Davide
Angelilli è un militante da tempo impegnato in progetti di educazione
popolare, prima alla scuola Carla Verbano al Tufello e oggi a San
Basilio, ed un attivista che ha sempre coniugato una spiccata coscienza
internazionalista con l’iniziativa territoriale. Ha partecipato
organicamente all’attività di Potere Al Popolo sin dagli esordi ed ora è
candidato in questa importante parte della città come presidente di
Municipio.
La
possibilità di presentarsi con liste di Potere Al Popolo alle elezioni
amministrative sono state un’ottima opportunità – lì dove si è
concretizzata – per dare una continuità al progetto e di riconfrontarsi
con il blocco sociale su temi che vanno a investire direttamente i
territori. Cosa vi ha spinto a “riaccettare” la sfida anche per le
amministrative e a candidarti come “presidente”?
Oggi
in Italia la politica istituzionale è qualcosa di veramente triste, i
partiti sono lontani dal popolo, il consenso e l’attivismo che generano
sono prettamente virtuali. In questo scenario, ovviamente, la dinamica
elettorale è tutt’altro che costruttiva: una caccia al voto fredda e
superficiale.
Tuttavia
se vogliamo uscire dalle caverne non possiamo permetterci di lasciare
spazi vuoti, tantomeno di fare solamente quello ci piace e ci sembra
bello, dobbiamo invece agire sui piani che ci sembrano utili e
costruttivi. In questo senso, quello elettorale diventa un momento
cruciale nella costruzione di un nuovo soggetto popolare che parta dal
sociale per cambiare le relazioni di potere sul piano politico
nazionale.
Lo
dico perché le elezioni sono un momento di confronto e dibattito a cui
tanti e tante cittadine ancora partecipano. Per me quest’ultima campagna
elettorale è stata un’importantissima occasione di crescita personale.
Mi ha dato la possibilità di confrontarmi con vicini di casa,
famigliari, conoscenti, amici, e non perché è stato l’inizio del mio
attivismo. Il punto è un altro: la creazione di Potere al Popolo ci ha
permesso di essere rintracciabili nella società, e questa è una
condizione necessaria, ma non sufficiente, per ristabilire una
connessione con il popolo. Nel mondo di oggi se non sei rintracciabile,
identificabile con una visione del mondo generale, è molto difficile
entrare in contatto con le persone. C’è poi la questione della
concretezza; le elezioni ci obbligano a trasformare la nostra visione
del mondo in un programma politico fattibile ma allo stesso tempo anche
appetibile, comprensibile, attrattivo.
Le
elezioni sono così un momento di costruzione e allargamento
fondamentale per non condannare alla fragilità e all’isolamento il
conflitto sociale e politico, che resta comunque il motore centrale per
un processo come il nostro di trasformazione radicale della società
italiana. Un processo in cui al centro ci devono essere i giovani, le
giovani. Non perché sono eticamente migliori o politicamente più
preparati, ma perché vivono con più forza le contraddizioni del
capitalismo oggi in Italia, e perché senza lo slancio di una nuova
generazione di militanti è veramente complicato ricostruire
un’alternativa popolare a questa barbarie.
Il
Terzo municipio è “una città nella città” nel territorio metropolitano
della Capitale con i suoi più di 200.000 abitanti e la presenza
contemporanea della “vecchia” e della “nuova” periferia capitolina. Puoi
descrivere brevemente, a chi non lo conosce, questa porzione di
territorio e la popolazione che ci vive?
Roma
non è più una città caratterizzata da un centro e da una periferia, è
diventata oramai un “territorio di territori” con tanti centri e tante
periferie. Basti pensare che da solo il terzo municipio, con i suoi 250
mila abitanti, sarebbe il dodicesimo comune più grande di Italia. Un
territorio importante, per motivi storici ma anche attuali. Qui a
Montesacro ci fu il primo sciopero della Storia nell’età della Roma
imperiale; Simón Bolívar giurò di liberare i popoli dell’America Latina;
negli anni ’70 ci fu un grande movimento rivoluzionario ben
rappresentato dalla figura di Valerio Verbano.
