto, forse perché mi informavo il più possibile, non ho mai avuto problemi con la magistratura. Ma sono molte le pagine non chiare negli anni dell’emergenza. Una delle più oscure è quella che riguarda Aldo Moro, quando Francesco Cossiga scrive: «Se le Br lo liberano, noi abbiamo già preparato il Piano Viktor per metterlo in una clinica e farlo tacere». Hai letto il memoriale Moro?

No.

È depositato agli atti ma poco conosciuto e per nulla discusso: è un’accusa molto dura al potere politico. L’errore più grande che, dal loro punto di vista, fecero i brigatisti, fu di non liberarlo senza condizioni: sarebbe stato una mina vagante. Quando ne parlai con Moretti, mi rispose: «Non credo. A quest’ora sarebbe presidente della Repubblica». Mario Moretti era l’unico che durante la prigionia di Moro parlava con lui tutti i giorni, e, che io sappia, è uno dei pochi mai rilasciato. Gli altri, anche se condannati a pene molto pesanti, nel tempo sono stati liberati, Mario Moretti no [dal 1997 in regime di semilibertà, di giorno lavora in un centro di recupero, la sera rientra nel carcere di Opera]. La vicenda delle Brigate rosse è un pezzo di storia che va ancora scritta, e, secondo me, senza le virtuose indignazioni d’uso. Fecero scelte terribili uccidendo della gente, ma credevano di doversi battere con nemici riconosciuti, come era stato un tempo per i partigiani. Sbagliavano, ma nessuno di loro si può considerare un criminale comune. Bisognerebbe chiedersi perché questa insorgenza sanguinosa nacque allora e non prima né dopo. Ci fu anche una concorrenza fra Pci e democristiani a chi era più credibile sulla «linea della fermezza»: il Pci temeva che le Br venissero da qualche punta estrema dei suoi stessi scritti, cosa che non fu mai vera. Del resto, il terrorismo italiano non è mai stato un fenomeno molto esteso: durante il sequestro Moro, i brigatisti a tempo pieno saranno stati non più di 120.

Però avevano la maggioranza del consiglio di fabbrica dell’Alfa Romeo di Arese.

Non so se avessero la maggioranza. In quegli anni era cominciata una reazione padronale molto dura. Ai cortei dei Fazzoletti rossi, la direzione Fiat rispose con 81 licenziamenti. Fu in questo contesto che frange del movimento operaio del Nord divennero estremiste, il che non vuol dire che abbiano tutti aderito alle Brigate rosse. Certo un estremismo ci fu, ma viene rimproverato come un crimine, che secondo me non era, e la cui repressione ha certo più ferito che «educato» il movimento. Un caso di lotta acuta fu quella al Petrolchimico di Porto Marghera: era diretta da Potere operaio, che investì il tema di quella produzione velenosa, tema sviluppato anche alla Montedison di Castellanza da Medicina democratica e dai discepoli di Maccacaro. Il punto non era solo il salario, anzi era il rifiuto della contropartita salario-salute. Le Br vere e proprie erano nate a Trento in un ambiente di estremismo sociale cattolico, negli anni in cui agivano i gruppi guerriglieri in America Latina. Fra le prime Br ci sono Renato Curcio e Mara Cagol uccisa assai presto in uno scontro a fuoco alla Cascina Spiotta in Piemonte. Nel 1968, scendono a Milano e propongono il Collettivo politico metropolitano, e si inseriscono in alcune zone produttive.

C’era anche Alberto Franceschini.

Franceschini è di Reggio Emilia e viene dal gruppo che si richiama ai partigiani. Più tardi fu fra i primi a dissociarsi.

E Roma.

Roma si è inserita più tardi nel movimento. Ne hanno fatto parte Valerio Morucci e Adriana Faranda che poi si persuasero a collaborare con le forze di polizia, e ottennero forti sconti di pena.

Che ruolo ebbero i giudici?

