domenica 5 marzo 2017

Per un reddito di cittadinanza si taglino i fondi che le imprese non usano.

Quasi tutti gli economisti concordano ormai che l'economia digitale non sta creando posti di lavoro, tutt'altro.
 
...In attesa che le nuove aziende creino nuova occupazione, non resta che il reddito di cittadinanza o meglio il ''diritto'' di cittadinanza economica. 
 
Direttore Relazioni Esterne Antitrust, fondatore de La Nuova Europa
SOLDI
Robert Solow, già trent'anni fa sosteneva come ''l'età dei computer si può scorgere ovunque tranne che nella crescita della produttività''; oggi molti osservatori gli danno ancora ragione, sottolineando il fatto che se le opportunità possano essere più uguali grazie all'uso del web, non automaticamente tale uguaglianza si trasferisce ai redditi delle attività rese possibili.
Forse li rafforzerà nelle loro convinzioni un caso emblematico: negli stessi giorni in cui i tassisti italiani, dopo quelli parigini, sono scesi in piazza a protestare contro l'avvento delle nuove piattaforme, gli autisti di Uber hanno affollato le strade indiane perché il loro reddito è pressoché dimezzato per l'aumento delle commissioni. La globalizzazione internettiana sembra non far sconti a nessuno e i suoi effetti si dipanano su vecchi e nuovi lavori.


La risposta a questa istanze non può essere una tassa sui robots, che già oggi, grazie all'intelligenza artificiale, sostituiscono i processi mentali come la macchina vapore estese la forza muscolare umana: ci ha provato il Parlamento Europeo senza risultati, come senza esito resterà un'analoga proposta del magnate Bill Gates. Questo genere di rivoluzioni o si vieta o non si ferma. Che fare dunque per affrontare l'emergenza? In attesa che le nuove aziende creino nuova occupazione, non resta che il reddito di cittadinanza o meglio il ''diritto'' di cittadinanza economica.

Il problema e' planetario. Lo staff di Thomas Piketty ha recentemente lanciato l'idea di un assegno mondiale per chi è rimasto sotto i livelli minimi di povertà. Costerebbe 400 miliardi di euro. Una somma immensa per uno Stato, non impossibile per il mondo finanziario parallelo. Esperimenti pilota sono in corso in India, Finlandia, mentre in Cina c'è un sostegno alla povertà rurale e urbana, il Dibao.
In Europa, invece, nessuno ha pensato, nel momento in cui la Commissione guidata da Mario Monti si accinge a rivedere i criteri di Bilancio Ue, di destinare una quota dei 1.000 miliardi complessivi ad una forma di integrazione al reddito per 23 milioni di disoccupati. Nell'Unione c'è il deserto su questo tema e si vorrebbe mantenerla in piedi col voto di chi si ignora. Almeno in Italia, da Matteo Renzi (lavoro di cittadinanza) al Movimento Cinquestelle (reddito di cittadinanza) si confrontano idee alternative per cercare delle risposte alla dittatura del capitale senza lavoro. Il movimento grillino ha l'indubbio merito di averne parlato per primo, redigendo una proposta di legge per un reddito integrato di 9.630 euro annui lordi, che è rimasta ferma in Parlamento in quanto troppo costosa ma soprattutto perché presentata dall'opposizione.
Si dovrebbe ripartire da qui, perché, rivedendo le coperture individuate dal M5S (tagli alle pensioni alte, alla spesa pubblica e tassazione del gioco d'azzardo, per citarne solo alcune), che all'epoca suscitarono molte critiche -l'allora viceministro all'Economia Stefano Fassina disse che una misura del genere sarebbe costata almeno 30 miliardi di euro l'anno - qualcosa si può fare. I soldi non ci sono? Si cerchino soluzioni alternative in un bilancio di spesa pubblica che gravita intorno alla metà dell'intero Pil nazionale.
Per essere operativi lancio un'idea: perché non ripartire dal rapporto di Francesco Giavazzi sugli incentivi alle imprese? Il piano dell'economista fu redatto durante il governo Monti, che lo aveva incaricato commissario speciale proprio per questa materia, ed aveva come obiettivo quello di fare un censimento dei tanti incentivi pubblici alle aziende, individuando quelli che non fossero stati necessari. Giavazzi indicò in 10 miliardi di euro i sostegni statali che, tra stime della Ragioneria Generale, della Commissione Europea, del Ministero dello Sviluppo e dell'Istat, sarebbero potuti essere cancellati senza il minimo danno, anzi generando una crescita nel biennio di un punto e mezzo di Pil (se qualcuno volesse andare a rileggerselo è sul sito della Camera).

Il piano di Giavazzi era di ridurre per un pari importo la pressione fiscale sulle imprese visto che gli stessi imprenditori nella sua ricerca si erano detti per il 74% favorevoli a perdere incentivi agli investimenti, perché comunque li avrebbero fatti lo stesso senza l'aiuto dello stato. Quel documento restò nel cassetto, anche se il Presidente di Confindustria non si disse sfavorevole.
Stabilito che non esistono scorciatoie per la crescita ma che esiste purtuttavia un grande problema sociale, il governo Gentiloni, alla ricerca di fondi per il piano contro le povertà, potrebbe riprendere in mano quel dossier, già nel Def o nella manovra, destinando eventuali risparmi direttamente ai milioni di italiani che sono senza lavoro, senza reddito, senza speranza. Se i sistemi economici, come diceva Solow, non sono in grado di correggere le diseguaglianze, questo compito spetta allo Stato.

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