La strategia di Lisbona è un programma di riforme economiche approvato dai Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea nel 2000, il cui obiettivo dichiarato era quello di fare dell'Unione la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010.
MARINA BOSCAINO
Si può certamente sostenere che molti – da allora – si sono illusi, e per lungo tempo, che l’enfasi fosse sul termine conoscenza. In realtà, come ha dimostrato il percorso normativo del nostro, come della maggior parte dei sistemi di istruzione europei, la centralità è stata solo ed esclusivamente dell’economia. E dell’economia di mercato e di dominio della finanza, per giunta. Tutto ciò non stupisce, a distanza di 17 anni e con l’esperienza del tempo trascorso, se soprattutto si leggono in chiave critica i due aggettivi: competitiva e dinamica. Connotazioni che hanno uniformemente e strategicamente accompagnato il pensiero main stream.È d’obbligo premettere che prima del trattato di Maastricht l’Unione Europea non sembrava affatto interessata alla scuola e ai sistemi educativi: ad eccezione dell’istruzione professionale, la scuola era interamente governata dalla competenza esclusiva degli stati membri. L’accelerazione si compie con l’articolo 149 dell’Atto Unico europeo «La Comunità contribuisce allo sviluppo di una educazione di qualità » ma in ogni modo « rispettando a pieno la responsabilità degli Stati membri quanto al contenuto dell’insegnamento e all’organizzazione del sistema educativo » e con la ratifica del trattato di Maastricht, del 1992. Il “contributo” della allora Comunità Europea, in realtà, come è di tutta evidenza oggi, non è minimamente stato tale.
Si è trattato, invece, non solo di un’ingerenza, ma di una pervicace, intenzionale realizzazione di un progetto politico culturale – che ha presto assunto la fisionomia del diktat - di concretizzazione di quella che sarebbe stata – sui sistemi educativi, come sulla maggior parte dei settori dello stato sociale - la più violenta e pericolosa ideologia degli ultimi decenni: il Neoliberismo.
La giustapposizione sistematica di una logica di profitto declinata – per sua stessa natura - non più sul principio di efficacia, ma di efficienza; la sostituzione della centralità dei diritti (le Costituzioni) con la centralità della tutela della libera concorrenza e del profitto (i trattati): un simile cambiamento – che configura una vera e propria rivoluzione culturale ed ideologica – ha fatto sì che quella comunità giuridica che ha per scopo il funzionamento del mercato, quale l’Unione Europea si è progressivamente dimostrata, sia diventata l’organismo orientatore e decisore dei destini delle condizioni individuali e collettive del Vecchio Continente. E, come tale, concentri il potere decisionale nelle mani di un Consiglio dei Ministri, a fronte di un Parlamento debolissimo.
Scrive Nico Hirtt, nel 2014: “Se si vuole situare la nascita di una politica comune in Europa non è alla Commissione europea, al Consiglio dei ministri e ancora meno al Parlamento europeo che dobbiamo guardare quanto, piuttosto, alla potente lobby padronale della Tavola Rotonda Europea degli industriali, European Table Round (ERT). Creato nel 1983, questo gruppo di pressione riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, come Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa). Il loro lavoro comune consiste nell’analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nel formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici. Alla fine del 1989 un « gruppo di lavoro educazione » dell’ERT pubblica un rapporto intitolato « Educazione e competenza in Europa ». Questo sarà il primo di una lunga serie di documenti ad affermare « l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea » e a perorare « un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi ».
In particolare vi si legge – continua Hirtt - che « l'industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti », e che gli insegnanti hanno « una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto », che « non comprendono i bisogni dell’industria » [ERT 1989]. In conclusione, la lobby padronale suggerisce di « moltiplicare i partenariati tra le scuole (e) le imprese ». Invita gli industriali a « prender parte attiva allo sforzo educativo » e chiede ai responsabili politici « di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione » [ERT 1995].
Non fu dato tempo al tempo (basti pensare l’importanza che nel nostro sistema educativo hanno oggi la Fondazione San Paolo e Treelle, alias Confindustria): con Maastricht si inaugura un impellente bisogno di “armonizzare le politiche di insegnamento in Europa”, decise dalla Commissione Europea. Cambia innanzitutto il linguaggio; ma – come si sa – nomina sunt consequentia rerum; e non a caso la neolingua del didattichese (oltre a fondare un’insostenibile pletora di acronimi (Pof, Pdp, Pei, Pnsd) prende allegramente in prestito parole di ambito anglofono – tra le quali l’evergreen e disastrosissimo competenze, longlife learning, skills – e di quello finanziario (portfolio, crediti, debiti, capitale umano). Usi ad obbedir tacendo, qui da noi le cose sono andate benone e senza troppi sforzi: complice un sedicente centro sinistra, che ha inanellato (nel momento strategico di questo passaggio) una serie di “trionfi”: la legge sull’autonomia (1999 e 2001) e il mercato competitivo tra istituti scolastici; la dirigenza scolastica (2001) e l’inizio del picconamento del principio della libertà di insegnamento e della democrazia scolastica; la legge di parità (2000); la riforma del Titolo V e la conseguente devoluzione dell’istruzione professionale alle regioni (nonostante il principio di unitarietà del sistema scolastico nazionale). Il ministro Fioroni si dedicò, poi, con estremo zelo a distruggere l’impianto pedagogico-didattico della scuola italiana, assumendo acriticamente anche da questo punto di vista ciò che l’Europa chiedeva.
