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Anna Lombroso per il Simplicissimus
Il lavoratore manuale nemmeno sapeva che quello alla salute era un diritto, sapeva soltanto che doveva contare su una macchina che funzionasse bene e sopportasse la fatica per conquistarsi gli elementari mezzi di sussistenza, che spettava a lui conservarsela efficiente e effettuare la necessaria manutenzione, perché il signore, il feudatario, il principe permettevano nel migliore dei casi che un cavadenti girasse nelle piazze o distribuisse un elisir, unico antidoto nel caso di peste nera, provvidenziale per ridurre la popolazione degli inutili parassiti.
Era quella la condanna degli schiavi, per i quali l’unico diritto immutabile e riconosciuto era la fatica e dei quali non resta memoria storica se non quella indiretta delle piramidi che hanno tirato su, intitolate ai loro faraoni, celebrati invece in vita e in morte. La malattia era la pena capitale comminata e applicata per fame, isolamento e abbandono del soggetto diventato rifiuto superfluo da conferire in una fossa senza tante cerimonie.
Avevamo sperato nella fine della schiavitù, almeno da noi – che in altre geografie destinatarie di operazioni di rafforzamento istituzionale, esportazione di democrazia e campagne di aiuto umanitario vigeva ancora con profittevole dinamismo seppure sotto altro nome. E’ successo quando lo sviluppo richiedeva individui talmente in buona salute da garantire non solo uno sfruttamento più fertile e profitti più sicuri ma anche nuovi consumi compresi quelli edonistici più fervidi e prodighi e redditizi.
Il corpo, a un certo momento e per un certo tempo, è stato promosso a prodotto oltre che merce, esteticamente obbediente a canoni e requisiti imposti dalla somatica di regime, che ci voleva eternamente giovani, scattanti, lisci e ben oliati, depilati e tonici sia davanti alla pressa, ormai quasi in disuso, che al desk del nuovo impero digitale, grazie a frequentazioni di istituzioni ginniche, parchi e perigliose strade cittadine inquinate, perché poi si sa, sulle minacce sanitarie dell’inquinamento dell’industria e dei trasporti il sistema economico si è mostrato meno attento in vista della definitiva conversione dell’economia produttiva in economia finanziarie, quando il pericolo nella futura società del rischio sembrava altrettanto immateriale dei quattrini aerei circolanti in fondi, bolle, titoli.
È che la salute, quella fisica – che quella mentale e psichica ha cominciato a essere “garantita” artificialmente da equilibratori dell’umore, farmaci da auto somministrarsi o gentilmente erogati dal servizio sanitario per ottenere il buonumore e l’oblio, per sopportare il passato, il presente e più che mai il futuro – si è sempre più trasformata in un brand.
Ed è avvenuto non solo con l’irruzione in borsa e nel mercato di multinazionali farmaceutiche che hanno monopolizzato la ricerca, con la sostituzione della sanità pubblica con le cure e le cliniche private, diventate sempre più profittevoli a confronto con un sistema assistenziale volutamente impoverito e inefficiente, ma anche con l’ostensione di modelli estetici e di comportamento che hanno accreditato perfino nuove patologie redditizie e di moda, dalla celiachia alle decine di intolleranze, che hanno imposto canoni di salute e bellezza che andavano rispettati per accedere a posizioni, posti, opportunità.
Così le disuguaglianze si sono espresse in nuovi modi sorprendenti, facendo diventare doveroso laminare le ciglia e inevitabile ricorrere a lenti a contatto colorate quando gli anziani aspettano mesi e mesi per un intervento di cataratta in una struttura pubblica, dimostrando l’indispensabilità della sbiancatura della chiostra dentaria quando sono stati dichiarati “sans dents” dall’allora presidente francese quelli che non hanno meritato le magnifiche opportunità del capitalismo e sono costretti a rinunciare alle cure mediche private tramite fondi e assicurazioni spesso promossi dagli stessi padroni che così li sfruttano due volte.
