F.Q. Silvia Bia
L’eredità della legge
Quarant’anni dopo l’approvazione della legge 180, gli ospedali psichiatrici sono stati sostituiti da centri di salute mentale, strutture residenziali psichiatriche, residenze per le misure di sicurezza (Rems) o progetti di sostegno alla persona e assistenza domiciliare. Anche se la differenza, nell’efficienza o meno dei servizi per i malati psichici, l’hanno fatta i governi delle regioni. “Non è vero, come molti dicono, che la legge non ha funzionato – commenta Pivetta – Dove c’è stata una volontà politica di chi governava, la legge ha operato in modo positivo”. Casi virtuosi sono quelli del Friuli Venezia Giulia, tra Gorizia e Trieste, dove sono rimaste più vive le tracce del lavoro di Basaglia, ma anche dell’Emilia Romagna, con realtà come quelle sperimentate grazie all’impegno di Tommasini, e della Lombardia, con progetti che coinvolgono associazioni e famiglie dei malati. “La cosa più importante è che prima di Basaglia i malati venivano segregati in luoghi nascosti, ma anche emarginati culturalmente perché il matto era qualcosa da nascondere e occultare – continua Pivetta – Basaglia ha ridato ai malati il diritto di essere persone all’interno della società”.
Opg e Rems, problema ancora aperto
Un altro grande traguardo nella cura del disagio mentale è stato raggiunto, pochi anni fa, con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture in cui soggetti affetti da disturbi mentali con alle spalle reati penali, erano sottoposti a una misura di sicurezza. Il cambiamento, sancito dalla legge 81 del 2014, attuata nel 2015, ha portato alla dismissione delle strutture. Al loro posto sono state costituite le Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza gestite dalla sanità territoriale in collaborazione con il ministero di Giustizia, che oggi ospitano circa 600 pazienti con misure provvisorie e definitive. Il problema però è che il sistema presenta ancora delle falle. Secondo il quattordicesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione di marzo 2018, a preoccupare sono il numero di pazienti in misura di sicurezza provvisoria e le “liste d’attesa” di quanti dovrebbero entrare nelle Rems. Nelle 30 strutture italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9 per cento, quasi il doppio delle donne detenute in carcere), numeri che corrispondono ai posti disponibili. “Eppure – si legge nel rapporto – le liste di attesa esistono e sono piuttosto affollate”, e l’attesa solitamente trascorre in carcere. Nel 2017 a livello nazionale i detenuti in “coda” erano 289, oggi in Lombardia c’è una lista di attesa di 8 persone, in Piemonte di 13 (di cui 4 “attendono” in carcere) e in Campania di 44 (di cui 18 in carcere). “C’è la tendenza a utilizzare le Rems come ‘discarica sociale’ – spiega a ilfattoquotidiano.it Vincenzo Scalia di Antigone – In più molti operatori giudiziari agiscono come se esistessero ancora gli ospedali giudiziari, come se le Rems fossero dei sostituti, quando invece non dovrebbe essere così”.
Altro aspetto critico è che rispetto all’anno precedente, i pazienti delle Rems con una misura di sicurezza provvisoria e in attesa di sentenza definitiva, che dovrebbero rappresentare un’eccezione, sono aumentati del 22 per cento, per un totale di 274, ovvero quasi la metà del totale degli ospiti delle strutture. Dall’altra parte invece i prosciolti per vizio totale di mente ma socialmente pericolosi, sono solo 215, pari al 37 per cento del totale. Il problema è dovuto alla lentezza della macchina giudiziaria e anche all’ambiguita di certe situazioni. “Nelle Rems finiscono anche persone con problemi di tossicodipendenza o di salute – continua Scalia – Per questo sarebbe necessario rimarcare i confini tra disagio psichico e situazione penitenziaria.”
Infine, sbilanciato secondo Antigone è anche il saldo tra ingressi e dimissioni. Nel 2017 sono entrate nel circuito Rems 46 persone in più di quelle che sono uscite. Tra gli ingressi, il 26 per cento delle persone provenivano dal carcere, a conferma, scrive Antigone, di una connessione tra la questione penitenziaria e la questione Rems. Sul fronte delle dimissioni invece, più della metà dei casi, ovvero 180, sono state in realtà trasformazioni da misura di sicurezza detentiva a misura di sicurezza non detentiva, nelle forme della libertà vigilata. “Questo significa – conclude il rapporto – che buona parte di chi esce dalla Rems continua ad essere sottoposto a un controllo istituzionale”. Altro problema è che mancano le risorse a livello territoriale per la gestione: “Il sistema delle Rems funziona ed è un passo positivo – conclude Scalia – ma bisognerebbe investire sui servizi del territorio per superare il limbo tra carcere e ospedalizzazione”.
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