sabato 25 marzo 2017

L’Europa compie sessant’anni: facciamole la festa.

Mentre si celebrano i sessant’anni del Trattato di Roma che avviò l’avventura europea occorre chiedersi se l’Europa, divenuta un Superstato di polizia economica, sia riformabile dall’interno, come sostiene ad esempio Varoufakis. Oppure se – in assenza di conflitto sociale e di un ceto politico disponibile alla disobbedienza istituzionale – sia necessario tornare alla dimensione nazionale per poter ripensare poi l’Unione come costruzione resistente al progetto neoliberale.



micromega Alessandro Somma
Ancora scioccati per l’esito del referendum sulla Brexit, lo scorso settembre i Capi di Stato e di governo dell’Unione europea si sono riuniti a Bratislava per discutere di come recuperare la fiducia dei cittadini scossi da “paure riguardo a migrazione, terrorismo e insicurezza economica e sociale”[1]. Le paure del primo tipo hanno ricevuto un’attenzione particolare, sfociata nell’impegno solenne a evitare “i flussi incontrollati dello scorso anno” e a “ridurre ulteriormente il numero dei migranti irregolari”. Si è subito istituita una guardia costiera europea per contrastare con la forza l’arrivo dei migranti, e deciso di collaborare con i governi più o meno autoritari dei Paesi di provenienza o di transito per impedire le partenze. Il tutto ripreso in occasione di altri vertici, convocati per rafforzare la volontà di rispettare gli accordi con il despota di Ankara e di intensificare i rapporti con Al-Sarraj, Presidente del traballante governo libico di unità nazionale[2].

Anche la volontà di rilanciare la costruzione europea come baluardo per la sicurezza interna ed esterna dei cittadini è stata declinata in modo concreto: si intensificheranno i controlli antiterrorismo e si amplierà la cooperazione in materia di difesa. Più fumose invece le ricette per fronteggiare l’insicurezza sociale ed economica: più fumose e soprattutto più ideologiche. Ci si affiderà ai mercati, che saranno la panacea di tutti i mali nel momento in cui potranno funzionare nel pieno rispetto delle ricette neoliberali: saranno il mercato unico digitale e un ulteriore sviluppo della libera circolazione dei capitali, a produrre sicurezza economica e sociale.

Insomma, il rilancio della costruzione europea è una combinazione di chiusure e aperture: le prime dedicate alle persone, le seconde riservate alle merci e ai capitali. E che questa sia l’unica ricetta che i leader europei sono capaci di partorire, lo testimoniano anche le iniziative intraprese in vista della riunione dei Capi di Stato e di governo, che il 25 marzo si ritroveranno a Roma per festeggiare i sessant’anni del Trattato che prende il nome dalla capitale italiana: il Trattato che avviò l’avventura europea.

Una leader e tre sudditi a Versailles

Il calendario dei festeggiamenti per il compleanno dell’Europa è stato deciso in un vertice tra i leader francese, italiano, spagnolo e tedesco, tenutosi a Versailles il 6 marzo scorso. Il luogo è stato scelto per richiamare il senso della costruzione europea: Versailles è un simbolo di pace perché lì si sono sottoscritti gli accordi che terminarono la prima guerra mondiale, e proprio la volontà di assicurare un futuro di pace ha ispirato la nascita della Comunità economica europea nel 1957.

Si pensava allora che l’integrazione economica potesse produrre unità politica, e per questo l’Europa nacque come mercato comune. Ci si è insomma ispirati al modello dell’Unione doganale tedesca del 1834, una coalizione di oltre trenta Stati che precedette la fondazione dell’Impero tedesco, il Secondo Reich, sorto nel 1871. E del resto, dal punto di vista tedesco, la costruzione europea ha prodotto notevoli risultati: la prosperità della Germania si fonda proprio su quella visione economicista, alla base della moneta unica e del suo utilizzo come leva per costruire, attraverso l’austerità, i successi tedeschi a partire dalle miserie altrui.

Che occorra cambiare passo è dunque evidente a tutti, ma non ai quattro leader incontratisi a Versailles, impegnati a consumare uno dei più patetici e fastidiosi riti della governance europea: il teatrino per cui un gruppo ristretto di Paesi si autorappresenta come avanguardia illuminata, per questo legittimata a indicare il futuro radioso verso cui tutti gli altri devono precipitarsi. Le cose stanno ovviamente in tutt’altro modo, e non solo perché i quattro leader non hanno nulla di illuminato, ma perché tre di loro sono tutt’altro che leader, bensì sudditi capaci al massimo di aspirare a un selfie con chi davvero comanda: Angela Merkel.