Naturalmente non mancarono preziosi contributi del centro destra: le indimenticabili 3i della Moratti (2003) e la distruzione del tempo pieno e del tempo prolungato; il funambolico Brunetta, con il suo molto bastone e poca carota (tant’è vero che i contratti sono ancora bloccati da quando, nel 2009, promulgava la sua riforma); la Gelmini che, in tandem con Tremonti, si impegnò in una riforma scolastica (sic!) lacrime e sangue, ispirata dall’articolo 69 della legge 133/08 dal titolo-dichiarazione di intenti: “Contenimento di spesa nel pubblico impiego”. Intanto, lettere di richiamo dalla Commissione (tra tutte la più plateale, quella che il commissario europeo agli affari economici Olli Rehn scrisse al ministro dell’economia Giulio Tremonti nell’ottobre del 2012, che riservava una particolare attenzione all’Invalsi, alla possibilità di renderlo strumento punitivo per le scuole e alle strategie per “migliorare ed espandere la competitività tra le università”). E’ innegabile, però, che il colpo di grazia, il goal più clamoroso siano stati la Buona Scuola e i suoi decreti attuativi: il PD renziano (caratterizzato da un’innata osmosi con i poteri forti) ha impresso un colpo decisivo alla trasfigurazione della scuola della Costituzione, rispondendo ancora alle richieste di quell’Europa che, come un insaziabile Minotauro, ha ottenuto finalmente ciò che da decenni desiderava e si adoperava a costruire: la scuola pubblica trasformata in un immenso bacino di manovalanza acritica; studenti addestrati alle competenze e dal teaching for testing, avviati ad uno strano tipo di lavoro che chiamano alternanza (non remunerato, non regolato dalla consapevolezza dei diritti e della dignità che il lavoro costruisce), allontanati da studio, riflessione, sapere critico-analitico dalla miriade di eventi che gravitano intorno a questo supermercato della cultura semplificata e banalizzata. Un Paese dei Balocchi (e più ci sono balocchi, possibilmente digitali e conditi di modernità, autoimprenditorialità, culto della performance, più si prevale sul mercato dell’istruzione) che, - come quello di collodiana memoria restituiva ciuchini da carico - così è destinato a fornire la suprema risposta, quella più desiderata dall’Europa dei capitali e non dei popoli: sudditi e non cittadini; lavoratori a chiamata decontrattualizzati; inconsapevoli consumatori dell’epica delle tecnologie digitali e dei social. In cui il personale docente, vincolati da rozze logiche aziendalistiche, è subordinato al ruolo di ripetitore di nozioni-merce (la meno pregiata, peraltro) da spendere svogliatamente in un mondo che ha messo al bando la cultura umanistica (sinonimo, per i nostri decisori politici, di creatività e made in Italy) e in cui non sono più tutti uguali, come dimostra chiaramente la contestatissima delega sull’inclusione scolastica.
E’ impossibile riassumere in un testo breve ciò che – in nome dell’Europa e del pensiero unico del Neoliberismo – è accaduto nella scuola italiana e in quella europea negli ultimi 25 anni. E occorrerà che tutti i partiti che si candideranno a rappresentarci in Parlamento nelle imminenti elezioni abbiano la lealtà di riconsiderare la mistificazione che anche nei loro programmi scuola per la precedente tornata elettorale è stata fatta in merito al mantra Europa. Questa non è l’Europa della speranza di un futuro migliore. Questa non è l’Europa che vogliamo; perché ciò che è accaduto alla scuola pubblica – in virtù della delega in bianco da parte dei popoli a vantaggio dei Governi che l’entrata in Europa ha rappresentato – ha investito ogni aspetto della società e delle nostre esistenze. Questa raffinata organizzazione della borghesia e della finanza europea, in cui, ripeto, l’economia detta le regole al diritto, deve essere fermata.
Comunque la si pensi, la giornata di domani non può lasciarci indifferenti. A Roma – per le celebrazioni dei 60 anni dei primi Trattati comunitari – moltissimi gli eventi, in corso anche mentre scrivo, e diverse manifestazioni. Tra tante, due: il corteo per 'La nostra Europa' è organizzato da una rete molto variegata, che comprende tra gli altri Arci, Wilpf, Baobab Experience, Cgil, Cobas, Mani Tese, Diem25, Rete per la Pace ed organizzazioni studentesche, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, Possibile, Sinistra Europea. Nel suo insieme è un fronte “radicalmente europeista”, per un’Europa credibile progetto comune, “unita, democratica e solidale”, contro la diseguaglianze e le insicurezze causate dalle politiche di austerità e nei confronti dei migranti. Oppure il corteo della 'Piattaforma sociale Eurostop' ha lo slogan "No sociale a Euro, Ue e Nato, per la democrazia e i diritti sociali" e comprende sindacati di base, tra cui USB e Unicobas, centri sociali e movimenti territoriali studenteschi e antirazzisti, No Tav, comitati contro le Trivelle e le Grandi Navi di Venezia, Movimenti per il diritto all'abitare romani. La prospettiva è l’opposizione "all'Unione Europea dei muri e dei confini che è contro la libertà di movimento e di tutela dei diritti": la nascita della UE e l’introduzione dell’euro hanno prodotto un peggioramento netto e diffuso delle condizioni di reddito e di vita dei lavoratori e una restrizione degli spazi di democrazia.
A chi si ponga – anche da diverse prospettive – il problema di ricostruire la cultura e la pratica dei diritti non può sfuggire il fatto che tutta l’elaborazione divergente e alternativa che è stata prodotta per contestare l’evento ufficiale della celebrazione del Trattato di Roma, la tensione conoscitiva e la riflessione sul tema dell’Europa e sulle sue implicazioni in termini di sostenibilità delle esistenze, delle relazioni e delle condizioni sociali (si pensi alle conseguenze della revisione dell’art. 81 della Costituzione e al pareggio di bilancio) hanno prodotto un asse critico che deve diventare cultura e iniziativa politica costante e quotidiana.
Marina Boscaino
(25 marzo 2017)
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