Non è stato un momento glorioso per la giustizia italiana. E qui c’è una responsabilità particolare del Pci, soprattutto con i suoi responsabili del settore, Ugo Pecchioli e Luciano Violante che influirono anche su Magistratura democratica: il Pci è stato il fer de lance contro quello che ha chiamato subito terrorismo; esso non capì molto del Sessantotto in genere e ancora meno delle sue derive estreme. Alcuni suoi membri si chiedevano quanti libri, e non solo d’ispirazione comunista, fossero stati scritti sulla questione se le Br fossero pagate dai russi o dagli americani, ambedue preoccupati di una partecipazione dei comunisti al governo, cosa che in realtà non fu mai all’ordine del giorno per la Democrazia cristiana. Bettino Craxi e il Psi ebbero un occhio più attento alle Br, ma, salvo che nel caso di Giuliano Vassalli, non credo per ragioni migliori, ma per ostacolare il rapporto fra Pci e Dc.

Oltre al femminismo e al garantismo, l’altro tema su cui ti sei molto impegnata negli anni Settanta e Ottanta è stato il blocco sovietico: il convegno sui paesi dell’Est nel novembre ’77 ebbe una notevole funzione, fu qualcosa di importante nella vita politica italiana.

Per quel convegno, che raccolse critiche dai partiti del «socialismo reale» e che, non fosse per altro, fu di grande interesse per questo, ricevetti anche un violento telegramma di Vittorio Foa: «Mentre lo Stato italiano sta distruggendo i giovani di Lotta continua, voi andate a cercare rogne all’Unione Sovietica».

Torniamo così al crollo del Muro di Berlino. Ricordo la spaccatura netta che ci fu nel Manifesto quando crollò: una gran parte della redazione era contenta. Invece un’altra parte, Luigi compreso, era tristissima, aria da funerale. Come se gli fosse stata tolta sotto i piedi la base dell’«eresia comunista»: la posizione di eretico richiedeva che l’Urss fosse lì, perché sennò rispetto a cosa era eretico?

Anch’io ero triste. Tuttora non considero positivo il giorno in cui è stata calata la bandiera rossa dalle torri del Cremlino; nessuno può sostenere che la situazione nell’ex Unione Sovietica sia veramente migliorata in senso democratico. Per la verità, andrebbero esaminati anche i limiti della critica di Berlinguer che non si spinse mai in fondo. In questo il Manifesto fu più serio. Per chi aveva vissuto il Sessantotto, era stato più semplice affermarsi in presenza di un’Unione Sovietica che tuttavia spaventava gli Stati Uniti e la destra di quanto non sia stato dopo.

Mi colpì che con la fine del Pcus, in Russia i dissidenti non vinsero, ma scomparvero.

I dissidenti esprimevano un rifiuto ma non riuscivano a proporre un cambiamento. Bisognerebbe riconoscere che era assai difficile in regimi senza libertà.

Ma secondo te perché tutti i regimi comunisti che sono esistiti hanno avuto questo diavolo di problema con la libertà? Cioè non ce n’è uno che non l’abbia avuto.

Penso che lo si debba anche alla tesi, proprio marxista, che il sistema capitalistico dominante non può essere abbattuto senza violenza; di qui la necessità della «dittatura del proletariato». C’è da chiedersi invece il perché di una crisi della socialdemocrazia come quella cui assistiamo oggi. E non solo in Italia.

I giovani politici che portarono alla dissoluzione del Pci erano tutti delfini berlingueriani.

Eh sì. Il Pci si è dissolto in maniera un po’ miserabile. La borghesia non ha mai rinnegato se stessa nelle sue svolte, che sono state molte. In verità nel Pci non sembra esserci stato nessuno in grado di affrontare la caduta del Muro; e ancora meno in grado di dirsi dove e quando abbiamo sbagliato, pur seguendo un ideale giusto. I vari comunisti, come i D’Alema e i Veltroni, hanno riconosciuto sostanzialmente che l’errore era stato voler rovesciare il capitalismo.

Uno faceva il socialdemocratico, l’altro il democratico americano, tutti e due senza essere né l’uno né l’altro.

Non hanno neanche detto: «Avremmo dovuto scegliere la socialdemocrazia»: il solo che lo abbia proposto nel ’64 è stato Amendola.