François Hollande rappresenta un Paese che in passato ha composto con la Germania l’asse attorno a cui ruotavano le vicende europee. Quel passato, però, è oramai un ricordo sbiadito dal baratro verso cui i parametri di Maastricht stanno precipitando i francesi. Oggi l’asse si limita ad amplificare i desiderata di Berlino, che per Parigi sono ordini indiscutibili, presidiati dall’apparato sanzionatorio europeo sempre pronto a entrare in funzione.

a Spagna di Mariano Rajoi è invece il Paese che simboleggia al meglio i disastri prodotti dall’imperialismo economico della Germania, dal suo atteggiarsi a Minotauro globale al contrario[3]: invece di generare domanda per assorbire le merci prodotte negli altri Paesi, presta soldi a questi ultimi affinché consumino le sue. Salvo poi chiudere i rubinetti in caso di bisogno, come è avvenuto dopo lo scoppio della crisi economica e finanziaria: è questa l’origine del disastro della Spagna, passata da un debito pari a poco più del 35% del pil nel 2007, a quasi il 100% del pil di adesso.

E che dire di Paolo Gentiloni, la pallida e soporifera fotocopia di quel Matteo Renzi tanto bravo a insultare i tedeschi davanti alle telecamere, ma ancora più bravo a chinare il capo di fronte alle richieste più sconce in cambio di qualche offensivo zerovirgola di flessibilità in più. Dobbiamo a questo atteggiamento, se con l’ultimo Documento programmatico di bilancio l’Italia si è impegnata a risparmiare circa 35 miliardi di Euro tra il 2018 e il 2019, ovvero a realizzare tagli inimmaginabili per un Paese in ginocchio come il nostro[4].

Ebbene, al vertice di Versailles i quattro, al netto delle tante parole al vento, più o meno di circostanza, e degli slogan vuoti buoni solo a indorare pillole amare, hanno ribadito la volontà di intensificare gli sforzi comuni in materia di migrazioni e lotta al terrorismo. Per bocca di Hollande hanno poi precisato che l’insicurezza dei cittadini di cui farsi carico non è tanto quella sociale, bensì quella che richiede politiche securitarie e la costruzione di “un’Europa della difesa”. Merkel si è invece incaricata di sottolineare che, in materia di economia, la strada intrapresa è quella giusta, e che anzi occorre accelerare, se del caso lasciando per strada chi non tiene il passo: “dobbiamo avere il coraggio di accettare che alcuni Paesi possano andare avanti più rapidamente di altri”[5].

Europa a due velocità

Un vertice dei Capi di Stato e di governo di poco successivo all’incontro di Versailles, il 9 marzo, viene dedicato ai temi economici e sociali. È l’occasione per mostrare ottimismo, per celebrare una ripresa ancora impercettibile sul piano dell’occupazione, e soprattutto dell’equa distribuzione della ricchezza. Sufficiente però per affermare trionfalmente che “devono essere proseguite le riforme strutturali volte a modernizzare le nostre economie”: si deve cioè ridurre ancora la spesa sociale, privatizzare quel poco che è ancora pubblico, liberalizzare i pochi servizi ai cittadini rimasti, e soprattutto precarizzare ancora di più il lavoro. E si deve ribadire “l’importanza che riveste per l’occupazione, la crescita e la competitività, un mercato unico funzionante basato sulle quattro libertà”, ovvero, la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone (il riferimento è ovviamente ai soli lavoratori europei). E non importa se ci sono ostacoli all’estensione delle quattro libertà oltre il contesto europeo, ad esempio il recente affossamento del Trattato transatlantico di libero scambio (Ttip). Ci si può rifare con il Trattato tra Ue e Canada (Ceta), appena approvato dal Parlamento europeo, e con nuovi accordi con l’America meridionale, il Messico, il Giappone e la Cina[6].

Al vertice del 9 marzo non si poteva poi perdere l’occasione per rilanciare la linea appena dettata dalla Germania. Si ripete che occorre viaggiare a rotta di collo verso l’Europa dei mercati, tuttavia a due velocità: chi non vuole, o non è degno in base ai parametri di Maastricht, è tenuto a non intralciare la marcia trionfale di chi ha fatto i compiti a casa.

