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martedì 28 marzo 2017
I muscoli del potere, l’intelligenza dei proletari
collettivo militant
Dovremmo essere abbondantemente vaccinati alle provocazioni e alla repressione poliziesca, allo sciacallaggio mediatico e alla criminalizzazione politica, eppure anche stavolta ne usciamo con più domande che soluzioni. Il mese di terrore organizzato da Polizia e ministero degli Interni rimanda direttamente alle giornate di Genova del 2001. Quel movimento di massa sottovalutò i richiami alla guerra dello Stato, e cascò mani e piedi dentro una trappola che scompaginò quel movimento e ne facilitò la dismissione. Anche sabato scorso lo Stato, come sempre nei momenti topici, non ha giocato più alla democrazia, ma ha imposto uno stato di eccezione che è, d’altronde, la sua caratteristica più intima.
La manifestazione contro l’Unione europea era, inequivocabilmente, la manifestazione “degli incidenti”. Nessuno, al di fuori dei partecipanti, capiva bene il senso politico della protesta, mentre tutta la cittadinanza romana (e nazionale) coglieva la natura “pericolosa” di quel corteo, a prescindere dalle ragioni politiche (ma c’erano? O erano solo una scusa per sfasciare vetrine?). Gli abitanti di Testaccio venivano coattivamente intimoriti, convocati in Questura, sobillati dalle spie del regime, con l’unico obiettivo di opporli alla manifestazione stessa. Giornalai al soldo della Questura chiedevano che almeno la fontana di piazza Testaccio venisse salvata dalla furia devastatrice. Centinaia, anzi: migliaia, di black bloc venivano fermati in ogni dove: ai confini nazionali; in altre città; per le vie di Roma; dentro le occupazioni; nascosti nei tombini. Le solite sacche piene di pugnali e maschere antigas venivano ritrovati nei soliti luoghi dalla solita squadra anti-terrorismo.
Una sceneggiatura scritta in partenza insomma, che non ha però impedito la realizzazione di un corteo davvero di massa. L’assenza di scontri – solo e unico obiettivo della selva di giornalai di regime assiepati in ogni anfratto del corteo – costituiva però un pericoloso vulnus al racconto trasversale della lotta alla Ue (che non è altro, nel racconto mediatico, che una scusa per sfasciare vetrine). Bisognava correre tempestivamente ai ripari, ed ecco scattare il fallo di frustrazione: carichiamoli e vediamo che fanno. Questa l’indicazione data repentinamente a fine corteo, quando si stava palesando l’orrore negli occhi del Questore e nei corridoi del Ministero: un corteo contro la Ue, di massa, ma senza scontri. Impossibile, si correva il rischio di far trapelare le ragioni politiche del corteo, svelare la cappa d’insofferenza nei confronti della Ue proprio nel giorno in cui tutto il popolo acclamava quei Trattati al grido di W l’Unione europea, W il liberismo, W Gentiloni.
Ma anche di fronte alla carica preventiva, alla provocazione diretta, il corteo rimaneva saldo nelle sue ragioni, senza cadere nel tranello poliziesco. Il pezzo sul lungotevere rimaneva allibito di fronte ai movimenti delle Forze dell’ordine; la parte che aveva già superato Bocca della Verità si fermava e aspettava, nell’impossibilità materiale di fare altro, il ricongiungimento dei due spezzoni. Questa intelligenza collettiva, mandando in frantumi lo schema politico-mediatico entro cui doveva essere ricondotta la manifestazione, ha stravolto l’intera narrazione del giorno dopo. La mattina seguente, anzi, dai telegiornali della sera, il corteo di fatto veniva oscurato. Gentiloni e Junker brindavano alla Ue, mentre la sinistra compatibile sfilava con Monti e la Camusso ballando il valzer neoliberale. E la lotta all’euroliberismo? Scomparsa. Niente scontri, niente notizia. Mettendoci di fronte a una contraddizione evidente: nessuno dei non addetti ai lavori ha capito le ragioni politiche della manifestazione; se ci fossero stati incidenti, questi avrebbero racchiuso tutta la narrazione sulla manifestazione stessa, oscurando le motivazioni politiche; senza incidenti, il corteo per i media non è mai avvenuto, e le ragioni politiche ugualmente tacitate. Che fare dunque?
Questo terreno, che costringe la mobilitazione allo scontro nel momento in cui lo stabiliscono gli apparati politico repressivi, va rifiutato, così come va rifiutato ogni sterile pacifismo che, lo abbiamo testato direttamente sabato, è funzionale alla scomparsa delle ragioni della lotta politica. Non ci sono risposte semplici per questo apparente vicolo cieco. La manifestazione come momento topico in cui tenere dentro tutte le ragioni e le prassi conflittuali non funziona più, perché è esattamente il terreno pensato dal potere per annullare ogni legittimità politica della stessa: è lì che ci aspettano insomma, ed è lì che dovremmo stravolgere il canovaccio già scritto dalla Questura. Allo stesso tempo, momenti di convergenza unitaria e nazionale servono e serviranno sempre, per raccogliere consensi e dare a tutti la possibilità di solidarizzare attivamente con le ragioni della manifestazione. Non se ne esce facilmente e, soprattutto, non se ne uscirà una volta per tutte con la “soluzione” al problema. Ci sembra che gli attuali rapporti di forza non ci consentono di tenere dentro nello stesso momento partecipazione, solidarietà popolare e conflittualità militante. Almeno non a livello nazionale e unitario, laddove l’obiettivo principale è quello di raccogliere consensi attorno a una lotta, generalizzarla, e non restringerla fra le ristrette cerchie di militanti. Soprattutto nel caso di un terreno, quello della lotta alla Ue, ancora percepito come “troppo politico” e quindi socialmente poco convincente.
La strada intrapresa sabato ci sembra una strada intelligente e proficua, che però non basta alle ragioni di questa lotta. Da qui dovremmo ripartire, se la voglia e l’interesse collettivo sosterrà i nostri ragionamenti.
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