M5s non sarebbe contrario all'appoggio esterno di Fi. In extrema ratio, ok anche a un nome leghista gradito.
"Va bene Luigi, ma devo parlarne con gli
altri". È l'ora di pranzo. Luigi Di Maio si sta preparando a prendere un
taxi, direzione via Teulada, dove a In mezz'ora renderà pubblica
l'ultima mossa per evitare la ridotta dell'opposizione e la richiesta
delle urne. La posizione di Matteo Salvini, in attesa del vertice di
Arcore, è interlocutoria. Solo a sera i contorni della risposta verranno
definiti.
Definita la risposta, occorre dare i contorni l'offerta. Il capo
politico 5 stelle mette sul piatto un suo passo di lato. Sì a un premier
terzo. Non un tecnico, ma un nome politico che sia un punto di caduta
delle esigenze del Movimento 5 stelle e della Lega. Non fa nomi, non
mette in campo ipotesi. Su RaiTre spiega che "è l'ultimo dei problemi se
si tratta di un nome nostro o di uno loro". È un "sediamoci al tavolo a
trattare". La war room stellata fa capire qualcosa in più. Vale a dire
che se occorresse, il Movimento sarebbe disponibile in extrema ratio a
dare il via libera anche a un nome del Carroccio, purché l'esecutivo si
impegni a rispettare almeno una parte del governo 5 stelle ("Reddito di
cittadinanza, abolizione della legge Fornero e legge anticorruzione",
quelli esplicitati).
Un Giancarlo Giorgetti, per intenderci. Sempre nell'ottica, spiega il leader, "di un premier condiviso nell'ambito di un contratto di governo".
Ci sono ulteriori dettagli. I vertici 5 stelle continuano nel niet a
Silvio Berlusconi: "Non lo reggiamo, non riusciremo a spiegarlo ai
nostri militanti, ai nostri elettori. È anche una questione etica,
morale". Ma rispunta il teorema già esplicitato dopo le consultazioni
con Elisabetta Casellati. Qualora i forzisti decidessero di votare sì a
un eventuale governo gialloverde, non sarebbero gli uomini di Di Maio a
mettersi di traverso. "Saremmo comunque autosufficienti – spiegano – gli
altri possono fare quelli che vogliono". Sì a un appoggio esterno,
insomma, senza tuttavia chiamarlo tale.
Sì perché la proposta dell'ex delfino di Beppe Grillo prevede un vero
e proprio governo politico fra le due forze politiche.
Con ministri che siano espressione organica delle due forze politiche. Con i leader che se ne terrebbero fuori, garanti dell'intesa e tutori politici del nuovo Consiglio dei ministri.
Se l'articolazione dell'offerta non era mai stata così dettagliata,
Di Maio svela comunque che del suo possibile passo indietro "avevo già
parlato con Salvini tempo fa". Esattamente subito prima di recarsi a
palazzo Giustiniani, allorché la presidente del Senato era stata
incaricata di esplorare possibili intese tra M5s e centrodestra. Era per
la mano tesa e i segnali positivi ricevuti che in quelle ore la truppa
stellata trasudava ottimismo, poi gelata dalla doccia fredda del
ricompattamento dei tre alleati.
Il nodo sta tutto lì. Perché "gli altri" di cui parla il segretario della Lega sono Giorgia Meloni e, soprattutto, Silvio Berlusconi. Che già più d'una volta ha fatto saltare il banco. Per questo ieri nella stanza dei bottoni 5 stelle è stato deciso di rendere pubblico il pezzo d'offerta che riguarda direttamente il ruolo del capo politico. Perché la difficoltà degli ultimi giorni è stata evidente, e si è condensata nella lucidatura di un vecchio armamentario lessicale da barricate e in una un po' goffa richiesta di urne subito.
A prescindere dalle risposte che arriveranno, lunedì al Quirinale verranno prospettate queste uniche due strade: o un governo politico con la Lega, o il voto al più presto possibile.
Il no a qualunque soluzione di governo del presidente (o con formulazioni simili) verrà respinta al mittente. Nell'apertura al Pd il Movimento si sente aver già mostrato la propria disponibilità all'inquilino del Colle più alto d'Italia. Subendo poi una bruciante scottatura – che tuttavia ha tolto un bel po' di castagne dal fuoco – dallo stop ricevuto da Matteo Renzi, sul quale pure erano arrivati segnali inizialmente incoraggianti. "Il governo del presidente non ha i numeri – ha spiegato Di Maio a In mezz'ora – Per noi va bene andare al voto il prima possibile, e le nuove elezioni saranno un vero e proprio ballottaggio".