A questi aspetti, il giorno dopo il vertice, viene dedicata una riunione informale dei Capi di Stato e di governo. Ne conosciamo il contenuto attraverso una relazione confezionata per il Parlamento europeo da Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo appena confermato nella carica. Lì si ribadisce che la proposta di un’Europa a due velocità farà da sfondo alle celebrazioni per i sessant’anni del Trattato di Roma[7]. Anche se in particolare i Paesi dell’est si sono mostrati tiepidi se non contrari, giacché ciò che Angela vuole, il Donald polacco non può certo ignorare.

In fin dei conti l’Europa a due velocità formalizza una situazione di fatto: la distinzione tra i Paesi della Zona Euro e l’Europa a 28 (e in prospettiva a 27). I tedeschi hanno però ora interesse a individuare, all’interno della Zona Euro, una élite chiamata a rafforzare l’Unione economica e monetaria, a presidiarla come perno attorno a cui consolidare l’Europa neoliberale, da imporre come obiettivo indiscutibile verso cui tutti sono chiamati a convergere. Gli altri Paesi potranno decidere i tempi, ma non anche mettere in discussione l’esito finale, protetto dal moto di contestazione di ciò che è diventata la costruzione europea: un Superstato di polizia economica, che utilizza la concorrenza per dirigere i comportamenti individuali, sterilizzare il conflitto, e ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Insomma, l’Europa lenta dovrà prima o poi raggiungere l’Europa veloce, ma solo apparentemente potrà farlo con calma. I ritmi sono infatti quelli scanditi dallo schema per cui Bruxelles concede risorse solo in cambio di riforme strutturali di matrice neoliberale. Questo schema, utilizzato prima per l’allargamento a sud, poi per l’allargamento a est e da ultimo per affrontare la crisi dei debiti sovrani[8], verrà infatti generalizzato, sino a divenire il principale motore della costruzione europea. Bruxelles lo ha detto apertamente con riferimento all’utilizzo dei fondi strutturali, da vincolare con veri e propri contratti al rispetto delle “procedure di governance economica”. E lo ha ribadito con la proposta di istituire “un apposito strumento finanziario” per incentivare “riforme difficili”, come quelle “miranti a rafforzare la flessibilità del mercato del lavoro”[9].

Cinque scenari per il futuro dell’Europa

L’Europa a due velocità rappresenta uno dei cinque scenari prefigurati dalla Commissione in un contributo sul futuro dell’Unione. È quello per cui “chi vuole di più fa di più”, da ritenersi una variante rispetto ad un secondo scenario: la scelta di “fare molto di più insieme”. Seguono tre scenari che non comportano un’espansione del livello europeo: andare “avanti così”, favorendo il “miglioramento graduale del funzionamento della zona euro”, restringere il raggio di azione, decidendo di “fare meno in modo più efficiente”, o ancora alimentando “solo il mercato unico”, senza comunque mettere in discussione la moneta unica[10].

Ma torniamo allo scenario preferito dai tedeschi, che nelle parole della Commissione è la situazione in cui si favorisce la nascita di “una o più coalizioni di volenterosi che operano in ambiti specifici”. Forse a Bruxelles è sfuggito che “coalizione di volenterosi” è stato anche il nome scelto da George W. Bush per indicare i Paesi che lo appoggiarono nell’invasione dell’Iraq. Sicuramente, però, hanno presente che l’idea di un’Europa a due velocità non è nuova, così come l’attaccamento dei tedeschi a questa formula: risale agli anni dei negoziati per il Trattato di Amsterdam del 1997, che preparò l’allargamento a est.

All’epoca il mitico Ministro delle finanze Wolfgang Schäuble teorizzò l’edificazione di un “nucleo europeo” (Kerneuropa), composto dai Paesi intenzionati a intensificare il livello di integrazione, dal quale erano ovviamente esclusi gli Stati meridionali, e in prospettiva quelli orientali. Questi ultimi dovevano essere ricondotti alla costruzione europea per prevenire una destabilizzazione dell’area, ma proprio per questo la costruzione non doveva più essere una comunità di pari. Si poteva procedere anche verso un’Europa federale, con istituzioni democratiche e politiche sociali condivise, ma questo schema era riservato a Belgio, Lussemburgo e Olanda in quanto Paesi associati all’asse franco-tedesco (i fondatori della Comunità economica europea senza l’Italia). Solo questi Paesi erano in regola con i parametri di Maastricht, e dunque con quanto costituisce il fondamento dell’Unione economica e monetaria: da ritenersi “il nucleo forte dell’unione politica” e non un semplice “elemento di integrazione aggiuntivo”. Solo questi Paesi avrebbero così rappresentato il centro produttore di disciplina capace di piegare le indisciplinate periferie meridionale e orientale[11].