Ma la ragione strutturale di questa sconfitta non può dipendere solo dagli errori dei gruppi dirigenti.

I gruppi dirigenti sono risolutivi, specialmente nei partiti comunisti: la stessa asprezza nella lotta contro il capitale fa del partito una specie di esercito dove la disciplina è risolutiva.

Ma vuol dire che qualcosa non va nella formazione, nella scelta del gruppo dirigente: se scegli sempre quelli che ti portano alla rovina, vuol dire che hai scelto male.

Non è questione di cattive scelte di un’ipotetica base. L’idea comunista entra in crisi per molte ragioni, fra le quali anche l’insufficienza di democrazia del partito. È interessante che oggi nell’ex Urss ci sia molta nostalgia per il periodo sovietico; nostalgia più che riflessione. E non è un caso se è in crisi l’idea stessa di socialdemocrazia: ormai non c’è una sola socialdemocrazia che tenga in Europa. La mia idea è che con il crollo del Muro di Berlino, non è stato sconfitto tanto il comunismo, già alquanto ammaccato, ma la tesi keynesiana, di John Maynard Keynes e Hyman Minsky, cioè quella di un vero compromesso fra le classi. Osserva come sta finendo male in Francia con Hollande!

Tornando all’Italia, nel ’94 il Manifesto organizzò a Milano una manifestazione contro Berlusconi in chiave antifascista.

Vi partecipò una marea di gente.

Ma la chiave dell’unità antifascista non portava da nessuna parte.

Non era il problema di quella fase, né lo è ora. Berlusconi non è stato un fascista in senso proprio. Io non mi sono mai scaldata su di lui, mi interessa una lotta esplicita, e forse un’analisi della struttura del capitale, che sta subendo serie involuzioni: pensa come il governo italiano non abbia detto parola quando la Fiat si è spostata armi e bagagli in Olanda. Bene o male, la Fiat era la più grande azienda italiana ed era fortemente sovvenzionata dai vari governi della Repubblica. Del resto forse ti ricordi l’Italia «dei condottieri», glorificata all’estero negli anni Ottanta? Oltre gli Agnelli, erano Gardini e De Benedetti. Gardini si è ucciso. Carlo De Benedetti si è deindustrializzato.

Di Renzi cosa pensi?

È un dirigente più abile che intelligente.

Sì, però guarda la facilità con cui ha fatto fuori D’Alema, Bersani, Veltroni, Letta, lo stesso Berlusconi.

A D’Alema davo più capacità di resistenza. Penso all’intervista che gli feci prima di venire via dal giornale. Era interessante, durò diverse ore e pareva molto sicuro di sé. Tuttavia a rileggerla adesso, si vede che non riuscì a prevedere nessuna vera tendenza né sull’andamento politico dell’Ue, né sulla crescita. Poco dopo perdette anche il partito, nel quale ci fu un vero vuoto di presenze. È sempre stato molto corretto col Manifesto, non posso lamentarmi: i miei migliori nemici lo sono sempre stati con me.

Ma per te chi è oggi il personaggio più interessante in Italia?

È una persona che non fa parte della politica nel senso proprio: Bergoglio. Ha modificato molti poteri in Vaticano, ha abbracciato e chiesto perdono a una prostituta. Credo che abbia contro molti porporati cui deve apparire intransigente in modo eccessivo. Non è il tipo di gesuita che di solito si ha in mente.

Per molte estati dagli anni Novanta hai trascorso giornate di studio all’eremo di Monte Giove.

Era in origine un eremo camaldolese e rimase a lungo un luogo di discussione fra cattolici e laici. Indirettamente, lo dirigeva il padre Benedetto Calati, ex generale dei Benedettini più volte richiamato da Ratzinger quando dirigeva il Santo Uffizio. A mio avviso Ratzinger fu tremendo, anche se ha avuto il coraggio di dimettersi; però diversi amici laici lo apprezzano più di Giovanni Paolo II.

Ma lo rispettavano anche tanti intellettuali di sinistra, come Mario Tronti, e non solo lui. Forse perché gli restituiva l’immagine tradizionale della Chiesa come dovrebbe essere.

