Pensare significa usare parole che corrispondono socialmente e storicamente a
oggetti, eventi, fenomeni, per analizzare queste “cose” ed
eventualmente decidere come interagire con esse.
Insomma: decideremo di fare cose attendendoci certi risultati e verremo “sorpresi” da conseguenze assolutamente impreviste.
Nulla come la parola “sinistra” risulta ormai consumato, svuotato, irritante. Non solo e non tanto alle orecchie di chi si sente radicalmente alternativo al sistema dominante, quanto alle sterminate folle che costituiscono da sempre il “blocco sociale” che un tempo trovava nella “sinistra” il proprio referente politico.
In realtà questa parola ha un’origine banalmente geografico-istituzionale: i primi eletti in liste anarchiche, socialiste, comuniste, un po’ in tutto il mondo, presero a sedersi nei Parlamenti o nei consigli locali sugli scranni posti alla sinistra dalla presidenza. Per opposizione ai rappresentanti del capitale, che sedevano normalmente a destra. Di qui la convenzione di definire “sinistra” qualsiasi formazione politica avesse come base sociale i lavoratori e i poveri, presentando un programma di miglioramento delle loro condizioni; dalla più timida delle “riforme” alla più radicale delle rivoluzioni.
Di qui anche l’abitudine a istituire una sorta di “continuità” non troppo contraddittoria tra una formazione e l’altra, dalla più moderata alla più radicale, anche a dispetto dei numerosi episodi storici in cui “riformisti” e rivoluzionari si sono affrontati armi in pugno. Fatti che avrebbero dovuto impedire per sempre di etichettare con lo stesso sintagma visioni politiche e prassi sociali di fatto opposte (l’esempio più famoso resta legato alla prima guerra mondiale, con i socialisti di tutti i paesi che votano i crediti di guerra, schierandosi a difesa della classe dominante nazionale, mentre i comunisti davano vita a una nuova Internazionale rivoluzionaria).
Nel secondo dopoguerra, un po’ ovunque, si riprese a definire con lo stesso termine, “sinistra”, entrambi i campi – e l’articolata matassa delle formazioni intermedie tra le estreme – seppellendo, senza dirlo, le vecchie e sanguinose contrapposizioni. Sembrava una cosa intelligente, che permetteva di “allargare il campo” orizzontalmente – più partiti nello stesso contenitore – mentre con il radicamento sociale si cercava di allargarlo “al popolo”.
Naturalmente, la dinamica “diplomatica” tra partiti geograficamente “contigui” prese lentamente il sopravvento, limando le asperità programmatiche, ideali, concettuali per non compromettere una sempre possibile – e quasi mai raggiunta – “unità a sinistra”.
Col tempo, gli slittamenti progressivi da una posizione radicale e una assai più accomodante (dal comunismo alla socialdemocrazia, detta con le parole d’allora) poterono essere presentati come prese d’atto dei “cambiamenti”, cui si rispondeva adeguando una impostazione senza tuttavia esser identificati come “traditori” di quella antica.
Dopo la caduta del Muro e dell’Urss (1989 e 1991) sotto la parola “sinistra” avvennero velocissime giravolte – particolarmente drastica quella del Pci italiano, approdato al liberalismo senza neppure una discussione interna – che alla fine hanno prodotto un panorama completamente diverso. L’unico elemento di continuità erano i nomi e le facce (in Italia, D’Alema, Veltroni, Fassino, Napolitano, Bersani, ecc).
Programmi politici e referente sociale erano invece completamente diversi; ma sul piano elettorale mantenere quella continuità assicurava lo sfruttamento di un bacino elettorale pari, storicamente, a circa il 40% dei votanti.
Naturalmente, con il cambiamento di referente sociale cambia anche la “carta dei valori” che identifica “la sinistra”. Via le vecchie garanzie sociali per lavoratori et similia, dentro le “libertà civili”. Oggi dovremmo aver tutti compreso che le prime sono una forma di redistribuzione della ricchezza prodotta tra le varie classi sociali, mentre le seconde sono semplicemente l’accettazione non contraddittoria (ossia non più perseguita penalmente) di comportamenti individuali che non intaccano minimamente né “il sistema”, né la distribuzione del reddito.
E arriviamo all’oggi. Dopo che la scalata renziana al Pd ha scalzato anche la “continuità delle facce”, costringendo i vecchi tromboni neoliberisti ad andarsene; dopo che la “sinistra radicale” si è frammentata in cento pezzettini rigorosamente incompatibili fra loro fino al giorno prima delle elezioni (e solo per il tempo delle elezioni), quale senso può mai avere la parola “sinistra”?
Solo uno: confondere le idee. In questo momento, infatti, nel parlamento italiano questa definizione spetterebbe al Pd (vedi l’orrido elenco qui di fianco), con sulla schiena LeU (per quante settimane ancora “unita”?), e in parte persino al movimento Cinque Stelle. Se non altro per opposizione al centrodestra. Già Scalfari, glottologo ufficiale di tutte le operazioni politiche sballate, li definisce tali.
Una singolare ironia della storia, per una formazione cresciuta ripetendo di essere “né di destra né di sinistra”.
Conclusione. E’ vietato usare quella parola, anche nelle nostre discussioni private. E’ ottundente, istupidente, ridicola, deviante. Obbliga ad accompagnarla con una lunga serie di aggettivi altrettanto insignificanti (specie tra i non addetti ai lavori) e non qualificanti alcunché. Per esempio: una persona di media informazione – che si abbevera ai tg e a qualche quotidiano mainstream – è costretta a barcamenarsi tra messaggi che definiscono “di sinistra” sia la riforma Fornero, sia la richiesta della sua abolizione, l’introduzione del Jobs Act e la richiesta di ripristinare la non licenziabilità (art. 18), partecipare a tutte le missioni militari Nato e l’obiettivo di uscire da questa alleanza, la riforma contro-costituzionale bocciata il 4 dicembre 2016 e la battaglia per affossarla, ecc.
E’ insomma diventato un termine-segnale che impedisce di identificare con chiarezza il fossato che divide interessi popolari e interessi capitalistici, sfruttati e sfruttatori…
Se proprio occorre autodefinirsi in modo “inclusivo” – oltre, insomma, la classica e quasi intimistica qualifica di comunisti – ci si identifichi almeno indicando la o le classi da cui proveniamo e con cui stiamo lottando per rovesciare tutto.
Potere al Popolo, in questo senso, ha fatto un passo nella giusta direzione. Vi sembra un po’ troppo lungo? Beh, per chi è nostalgico delle sigle asciutte stile anni ‘70, si può suggerire una sintesi… Chessò, PotAp.
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