Il sesto scenario

Sono passati oltre vent’anni dalla riflessione di Schäuble sul nucleo europeo, ma nel frattempo poco o nulla è cambiato: l’ottuso teutonico è ancora al suo posto, e le sue parole dettano ancora la linea di Bruxelles. Tanto che il contributo della Commissione al dibattito sul rilancio della costruzione europea evita accuratamente di ricomprendere l’unico scenario cui guardano i popoli europei stremati dall’austerità. Manca insomma il sesto scenario, quello della rottura o quantomeno della discontinuità rispetto all’Europa di Maastricht, che distrugge lo Stato sociale, precarizza il lavoro, privatizza i beni comuni, e da ultimo erige muri contro le persone mentre promuove la libera circolazione delle merci.

Di certo non rappresenta una rottura la prospettiva indicata dal nazionalismo economico, che usa i muri per bloccare la circolazione delle merci, oltre che delle persone. Esso alimenta la lotta planetaria tra Stati in competizione per la conquista dei mercati, ma non libera la politica dalla sua subordinazione all’economia. Questa ben può convivere con la riscoperta dei confini senza per ciò solo essere messa in discussione: il nazionalismo economico e il neoliberalismo sono variazioni su un medesimo tema.

Occorre allora chiedersi se il sesto scenario sia compatibile con questa Europa, ovvero se essa è riformabile dall’interno. Oppure se per realizzarlo occorra smontare l’Europa, tornare alla dimensione nazionale per poi rimontare l’Europa come costruzione resistente al progetto neoliberale. Occorre in altre parole verificare dove si colloca lo spazio tra Maastricht e il nazionalismo economico, il “terzo spazio” utilizzabile per ripensare la costruzione europea attorno ai valori della “democrazia, solidarietà, eguaglianza e dignità”.

Sono, queste, espressioni utilizzate da chi pensa che simili valori possano ancora emergere dall’Europa di Maastricht, innanzi tutto promuovendo un ritorno agli anni precedenti l’affermazione del pensiero neoliberale, gli anni del compromesso keynesiano: sarebbe cioè possibile riattivare forme di incisiva redistribuzione della ricchezza e piani di investimento a sostegno della domanda. E si potrebbe persino andare oltre, prevedendo per un verso un reddito di esistenza, e per un altro forme di democrazia economica ricalcate sulla pratica dei beni comuni, da valorizzare per consentire persino un controllo parlamentare sull’operato delle banche centrali[12].

Ci troviamo di fronte a uno scenario che dire idilliaco è poco: siamo entrati nella dimensione onirica. Il terzo spazio presuppone trasformazioni troppo ambiziose perché possano scaturire da questa Europa. Per realizzarlo, i Paesi europei dovrebbero prima elaborare una politica economica, fiscale di bilancio volta a favorire la piena occupazione, piuttosto che la stabilità dei prezzi[13]. Dovrebbero poi mettere in comune i loro sistemi di sicurezza sociale, il loro mercato del lavoro, e soprattutto i loro debiti. Infine dovrebbero delineare una politica monetaria ricavata da questi propositi, quindi ripensare radicalmente la moneta unica. Ma non possono farlo, perché le leve del potere necessario a produrre queste trasformazioni sono a Bruxelles.

Per i teorici del terzo spazio, tutto ciò può invece accadere se solo si attiva una “democrazia reale e costante”, che riviva nel conflitto. Non solo il conflitto sociale, a partire da quello prodotto nelle città per il riconoscimento dei diritti sociali, ma anche quello istituzionale. Anche le istituzioni, dalle amministrazioni comunali ai governi, possono disobbedire all’Europa dell’austerità, promuovendo così un circuito di “élite insubordinate” capace realizzare il sesto scenario senza mettere in discussione la costruzione europea in quanto tale[14].