Probabilmente sì. Perché era un teologo molto colto.

L’ultima domanda deriva dal bilancio di tutta quest’intervista. Emerge un paradosso che mi devi spiegare, quindi ci devi riflettere e spiegarmi. Il paradosso è il seguente: tu sei diventata molto più influente, hai avuto molto più peso, il tuo nome è diventato più famoso dopo il ’69, piuttosto che prima. Nello stesso tempo, nella tua memoria, la parte prima del ’69 rimane infinitamente più importante di quella successiva.

In non sono fra quelli che si vergognano di essere stati comunisti. Ho conosciuto il Pci nel 1943, poi ho conosciuto altri partiti comunisti e penso che quello italiano sia stato uno dei migliori. Certo negli anni Sessanta ha prodotto una sinistra comunista moderna come quella «ingraiana», che fu notevolmente diffusa e influenzò anche il sindacato. Perfino il Manifesto nasce in qualche misura da esso, anche se la grandissima parte dei dirigenti non ci seguì. Sono persuasa che fra il ’60 e l’89 avrebbe potuto prodursi una svolta; se non c’è stata, si deve – credo di non esagerare – anche all’esclusione di noi del Manifesto.

Ma sei ancora comunista? Perché io sono anticapitalista, ma non mi è più ben chiaro cosa voglia dire essere comunisti, cioè come possa realizzarsi in concreto una proprietà collettiva che non sia un capitalismo di Stato.

A me non è ben chiaro cosa voglia dire essere «anticapitalista sì, marxista e comunista no». Cioè tutta l’accumulazione di teorie e di vite che è avvenuta almeno dal ’48 sulle spalle del lavoro. E poi io resto persuasa di una battuta di Mario Tronti: con il movimento comunista si è avuta una grande civilizzazione del conflitto. E non accetterò mai che il mondo resti non solo pieno di povertà ma con le disuguaglianze in aumento, come riconoscono le Nazioni Unite. Certo, i «socialismi reali» non sono stati una società augurabile, ed è su questo che, se il movimento comunista esistesse ancora, si dovrebbe lavorare. Io comunque vi appartengo. Ho commesso tanti errori e ammetterlo fa parte di una vita capace di riflettere su di sé. Non penso che siamo sconfitti per l’eternità e so che non vivrò per l’eternità; mi dispiace non riuscire a vedere la società che desidero.

A un certo punto nel libro dici che quello che ti dà molto fastidio è «l’eterodirezione delle esistenze», cioè che le esistenze siano eterodirette, una cosa che non puoi sopportare. Ma adesso siamo in un periodo in cui ci sentiamo totalmente eterodiretti.

Appunto, non lo sopporto e resto in collera. Sono perpetuamente furibonda.

NOTE:

1 Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Enrico Berlinguer, Walter Veltroni, Massimo D’Alema… per il Pc-Pds-Pd; Pietro Nenni, Sandro Pertini, Riccardo Lombardi, Giacomo Mancini, Francesco De Martino, Antonio Giolitti, Bettino Craxi… per il Psi; Adriano Sofri, Luigi Manconi, Gad Lerner, Guido Viale, Franco Piperno, Lanfranco Pace, Oreste Scalzone, Mario Capanna per i sessantottini.

2 Con il breve saggio L’anno degli studenti (De Donato, Bari 1968).

3 Ecco il comunicato ufficiale di allora: «Allo stato dei fatti, non si comprende come abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un intervento militare. L’ufficio politico del Pci considera perciò ingiustificata tale decisione, che non si concilia con i princìpi dell’autonomia e indipendenza di ogni Partito comunista e di ogni Stato socialista e con le esigenze di una difesa dell’unità del Movimento operaio e comunista internazionale. È nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del Pci sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso».

4 Fu riabilitato dal partito nel 1998, 26 anni dopo la sua morte, n.d.c.

5 Rossanda si riferisce all’irruzione, da parte dei carabinieri, in un appartamento di via Fracchia, dove nel 1980 rimasero uccisi tutti e quattro i brigatisti presenti, n.d.c.

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