È
un municipio dove i palazzoni popolari senza manutenzione dell’estrema
periferia di Vigne Nuove convivono con gli attici di Città Giardino, cui
valore supera il milione di euro. Ma è anche il territorio di Porta di
Roma, uno dei più grandi centri commerciali in tutta Europa, frutto
dell’alleanza tra il Pd “illuminato” di Rutelli e Veltroni e i
palazzinari.
Porta di Roma ha completamente stravolto la geografia
economica di tutto il territorio, ammazzato interi quadranti economici,
generato migliaia di posti di lavoro precari, un “non luogo” in cui le
più grandi multinazionali partecipano al mercato capitalista globale
giocando al ribasso sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma
Porta di Roma per diversi quartieri del municipio è anche l’unico posto
dove andare a sentire un buon concerto dal vivo l’estate… il simbolo di
una città privatizzata.
Insomma,
questo è un municipio importante per mettere in piedi una visione di
città alternativa al nuovo sistema Lega-Movimento 5stelle, ma anche al
Pd e quindi a quella “sinistra” che per prima ha venduto e distrutto
l’anima popolare di Roma.
I
Municipi vivono una condizione particolare, soprattutto le aree
periferiche sempre più omogenee per la tipologia di problemi che
affrontano al di là della città in cui sono collocate. Da un lato si
accumulano nelle peroferie le contraddizioni dell’attuale sistema di
vita e, per reazione le aspettative di cambiamento del corpo sociale,
dall’altra sono ostaggio, a livello di possibilità di spesa e di
orientamento amministrativo del “patto di stabilità” a livello
cittadino. Questo è collegato all’obbligo di pareggio di bilancio
introdotto con la modifica dell’articolo 81 della costituzione, su cui
Palp, a livello nazionale, sta conducendo una campagna di raccolta firme
per un referendum abrogativo. Come intende muoversi Potere al Popolo in
questa situazione non facile, mentre la Giunta Raggi sta favorendo
quella configurazione di interessi che storicamente hanno governato la
capitale?
Il
10 giugno si vota nel nostro municipio, il terzo, ma anche nell’ottavo.
In tutti e due i programmi, trai primi punti c’è precisamente l’impegno
per eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione. Diverse
persone mi hanno fatto notare che “non è un tema municipale”, quindi
colgo l’occasione di questa domanda per spiegare ulteriormente le
ragioni di questa scelta.
Come
ti dicevo prima, la campagna elettorale per me è principalmente un
momento di confronto con le persone. Andando per i mercati ti rendi
subito conto che il problema principale, insieme al lavoro, è la
mancanza di servizi sociali, da qui poi il sentimento razzista di una
parte della popolazione che si vede in contrapposizione con i migranti.
Dovremmo riflettere più profondamente sul fatto che il razzismo e l’odio
verso i migranti oggi in Italia non gira tanto attorno alla questione
del lavoro, ma sulla questione dei servizi sociali, sulla casa, la
sanità, etc. etc. Tra lavoratori migranti e italiani sui posti di lavoro
c’è spesso grande simpatia, il problema nasce dai servizi sociali che
sono stati smantellati e dalla conseguente guerra tra poveri.
Il
meccanismo è più o meno questo: grossi tagli alla spesa pubblica per
imposizione dell’Unione Europea, una riduzione drastica della spesa
sociale che porta allo smantellamento del welfare, crescita del razzismo
in quelle parti della popolazione che si vedono colpite da questa
macelleria sociale e vengono messe in competizione con i migranti.
D’altronde, la destra sovranista fa questo discorso in tutta Europa:
“non è possibile lo Stato sociale, da una parte perché l’Unione Europea
ci deruba e dall’altra perché non possiamo gestire i flussi migratori,
non possiamo aiutare tutta l’Africa”: unisce quindi la giusta critica
all’Unione Europea con un discorso razzista anti-immigrati. Il contratto
tra Lega e 5stelle è esemplificativo in questo senso, apre un timido
conflitto con l’Unione Europea, non nell’ottica di una redistribuzione
della ricchezza, ma per fare ulteriori favori ai ricchi!