In caso la situazione precipitasse, per il leader stellato, sarebbe "comodamente il governo Gentiloni a poter rimanere in grado per la gestione degli affari correnti". Dicendosi tuttavia disponibile a votare sì a un cosiddetto decreto legge manovrina che scongiuri l'aumento dell'Iva. Aperture, che fanno il paio con un discorso allarmistico, da qualcuno interpretato come una velata minaccia: "Non sta ancora succedendo ma il rischio che vedo io è un rischio per la democrazia rappresentativa. Io non minaccio nulla ma il rischio di azioni non democratiche può esserci". Un contesto nel quale "noi del Movimento abbiamo fatto passi avanti, ma se continuiamo a ricevere solo due di picche c'è il rischio che una forza politica come la nostra si allontani dalla democrazia rappresentativa".
Un concetto borderline, che prova a sostanziare così: "Le mie posizioni sull'Europa sono note. Ma il referendum che propone Beppe Grillo ha un senso se ci escludono dal governo. È chiaro che a quel punto dovremmo cercare di portare avanti le nostre istanze in altro modo".
È il D-day, lo scontro finale sull'Omaha beach della trattativa di governo. Di Maio è convinto di aver posto sulla spiaggia una testa di ponte ragionevolmente solida. Se verrà ricacciata in mare o supererà il vallo di Arcore, sarà solo la notte a poterlo dire.
Un Giancarlo Giorgetti, per intenderci. Sempre nell'ottica, spiega il leader, "di un premier condiviso nell'ambito di un contratto di governo".
Con ministri che siano espressione organica delle due forze politiche. Con i leader che se ne terrebbero fuori, garanti dell'intesa e tutori politici del nuovo Consiglio dei ministri.
Il nodo sta tutto lì. Perché "gli altri" di cui parla il segretario della Lega sono Giorgia Meloni e, soprattutto, Silvio Berlusconi. Che già più d'una volta ha fatto saltare il banco. Per questo ieri nella stanza dei bottoni 5 stelle è stato deciso di rendere pubblico il pezzo d'offerta che riguarda direttamente il ruolo del capo politico. Perché la difficoltà degli ultimi giorni è stata evidente, e si è condensata nella lucidatura di un vecchio armamentario lessicale da barricate e in una un po' goffa richiesta di urne subito.
A prescindere dalle risposte che arriveranno, lunedì al Quirinale verranno prospettate queste uniche due strade: o un governo politico con la Lega, o il voto al più presto possibile.
Il no a qualunque soluzione di governo del presidente (o con formulazioni simili) verrà respinta al mittente. Nell'apertura al Pd il Movimento si sente aver già mostrato la propria disponibilità all'inquilino del Colle più alto d'Italia. Subendo poi una bruciante scottatura – che tuttavia ha tolto un bel po' di castagne dal fuoco – dallo stop ricevuto da Matteo Renzi, sul quale pure erano arrivati segnali inizialmente incoraggianti. "Il governo del presidente non ha i numeri – ha spiegato Di Maio a In mezz'ora – Per noi va bene andare al voto il prima possibile, e le nuove elezioni saranno un vero e proprio ballottaggio".
In caso la situazione precipitasse, per il leader stellato, sarebbe "comodamente il governo Gentiloni a poter rimanere in grado per la gestione degli affari correnti". Dicendosi tuttavia disponibile a votare sì a un cosiddetto decreto legge manovrina che scongiuri l'aumento dell'Iva. Aperture, che fanno il paio con un discorso allarmistico, da qualcuno interpretato come una velata minaccia: "Non sta ancora succedendo ma il rischio che vedo io è un rischio per la democrazia rappresentativa. Io non minaccio nulla ma il rischio di azioni non democratiche può esserci". Un contesto nel quale "noi del Movimento abbiamo fatto passi avanti, ma se continuiamo a ricevere solo due di picche c'è il rischio che una forza politica come la nostra si allontani dalla democrazia rappresentativa".
Un concetto borderline, che prova a sostanziare così: "Le mie posizioni sull'Europa sono note. Ma il referendum che propone Beppe Grillo ha un senso se ci escludono dal governo. È chiaro che a quel punto dovremmo cercare di portare avanti le nostre istanze in altro modo".
È il D-day, lo scontro finale sull'Omaha beach della trattativa di governo. Di Maio è convinto di aver posto sulla spiaggia una testa di ponte ragionevolmente solida. Se verrà ricacciata in mare o supererà il vallo di Arcore, sarà solo la notte a poterlo dire.
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