Elisabetta Ambrosi Giornalista
Le risposte sono state quasi sempre negative, vaghe, imbarazzate, quasi fosse un tabù. Ebbene, mi sono immaginata la stessa domanda calata in Italia, un paese anni luce diverso dalla Gran Bretagna proprio rispetto al mercato del lavoro e alla meritocrazia. Anche qui la risposta evasiva sarebbe stata identica, come mi è capitato d’altro canto di osservare più volte chiedendo alle persone che incontro – lo faccio spesso, è una tentazione irrefrenabile, ad esempio con commesse, al barista, al dipendente del parrucchiere et – che tipo di contratto abbiano e se siano o meno sottopagati.Si vergogna di lavorare tutto il giorno, esattamente come un lavoratore normale, ma di guadagnare una miseria. Si vergogna di avere titoli, di aver studiato, ma di dover confidare ai suoi genitori che quei titoli non sono serviti a dargli uno stipendio sufficiente. Si vergogna perché magari fa un lavoro che socialmente viene riconosciuto come rilevante – moltissimi tra quelli che guadagnano poco lavorano nel sociale o nel mondo delle professioni intellettuali – ma al quale non corrisponde un reddito che in altri paesi è proporzionato al tipo di lavoro svolto. È questo il punto: è saltato completamente il rapporto tra valore di una prestazione lavorativa di qualità e il suo compenso. E questo genera vergogna sociale, silenzio sulla propria condizione, che a sua volta provoca amarezza, rabbia, sensazione di impotenza.
Mi sono sempre chiesta cosa succederebbe in Italia se gli stipendi, come in Svezia, fossero pubblici per qualunque categoria di lavoratore. Sono da sempre convinta che basterebbe questa misura non solo per raccontare le immani ingiustizie sociali che da sempre hanno caratterizzato questo paese, ieri come oggi. Ma anche per cambiare completamente atteggiamento nei confronti di moltissimi lavoratori che incontriamo. Perché sapremmo che, magari, l’animatrice che intrattiene i nostri figli l’estate si prende cento euro a settimana. O la commessa che ci serve prende sette-ottocento al mese con orari massacranti. O la guida turistica, o la giovane avvocata che segue la tua causa. Scopriremmo realtà dolorose, persino sconvolgenti, che mai avremmo immaginato. E non a caso metà dei contribuenti dichiara meno di 15mila euro. Evasione a parte, ciò significa che per ogni persone che ne dichiara 25.000 ce n’è una che guadagna cinquemila. Ma soprattutto questi dati non rendono conto della distribuzione del reddito per generazioni, né per genere, perché allora vedremmo ulteriori, assurde, ingiustizie.
Aspettando un’Italia in cui i redditi di tutti siano pubblici – una vera rivoluzione – io per prima, il cui reddito con corrisponde né al tipo di lavoro né alla visibilità che comporta – ho dovuto fare, per evitare il malessere e il dolore, un lavoro psicologico importante: scindere nella mia mente il valore del lavoro che faccio con quanto viene pagato. Un’operazione di cui Marx non sarebbe contento, ma che mi consente di sapere che il valore che produco con ciò che faccio non c’entra con il suo compenso. E che se faccio un’inchiesta dando voce a una realtà sociale disperata sto facendo una cosa importante, al di là del guadagno. Certo, esiste il problema della sopravvivenza e da questo punto non bisogna smettere di lottare per migliore la propria condizione e denunciare lo strazio di un lavoro che non dà reddito. Ma almeno aiuta ad andare avanti. Provateci. E rivelate quanto guadagnate solo a tutti quelli che sanno comprendere questa distinzione e non vi diano un feedback di svalutazione, che nasce appunto dal credere che in questo paese non solo esista la meritocrazia ma anche ci sia un collegamento coerente tra il lavoro e quanto viene retribuito. Non è così. E occorre utilizzare tutta gli strumenti pratici e psicologici che abbiamo per riuscire ad accettarlo. Ovviamente, però, senza subirlo.
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