Noi
invece dobbiamo unire la rottura dei trattati europei con l’apertura di
un conflitto con i veri responsabili dello smantellamento del welfare,
ovvero quelle classi ricche (di cui la “destra sovranista” è
espressione) che hanno contribuito a costruire questa Unione Europea e
che impediscono la redistribuzione della ricchezza in favore della
maggioranza della popolazione. Per aprire questo processo, è
fondamentale la soggettività migrante, ma anche il lavoro territoriale
in quelle periferie sociale e geografiche dove più forte si vive questa
situazione esplosiva.
Hai
avuto occasione di conoscere a valorizzare in diverso modo le
esperienze della “rivoluzione bolivariana” e dell’ascesa e del
consolidamento delle forze progressiste in America Latina. Quello
latino-americano è stato ed è un laboratorio ricco di suggestioni e di
indicazioni politiche concrete per l’iniziativa anche alle nostre
latitudini, come numerose forze politiche innovatrici hanno compreso
anche in Europa (France Insoumise e Podemos,
ma senza dimenticare la sinistra indipendentista basca e catalana).
Come pensi queste esperienze hanno da “offrirci” anche a livello di
lavoro territoriale e di base oltre che di “cambio di paradigma”
generali per i successi ottenuti?
Aprire
un dibattito su cosa ci insegna la Rivoluzione Bolivariana e la
sinistra latinoamericana è cosa molto complessa e difficile da
affrontare qui e adesso. Di certo vanno chiarite due cose: la prima è
che l’America Latina ci dà degli spunti interessanti su processi
virtuosi da seguire, ma anche su fallimenti ed errori da non ripetere,
proprio per questo è così importante studiare ciò che accade lì. La
seconda è che per quanto uno possa ispirarsi alle vittorie
latinoamericane non si deve cadere nell’errore di riprodurre qui quel
modello. Per usare un termine gramsciano, la traduzione di quelle
esperienze su queste sponde è cosa molto delicata e complessa, sia da un
punto di vista teorico che pratico.
Un
dato oggettivo è che tanto in Venezuela come in Bolivia la sinistra non
ha cambiato le relazioni di potere facendo accordi con partiti o unendo
vecchie sigle, ma generando attivismo, partecipazione e coscienza in
settori della popolazione fino ad allora invisibili, esclusi dalla
politica per motivi razziali e di classe. È in quel vuoto che si gioca
la partita, nelle periferie metropolitane, tra i migranti, nei ghetti
sociali ed economici dove occorre quanto prima tornarci a sporcare le
mani.
Se
oggi non ci fossero esperienze di governo importanti come quella
venezuelana o boliviana, le realtà anticapitaliste occidentali non
avrebbero proprio di che parlare, visto che sono le uniche ad aver
portato a casa risultati concreti, soprattutto per quanto riguarda il
cambiamento delle relazioni di potere a livello politico. Inoltre ciò
che accade in America Latina ci riguarda direttamente; Potere al popolo
deve essere internazionalista non per vocazione o per rispetto a una
tradizione, ma perché c’è sempre una relazione dialettica tra il piano
nazionale e internazionale, anche per quanto riguarda la costruzione di
un soggetto popolare ancora piccolo come il nostro. Come ti posizioni
sulle questioni internazionali, non solo a livello europeo, ti definisce
come soggetto sul piano nazionale.
Hai vissuto a lungo, partecipato e fatto un ottimo lavoro informativo su Paesi Baschi. Proprio la sinistra abertzale
è stata una delle prime a porre nettamente il tema della critica
dell’edificio politico-sociale dell’Unione Europea e la necessità
dell’uscita dalla NATO, come prospettiva strategica in cui collocare il
proprio operato a vari livelli. Cosa ha ancora oggi da insegnarci quella
esperienza che ha fatto dell’internazionalismo uno degli assi centrali
del proprio agire?
Sì,
ho avuto la fortuna di poter vivere e studiare per tre anni a Bilbao.
Posso anche dire che è lì dove si è veramente creata la mia coscienza
politica e dove ho fatto esperienza; anche per questo prima di Potere al
Popolo non ero appartenente a nessuna organizzazione o sigla politica.
Così come per l’America Latina, anche quello sui Paesi Baschi è un
discorso molto complesso e delicato.