Ma la vera allegoria simbolica dell’iniquità di un sistema, nel quale la salute non è un diritto uguale per tutti come non lo è la giustizia, è rappresentata dalla scelta obbligata, per migliaia di lavoratori e per i cittadini di posti dove per anni hanno prodotto veleni industrie criminali tra salario e malattia, tra fatica malremunerata e cancro. Come succede a Taranto, come nei siti dell’amianto del primo iscritto al Partito Democratico che dà dell’imbroglione a Berlusconi proprio come la padella che dice su della farsora, come è accaduto all’Ipca (oltre 130 morti di tumore), e come con tutta probabilità succede nelle ridenti campagne trevigiane dove la stessa malavita che si compra le vendemmie di prosecco rovescia tonnellate di rifiuti tossici.
Che la salute potesse essere a rischio anche senza l’inanellarsi delle sette piaghe bibliche, che poi erano 10 (acqua mutata in sangue, rane, zanzare, mosche velenose, mortalità del bestiame, ulcerazioni, grandine, locuste, tenebre, morte dei primogeniti) lo si doveva immaginare per l’analogo inanellarsi di crisi (ambientali, migratorie, tecnologiche, debitorie e finanziarie), perché stiamo sulla terra ormai stretta in quasi 8 miliardi, perché a forza di manipolare natura, uomini e forme abbiamo esposto ogni “cosa” a inattese vulnerabilità, perché i sistemi più sono complessi e più di rivelano fragili, perché ogni epidemia locale è suscettibile di avere una diffusione globale rapidissima.
Eppure per anni la gran parte di noi si è fatta persuadere dell’inevitabilità se non addirittura della desiderabilità dei questi effetti collaterali del progresso, della globalizzazione, fenomeno a alto contenuto ideologico se ha trasformato l’internazionalismo nel cosmopolitismo per pochi che va dalla cucina fusion all’Erasmus, del primato della scienza che contrasta le malattie, dell’egemonia digitale, insomma di quella parvenza di onnipotenza virtuale che ci è stata concessa a fonte dell’impotenza concreta che abbiamo sperimentato i questi mesi.
E così d’improvviso, anche se c’erano tutti i segnali, ci siamo ritrovati come i cenciosi del lumpenproletariat, un ceto senza identità di classe, privo di coscienza politica, disorganizzato e condannato a trarre il suo reddito da occupazioni occasionali che talvolta sconfinano nell’illegalità e per le quali, come per il cottimo soggetto al caporalato, la salute diventa il bene primario, in nome del quale è necessaria la rinuncia a altri diritti diventati secondari, istruzione, lavoro, la cessione di spazi di autonomia e libertà.
Ormai succede sempre che un bisogno resti tale e non dia luogo a un diritto. Succede perfino oggi che il diritto costituzionale alla salute ha preso il sopravvento per una insensata gerarchia, mentre sono sospese prevenzione, cura, assistenza, perchà l’unica malattia concessa pare sia il Covid.
Succede perfino oggi, quando scopriamo che per rafforzare il sistema sanitario le cui falle volontarie e promosse da anni di consegna ai privati, di favori alle cliniche e pure ai cucchiai d’oro in barba alle leggi dello stato, dobbiamo attendere l’elemosina che ci dovrebbe forse arrivare con la partita di giro europea, trasmettendoci i quattrini che abbiamo erogato, condizionati da comandi e priorità, come si apprende se ci si prende la briga di leggersi il documento ufficiale del board del MES dell’8 maggio 2020, con la specifica delle clausole che regolano il prestito per affrontare il Covid.
Mentre una quindicina di giorni fa è passato sotto un pudico silenzio la determinazione del Ministero dello Sviluppo Economico di proporre al Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio le schede di sintesi delle aree progettuali ritenute strategiche e per la cui realizzazione sarà chiesta la copertura finanziaria con il Recovery Fund dell’Unione europea, tra i quali fanno spicco quelli finalizzati al Potenziamento della filiera industriale nazionale, dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza per cui si prevede di impiegare nei prossimi sei anni 12 miliardi e cinquecento milioni di euro di provenienza Ue.
Tale è la confusione indotta tra sopravvivenza e vita, tra salute e sicurezza che sempre di più il cittadino, che vive sotto il tallone della biopolitica quando ogni funzione e comportamento e scelta umana deve iscriversi e assoggettarsi al modello economico dell’impresa e all’obiettivo del profitto e dell’accumulazione, verrà persuaso che per meritarsi di stare al mondo e per essere una merce di valore nel mercato, battendo la concorrenza di altri corpi, sia necessario pagare con la rinuncia alla libertà e il tradimento della dignità.
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