Per quanto lo si possa ardentemente sperare, è lecito dubitare che tutto ciò possa davvero accadere. Non si vede un ceto politico disponibile a impugnare le armi della disobbedienza istituzionale, e i pochi eventualmente pronti a farlo sono troppo impegnati a complicare la geografia dei partitini, o peggio dei gruppi parlamentari della sinistra. E neppure si vede la tensione sociale che dovrebbe attivare il conflitto nelle città: vi sono qua e là movimenti capaci anche di ottenere qualche successo, ma si tratta di iniziative effimere e sporadiche, instabili e prive di un coordinamento a livello europeo, in ogni caso scollegate da un luogo nel quale operare una sintesi tra rappresentanza e mediazione.

Nazione, lavoro e conflitto sociale

Su una cosa i teorici del terzo spazio hanno ragione da vendere: le possibilità di un cambiamento sono direttamente proporzionali al livello di conflitto sociale che si riuscirà a produrre attorno all’idea di un’Europa democratica e solidale, in quanto tale radicalmente ostile al progetto neoliberale e al nazionalismo economico. Solo che il conflitto non può essere unicamente quello acceso dalle élites insubordinate, neppure se affiancato a quello dei movimenti per la rivendicazione dei diritti sociali. Occorre il contributo dei lavoratori, di chi è più direttamente colpito dalla rottura del patto fondativo del costituzionalismo antifascista: quello per cui il lavoro, in quanto concorso al benessere collettivo, assicura mezzi sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa.

Se i lavoratori sono indispensabili a contrastare l’Europa dei mercati, allora diviene altrettanto indispensabile un ritorno alla dimensione nazionale. È questa la sede in cui i lavoratori hanno ottenuto un’accettabile mediazione tra capitalismo e democrazia: quella, alla base del compromesso keynesiano, per cui non si mettevano in discussione proprietà privata e principio di concorrenza, ma lo Stato operava in cambio una redistribuzione della ricchezza attraverso politiche fiscali e di bilancio di sostegno alla domanda[15]. Di qui l’aperto contrasto con la costruzione europea così come si è consolidata a partire dal Trattato di Maastricht, che ha imposto politiche economiche incentrate sul solo controllo dei prezzi, fondamento per il varo della moneta unica. E che a monte ha liberalizzato la circolazione dei capitali, imponendo così agli Stati di comprimere i salari e ridurre la pressione fiscale per attirarli: con ciò rendendo irreversibile il rovesciamento del compromesso tra capitalismo e democrazia ottenuto dai lavoratori.

Il tutto senza considerare che il capitale non conosce, diversamente dal lavoro, il radicamento territoriale: se il primo è oramai ridotto a un fascio di flussi finanziari, il secondo è inchiodato alla dimensione spaziale. Ha dunque bisogno di rappresentanza politica, ancora una volta quella assicurata, alle condizioni attuali, dal solo livello nazionale. Del resto l’Europa è per un verso un’entità tecnocratica, messa al riparo dalla politica prima ancora che dalla democrazia, funzionante secondo schemi numerici in quanto tali indiscutibili. Ma per un altro verso è pur sempre una costruzione governata dai Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, che non a caso compongono il Consiglio europeo: l’organo che “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici e le priorità politiche generali” (art. 15 Trattato Ue). E i Capi di Stato e di governo possono divenire cinghia di trasmissione delle istanze del lavoro solo se i parlamenti nazionale si svincolano dai condizionamenti derivanti dalle cessioni di sovranità finora utilizzate per alimentare l’Europa neoliberale.

Ovviamente tutto ciò non cancella la necessità di momenti forti di coordinamento sovranazionale, all’altezza della dimensione alla quale opera il capitale. E neppure esclude che il ripiegamento sulla dimensione nazionale debba poi cedere il passo a una riespansione del livello sovranazionale, da riattivare se e nella misura in cui la costruzione europea si trasforma in un motore di democrazia e solidarietà. Tanto meno impedisce di vedere che i richiami al Novecento non si possono intendere come il tentativo di recuperare un passato che per molti aspetti non può tornare, se non altro per i limiti insormontabili del modello di sviluppo a cui ha dato vita.

