Nel contratto di governo di Cinque stelle e Lega, anche se non mancano parti in cui si fornisce l’impressione di volere realizzare tutt’altro, la riforma dell’ordine economico in senso neoliberale si combina con il proposito di rendere l’ordine politico più autoritario e insensibile alle istanze democratiche.
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micromega Alessandro Somma
Poteva essere la volta buona per trarre le dovute conseguenze dalla
constatazione che l’Unione europea è irriformabile: che da tempo è una
prigione fatta di austerità e culto per il mercato, dalla quale si può
solo evadere se non altro per coltivare la speranza di ricostruire un
giorno un’Europa democratica, motore di giustizia sociale. E invece ci
troviamo di fronte all’ennesima montagna che ha partorito il topolino,
che non metterà in discussione le istituzioni a cui dobbiamo una
disciplina delle libertà economiche di matrice neoliberale, e che anzi
affiancherà loro una riforma in senso autoritario delle libertà
politiche. Contribuendo così a realizzare quella commistione di sostegni
alla modernità capitalista e promozione di valori premoderni destinati a
ricomporre il conflitto sociale prodotto da quella modernità, che
possiamo definire in termini di Stato di polizia (economica): lo schema
che in buona costanza ha rappresentato l’intima essenza del regime
fascista.
Questo si ricava dalla lettura del contratto di governo che Cinque stelle e Lega hanno appena definito,
anche se non mancano le parti in cui si getta fumo negli occhi e si
fornisce l’impressione di volere realizzare tutt’altro. Come in
particolare il punto in cui si afferma di voler “ritornare
all’impostazione pre-Maastricht” quando “gli Stati europei erano mossi
da un genuino intento di pace, fratellanza, cooperazione e solidarietà”,
e di volerlo fare rivedendo la governance europea incarnata da Patto di
stabilità e crescita, Fiscal compact e Fondo Salva-Stati. In effetti
prima di Maastricht si discuteva ancora se incentrare le politiche
economiche europee sulla controllo dell’inflazione o sulla piena
occupazione, e soprattutto si diceva che si sarebbe varata una politica
monetaria comune solo dopo aver deciso quale era l’obiettivo prevalente.
Mentre è con il Trattato di Maastricht che si è adottato l’Euro come
moneta legata a politiche ossessionate dal controllo dell’inflazione,
nel nome delle quali si è imposta l’austerità ai Paesi membri, impedendo
così di perseguire la piena occupazione.
E la piena occupazione, o quantomeno una politica di investimenti
pubblici e sostegno attivo alla domanda interna, costituisce
indubbiamente l’effetto delle misure invocate nel contratto, comunque
opportune e lungimiranti: dai piani di “manutenzione ordinaria e
straordinaria del suolo anche come volano di spesa virtuosa e di
creazione di lavoro”, agli investimenti nella sanità per preservare il
carattere pubblico e il principio universalistico, passando per gli
investimenti nella scuola e nella ricerca anche per “valorizzare i
nostri docenti e ricercatori, assicurando adeguate condizioni
lavorative, superando la precarietà che in questi anni ha coinvolto in
misura sempre maggiore anche il mondo universitario”.
Peraltro questi ed altri buoni propositi sono destinati a restare
tali, se il contrasto delle politiche europee si riduce a quanto viene
poi effettivamente menzionato nel contratto, ovvero la volontà di
chiedere a Bruxelles che la spesa per investimenti pubblici non sia
calcolata ai fini dei limiti di deficit. Salta invece la proposta di
escludere i titoli del debito pubblico acquistati dalla Banca centrale
europea nell’ambito del programma di quantative easing dal calcolo del
debito, presente in una versione precedente del contratto. Il risultato è
che non si mette in discussione la regola per cui gli Stati devono
perseguire politiche di bilancio incompatibili con il proposito di
sostenere la domanda e varare piani di investimenti pubblici. Tanto più
che Pentastellati e Leghisti non hanno manifestato l’intenzione di
impedire l’automatismo previsto dalle clausole di salvaguardia
concordate nel 2011 dal governo Berlusconi: quelle per cui il mancato
raggiungimento degli obiettivi di deficit determina l’aumento dell’Iva
(automatismo per il quale nel 2018 si sono dovuti reperire 15,7
miliardi, mentre se e dovranno trovare 12, 5 miliardi nel 2019 e 19,2
nel 2020).