Senza
entrare nello specifico e nell’analisi del momento storico, mi vengono
in mente due cose al volo: la prima è che anche lì la sinistra ha perso
moltissimo il contatto e radicamento nella società, il che dimostra come
il problema sia globale e non solo italiano; la seconda è che nei Paesi
Baschi il movimento popolare riesce comunque a resistere ed esistere,
questo soprattutto perché hanno sviluppato una fortissima capacità
organizzativa che tiene unito il piano politico generale con le tante
esperienze di autogestione e potere popolare che esistono.
Attualmente,
visto che la sinistra indipendentista non riesce più a svolgere un
ruolo di direzione e avanguardia, anche lì si corre un rischio di
disgregazione e frammentazione politica. Di certo, se c’è una cosa che
possono insegnarci i Paesi Baschi è che l’unità è già una piccola
rivoluzione, che bisogna sentirsi parte di una comunità per dare
veramente anima e corpo a una causa, e che questo è impossibile senza
un’organizzazione unitaria che faccia della diversità una ricchezza e
non un ostacolo.
Una
ultima domanda riguarda la tua, vostra, esperienza di militante di base
a San Basilio attraverso la costruzione della scuola popolare di
quartiere e in generale le esperienze di lotta condotte in quel
quartiere ricco di una storia sociale viva che continua nella resistenza
quotidiana dei suoi abitanti e dell’attività condotta dalla Federazione
del Sociale dell’Unione Sindacale di Base, in particolare da Asia. Cosa
pensi sia possibile mutuare di dell’attività declinandola nel
territorio in cui ti candidi e nella costruizione territoriale di Palp,
coniugando il conflitto al mutualismo nella cornice politica della
rappresentanza?
San
Basilio è ubicato proprio al confine con il terzo municipio, si può
dire che non è nello stesso municipio ma noi ci sentiamo parte della
stessa zona di Roma. È un quartiere molto particolare, dove sin dalla
sua nascita si è strappato diritti e dignità. Purtroppo, come tanti
altri quartieri di Roma, oggi soffre il vuoto di valori e di cultura
provocato dalla società consumista e dalla mancanza di un’alternativa a
questo mondo. Ma è proprio in quel vuoto di valori e di cultura che si
gioca il destino di una rinascita culturale e politica a Roma come in
Italia.
Senza
un’alternativa, dalla povertà (che per me non è una cosa meramente
materiale) nasce illegalità e criminalità. Così San Basilio è dipinto
come “la nuova Scampia”. La risposta che danno a questa situazione la
destra e i “paladini della legalità” è Polizia, carcere e repressione.
In altri termini rinunciano ad affrontare la causa del problema, che non
è semplicemente la mancanza di lavoro e di reddito, ma la crescente
disuguaglianza economica che sta distruggendo l’Italia. Noi invece
abbiamo il compito di stare in quei quartieri, di rilevarne la bellezza e
la ricchezza, perché ce ne è veramente tanta, e di trasformarla in
forza politica.
Se
noi vogliamo ricreare un fronte popolare, in prima fila – accanto a un
dottorando in Scienze Politiche – ci deve essere una mamma di San
Basilio che manda avanti tre figli senza nessun aiuto dallo Stato, e che
magari oggi vota il movimento 5 stelle. A Roma, senza radicamento e
partecipazione nei quartieri popolari, poco ce ne facciamo di un
programma più radicale o più a sinistra degli altri, che resta carta
straccia. Quei quartieri popolari dove più forti ed esplosive sono le
contraddizioni del nostro modo di vita, dove regna l’egoismo, il
maschilismo, il menefreghismo, la violenza verso il diverso, ma dove
resiste anche un forte senso di solidarietà e di comunità che è nostro
compito far germogliare e sbocciare.
Per
questo è necessario unire i tanti spazi di mutualismo che già portiamo
avanti e crearne di nuovi, per portare cooperazione e unità sociale dove
oggi c’è disgregazione e competizione. Partendo dai territori, senza
però mai rinunciare all’organizzazione e a una ipotesi rivoluzionaria,
senza la quale ci spegniamo e perdiamo l’entusiasmo di cui abbiamo
bisogno.
Chiudo
citando uno storico militante della sinistra basca, Periko Solabarria,
venuto a mancare tre anni fa, che ricordava sempre come se si vogliono
cambiare veramente le cose “non serve passeggiare sui tappeti rossi,
bisogna calpestare il fango, perché è qui che possiamo lasciare
l’impronta”.
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