Si commette dunque un errore grave a ritenere, come fanno i teorici del terzo spazio, che il livello nazionale non debba tornare protagonista: che questo significhi automaticamente “rifugiarsi in un’immaginaria autarchia nazionale”, o gettare “benzina sulla xenofobia già dilagante”[16]. Certo, la dimensione nazionale non implica di per sé un potenziamento della sovranità popolare, e dunque dei processi di democratizzazione. E ciò nonostante occorre liberarsi dalla convinzione, ricorrente nella sinistra radicale europea, che la dimensione sovranazionale è in quanto tale da preferire alla dimensione nazionale[17]. L’omaggio a schemi preconfezionati impedisce sempre di vedere i motivi di forza e i motivi di debolezza delle opzioni in campo, e a monte la loro pluralità: porta a riprodurre a sinistra la logica del Tina (There is no alternative), che invece a parole si dice di voler combattere.

Riflettiamo allora senza pregiudizi, dal momento che non ci muoviamo qui nel campo delle certezze assolute, e che dunque abbiamo bisogno di approfondire e confrontarci. Senza imporci limiti diversi da quelli che riguardano l’individuazione dell’obiettivo: combattere il neoliberalismo, incluso quello che si esprime attraverso il nazionalismo economico. Valorizzando la circostanza che il lavoro è il motore di questa lotta, e che questa si fonda su conflitti tradizionalmente efficaci nella misura in cui possono condizionare il modo di essere della statualità.

È evidente che così non si risolveranno tutti i problemi. Ma se non altro si eviterà di lasciare il campo a chi cavalca il moto verso la riscoperta della dimensione nazionale per tornare all’imperialismo economico. Giacché la dimensione statuale può invece combattere i mercati, o almeno ricondurli entro un ordine politico motore di emancipazione individuale e sociale, e non anche garante intransigente del principio di concorrenza.
NOTE
[1] Dichiarazione di Bratislava del 16 settembre 2016, www.consilium.europa.eu/press-releases-pdf/2016/9/47244647412_it.pdf.
[2] Cfr. Consiglio europeo del 15 dicembre 2016 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2016/12/20161215-euco-conclusions-final_pdf e Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione del 3 febbraio 2017, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/02/03-malta-declaration-it_pdf.
[3] Questa immagine efficace si deve a S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 32 ss.
[4] Piano programmatico di bilancio per il 2017, p. 6 ss. (www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/DOCUMENTO_PROGRAMMATICO_DI_BILANCIO_2017-IT_-_new.pdf).
[5] Merkel, Hollande, Gentiloni, vertice a Versailles: Serve Europa a velocità diverse (7 marzo 2017), www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/03/06/gentiloni-a-versailles-vertice-a-4-con-hollande-merkel-e-rajoy-_fe690f7b-5c2d-498a-a854-1f91796df1ea.html.
[6] Consiglio europeo del 9 marzo 2017 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf.
[7] Relazione del presidente Donald Tusk al Parlamento europeo sul Consiglio europeo del 9 marzo e sulla riunione informale dei 27 Capi di Stato o di governo del 10 marzo, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf.
[8] Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, DeriveApprodi, 2014, spec. pp. 200 ss. e 239 ss.
[9] Un piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita. Avvio del dibattito europeo, Com/2012/777 def. V. anche la Comunicazione della Commissione sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria, Com/2015/600 def.
[10] Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025 (1. marzo 2017), https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf.
[11] Cfr. Überlegungen zur europäischen Politik (1. settembre 1994), documento predisposto da Wolfgang Schäuble e Karl Lamers (in quanto esponenti del Partito cristianodemocratico), www.cducsu.de/upload/schaeublelamers94.pdf.
[12] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Roma e Bari, Laterza, pp. ix ss. e 67 ss.
[13] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, DeriveApprodi, 2016, p. 57 ss.
[14] Ivi, pp. 71 ss. e 101 ss. V. anche Una disobbedienza costruttiva per rifondare l’Europa. Intervista a Yanis Varoufakis di Giacomo Russo Spena (17 marzo 2017), in questa Rivista, http://temi.repubblica.it/micromega-online/varoufakis-una-disobbedienza-costruttiva-per-rifondare-leuropa.

[15] Per tutti A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 15 ss. e passim.

[16]
L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio, cit., p. 32 s.

[17]
Cfr. M. Damiani, La sinistra radicale in Europa. Italia, Spagna, Francia, Germania, Roma, Donzelli, 2016, p. 189 ss.

(25 marzo 2017)

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