Ma non è tutto. Un governo che intende promuovere attivamente la
piena occupazione ha bisogno quantomeno di controllare la circolazione
dei capitali, che incentiva l’abbattimento della pressione fiscale e la
svalutazione e la precarizzazione del lavoro: misure tipicamente
adottate per attrarre capitali incompatibili con l’intento di
incrementare la spesa pubblica. Il contratto di governo prevede però una
forte diminuzione della pressione fiscale sulle società, per le quali
si prevedono due scaglioni con aliquote del 15% e 20% (attualmente
l’aliquota è unica ed è fissata al 24%). Abbattimento drastico della
pressione fiscale anche per le persone fisiche: si passa dall’attuale
sistema di cinque scaglioni con aliquote dal 23% al 43%, ad un sistema
di due scaglioni con aliquote del 15% e del 20%. Il tutto condito dalla
favoletta per cui si ottiene così più reddito disponibile per i consumi
e, per effetto della sola riduzione della tasse, minore evasione e
dell’elusione fiscale. Mentre è evidente che il maggior reddito
disponibile non coprirà neppure in parte le maggiori uscite dovute
all’affossamento dell’istruzione e della sanità pubblica, e in genere
del sistema della sicurezza sociale, inevitabile a fronte della
contrazione del gettito fiscale. Tanto più che si vuole cambiare anche
il sistema di detrazioni e deduzioni, che diminuiranno, determinando
così ulteriori cali della capacità di spesa delle famiglie.
Se così stanno le cose, il contratto di governo è destinato ad
essere attuato efficacemente solo nella parte in cui mostra particolare
fervore neoliberale. Ad esempio laddove punta a reintrodurre i voucher,
in barba all’enfasi con cui si richiama la disposizione della
Costituzione italiana in cui “il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza
libera e dignitosa” (art. 36). La sensibilità per le tematiche
lavoristiche è del resto testimoniata dall’assenza di qualsiasi
riferimento al Jobs Act e all’opportunità di invertire la tendenza che
ha accentuato in modo determinante: la distruzione del sistema di tutele
dei lavoratori, alla base della riduzione della relazione di lavoro a
relazione di mercato qualsiasi.
Il tutto coerente con la proposta di istituire un reddito di
cittadinanza, espressione che rappresenta una vera e propria truffa
lessicale. Il reddito di cittadinanza è infatti una erogazione in denaro
destinata a tutti i cittadini, incondizionata e cumulabile con altri
redditi. Quanto si propone nel contratto di governo è invece una forma
di “sostegno al reddito” riservata ai cittadini “in condizioni di
bisogno” per consentire loro di restare appena sopra la soglia del
rischio di povertà. Un sostegno che però “presuppone un impegno attivo
del beneficiario”, tenuto ad “aderire alle offerte di lavoro provenienti
dai centri dell’impiego, con decadenza dal beneficio in caso di rifiuto
allo svolgimento dell’attività lavorativa richiesta”. Si intende cioè
il reddito minimo garantito, trasformato in dispositivo neoliberale che
applica alle persone la logica dell’assistenza finanziaria condizionata
utilizzata in Europa per imporre riforme neoliberali ai Paesi
riluttanti. Un dispositivo non a caso pensato per creare un deposito
mobile di forza lavoro erogabile a comando, soprattutto disposata a
farlo senza produrre conflitto sociale nell’ambito di un sistema
incentrato sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle
perdite (il sedicente reddito di cittadinanza si finanzia con la
fiscalità generale). Un sistema che a tal fine punta all’occupabilità
piuttosto che alla piena occupazione, come si ricava dall’enfasi con cui
si invoca la riforma e il potenziamento dei centri per l’impiego e il
rilancio della formazione continua dei lavoratori. Con ciò trasformando
il sostegno ai consumi e gli investimenti pubblici in un sostegno
dell’ordine economico dato e non certo in uno stimolo all’emancipazione
dei lavoratori.
Come abbiamo detto, la riforma dell’ordine economico in senso
neoliberale si combina alla perfezione con il proposito di rendere
l’ordine politico più autoritario e insensibile alle istanze
democratiche. Lo vediamo nella volontà di riformare la legittima difesa
domiciliare finalmente libera dalle incertezze interpretative “con
riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra
difesa e offesa”: la volontà di consentire l’impunità per chi afferma
con le armi la “inviolabilità della proprietà privata”. Lo vediamo poi
nell’intento di rendere il diritto penale più pesante, invertendo la
tendenza verso la depenalizzazione e l’individuazione di misure premiali
e alternative alla detenzione, a cui peraltro si deve il calo della
recidiva e dunque un contributo fondamentale alla tanto invocata
sicurezza dei cittadini. Lo vediamo quindi nell’annuncio di un piano per
la costruzione di nuove carceri, utili magari per realizzare il
proposito di colpire in modo più deciso i reati tipicamente commessi da
chi versa in strato di bisogno, e ovviamente per assecondare la
criminalizzazione del fenomeno migratorio.
Sono questi i tratti qualificanti dello Stato di polizia
(economica), destinato a sostenere l’avanzata del neoliberalismo, o
meglio a schierare l’Italia nello scontro del momento: quello tra
neoliberalismo globalista, fatto proprio dall’Unione europea, e
neoliberalismo nazionale, che ha trovato in Lega e cinque stelle i suoi
più fervidi sostenitori. Con buona pace di chi pensa che il ritorno ai
confini nazionali sia ineludibile, tuttavia non per alimentare la
lotta tra Stati per la conquista dei mercati internazionali, bensì per
consentire la lotta degli Stati contro i mercati: per il recupero della
sovranità popolare.
(19 maggio 2018)
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