Giancarlo
Cerini e Mariella Spinosi hanno curato un libricino apparentemente
tecnico, ma invece denso e profondo, per raccogliere e riassumere le
novità normative nel campo della valutazione scolastica. Il libro si
intitola: Un’ancora per la valutazione. Nuovo quadro normativo e indicazioni operative
(Tecnodid 2017), e contiene contributi di alcuni tra i più attenti e
aggiornati ricercatori in materia didattica, come Mario Castoldi e Paola
Serafin.
Il
libro si lascia apprezzare perché, pur essendo sostanzialmente un
manualetto utile alla consultazione e destinato prevalentemente agli
addetti del settore, è costretto dalla circostanza storica a scontrarsi
con un problema politico, non ancora sufficientemente compreso dalla
popolazione, e paradossalmente neanche dal mondo della scuola. A partire
da quest’anno, e in virtù di un semplice decreto legislativo (il n.62
del 2017), l’istituto di ricerca INVALSI, incaricato fino a oggi di
compiere delle rilevazioni statistiche sugli apprendimenti scolastici,
gestirà in completa autonomia una parte della valutazione scolastica,
che andrà a integrare le certificazioni in uscita, con una sorta di
attestazione parallela, rispetto alla quale gli insegnanti non avranno
alcuna voce in capitolo, e che sarà reputata come “oggettiva”,
distinguendosi in tal mondo (parrebbe implicitamente suggerito
dall’operazione) dall’inaffidabile arbitrarietà valutativa dei docenti.
Tale processo è implementato, nella scuola secondaria di primo grado,
scorporando la somministrazione delle prove INVALSI dall’esame di Stato,
e anticipandole in primavera.
Secondo
una logica complementare, il vecchio esame di terza media è gestito da
personale interno, e le commissioni d’esame sono presiedute dal
dirigente scolastico. Il Ministero dunque non sembra aver più bisogno di
inviare presidenti o commissari esterni per garantire l’effettivo
rispetto del diritto allo studio in tutte le scuole. Il personale
interno potrà raccontare ciò che vuole. L’INVALSI provvederà a mettere
un punto chiaro sull’effettiva capacità performativa della scuola. Ho
già ampiamente analizzato in una articolo pubblicato su Micromega (4 aprile 2018) quelli che mi paiono i rischi di tale evoluzione.
Tuttavia
mi fa piacere riscontrare come anche in alcuni tra i più autorevoli
esperti in materia di valutazione e didattica contemporanea, emergano
perplessità analoghe alle mie. Una persona intellettualmente onesta non
può esimersi dal sollevare quanto meno qualche timido dubbio su quanto
sta avvenendo. Rispetto a questa novità, ad esempio, Giancarlo Cerini
(ispettore MIUR ed esperto in didattica e formazione) non esita ad
avvertire che una tale attribuzione di funzione all’INVALSI “riserva
qualche incognita” (p. 20), evidenziando i possibili “effetti
collaterali negativi”:
“si pensi all’effetto alone delle prove (cioè al sopravvalutarne il ‘peso’), preoccupazione che spesso determina comportamenti opportunistici nelle scuole (il cd. cheating) o invita i docenti al “teaching to the test” […] La somministrazione censuaria delle prove è opportuna perché consente ad ogni scuola di disporre di informazioni preziose sugli apprendimenti, che però dovranno essere utilizzate con molta cautela, salvaguardando il loro valore conoscitivo e formativo” (p. 21)
In
cosa potrebbe consistere questa cautela? Certamente non ha nulla a che
fare con l’idea di un affiancamento (che è già diventato sostitutivo
nell’opinione pubblica, basti pensare alle brochure delle scuole
dove si promettono brillanti risultati alle prove INVALSI) di una
certificazione parallela a quella dei consigli di classe.
Anche
Maria Teresa Stancarone (dirigente scolastica e saggista), nel suo
contributo, manifesta analoghe preoccupazioni, poiché evidentemente
quelle prove standardizzate “diventano una pietra di paragone
delle attività e dei risultati scolastici”, e “non sarà difficile,
infatti, che si evidenzino varianze tra i livelli conseguiti nelle prove
INVALSI e quelli raggiunti dagli alunni nelle prove interne predisposte
dalla scuola, e non necessariamente a vantaggio, in termini di
risultati raggiunti, di queste ultime” (p. 32).
Il
paradosso è che il MIUR per un verso sembra valorizzare il ruolo della
funzione docente nel processo di valutazione, come leggiamo nella nota
1865/2017: “considerata la funzione formativa di accompagnamento dei
processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo, il
collegio dei docenti esplicita la corrispondenza tra le votazioni in
decimi e i diversi livelli di apprendimento” (p. 34). Ma dall’altro
produce dei modelli di certificazione vincolanti alle otto competenze
chiave europee, con tanto di descrizione pre-impostata dei livelli di
padronanza, e soprattutto assegna a un Istituto esterno il compito di
garantire la presunta “oggettività” dei risultati.
Tuttavia
l’analisi più chiara nell’esplicitazione delle finalità del decreto
legislativo 62/2017 è fornita da Paola Serafin (CISL scuola), la quale –
lasciando scivolare la questione in un periodo ipotetico per non
sbilanciarsi troppo – ne riassume così il senso: la valutazione parrebbe
essere per un verso “considerata un compito esclusivamente affidato
agli insegnanti e ai consigli di classe”, per altro derivata da “un
intervento esterno di altri soggetti istituzionali” (p. 142). Siamo di
fronte dunque all’introduzione di un doppio canale. Faccio notare, per
inciso, che forse per una questione così profondamente innovativa e
capace di ridisegnare completamente il rapporto tra scuola e società,
sarebbe stato necessario non solo un ampio dibattito parlamentare, ma
anche una discussione pubblica.
Ad
ogni modo, avverte la Serafin, “si potrebbe avere l’effetto di una
ridefinizione dell’autonomia scolastica e dello stesso profilo
professionale dei docenti, i quali comunque saranno chiamati a
ricostruire, almeno per una parte del curricolo, scenari di coerenza tra
la valutazione scolastica e la descrizione dei livelli di apprendimento
operata dall’INVALSI, tra personalizzazione e standard. Le
informazioni fornite dai consigli di classe e dall’INVALSI rimangono
infatti formalmente separate mentre prima trovavano una sintesi ed una
possibile armonizzazione in sede di consiglio di classe” (p. 144).
Evidentemente,
aggiunge la Serafin, la difficoltà sarà costituita dal processo di
comunicazione con le famiglie, che andrà curato nei dettagli, perché
gran parte di esse – e, come purtroppo ho constatato personalmente,
anche parte importante degli insegnanti – considereranno gli esiti delle
prove standardizzate capaci di comunicare una “verità” neutrale, anche e
soprattutto se in contraddizione con le valutazioni emerse dal rapporto
pedagogico docente-discente.
Nessun commento:
Posta un commento