venerdì 24 marzo 2017

L’importanza dei referendum sul lavoro.

Il prossimo 28 maggio, se non ci saranno interventi legislativi che li rendano superflui, saremo chiamati a votare per i c.d. Referendum popolari per il lavoro, che riguardano la disciplina dei voucher e nuove regole sugli appalti.



micromega Guglielmo Forges DavanzatiSi tratta, nel primo caso, di abolire quella che viene considerata una forma estrema di precarizzazione del lavoro, ovvero il pagamento attraverso buoni lavoro, in assenza di un regolare contratto, originariamente pensati per lavori saltuari e occasionali e ormai estesi in pressoché tutti i settori dell’economia italiana.

Nel secondo caso, il quesito referendario incide sulla responsabilità di committenti, appaltatori e sub-appaltatori nei confronti dei lavoratori impiegati negli appalti. In caso di esito positivo, per il lavoratore sarà possibile richiedere la retribuzione che gli è dovuta direttamente al committente dell’appalto (a fronte del fatto che oggi è possibile farlo solo con l’azienda che ha ricevuto l’appalto), con un vantaggio per il lavoratore che deriva dal fatto che, nella gran parte dei casi, le aziende committenti sono più grandi e dispongono di maggiori risorse rispetto a chi gli appalti li esegue. 
Sebbene si tratti di quesiti che potrebbero sembrare estremamente tecnici, e nonostante il fatto che il Governo stia cercando di ‘disinnescarli’ rivedendo la normativa su voucher e appalti, essi rivestono una notevole importanza politica per la riconfigurazione delle regole che governano il mercato del lavoro italiano. Che è sempre più un mercato nel quale i rapporti di lavoro sono precari e, sempre più spesso, irregolari. Dove, si può aggiungere, l’irregolarità non è contrastabile con l’uso dei buoni lavoro, come vuole la propaganda confindustriale, dal momento che, per definizione, il lavoro irregolare esiste laddove esistono diritti e la sottrazione di diritti ai lavoratori – come appunto nel caso del pagamento con voucher – fa emergere il sommerso non perché lo si contrasta, ma perché lo si asseconda.

Va chiarito, a riguardo, che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (anche definite di ‘flessibilità del lavoro’ o, forse più propriamente, di precarizzazione) sono state attuate in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi OCSE (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state attuate con la massima intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni, a partire in particolare dal c.d. Pacchetto Treu del 1997 e con significativa accelerazione con la c.d. Legge Biagi (L.30/2003) e, più di recente, con il Jobs Act.

Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano. Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni.

In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accresce l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alla imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione.

Gli studi empirici si sono essenzialmente concentrati sui nessi esistenti fra regimi di protezione del lavoro e occupazione, rilevando, in particolare nel caso italiano, che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro tendono a generare l’effetto esattamente opposto a quello dichiarato, ovvero tendono ad accrescere il tasso di disoccupazione. L’indice di protezione del lavoro più diffusamente utilizzato è elaborato dall’OCSE ed è l’Employment Protection Legislation (EPL).

Ebbene, nel caso italiano l’EPL si è costantemente ridotto negli ultimi anni passando dal 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013. In termini meno tecnici, è certamente molto più semplice e meno costoso per le nostre imprese licenziare oggi rispetto al 1990. Una drastica e repentina diminuzione si è accertata dal 1997 al 1998 passando dal 3,76 al 3,19, con una diminuzione di più di mezzo punto, e dal 2001 al 2003 passando dal 3,01 al 2,38 (transitando nel 2002 con un 2,57) ed una riduzione del 26,5% Nonostante l’EPL abbia assunto valori quasi dimezzati nell’arco di quasi 25 anni nel 2013 il tasso di disoccupazione risulta di più di tre punti più elevato di allora (3,17).

In altri termini, l’evidenza empirica mostra che il tasso di disoccupazione tende a ridursi quanto meno flessibile è il mercato del lavoro. Ciò al netto del ciclo economico, dal momento che nelle fasi espansive, anche in regime di forte deregolamentazione del mercato del lavoro, l’occupazione non diminuisce o tende ad aumentare – effetto niente affatto scontato in un modello di sviluppo di jobless growth, imputabile alla crescente automazione dei processi produttivi – come è accaduto in Italia negli anni novanta e nei primi anni Duemila, sebbene in misura relativamente ridotta. 

Una ragionevole spiegazione di questo fenomeno riguarda il fatto che, come è noto da Keynes in poi, la domanda di lavoro espressa dalle imprese dipende fondamentalmente dalla domanda aggregata attesa. In tal senso, si può ritenere che l’effetto positivo (o comunque non decisamente negativo) delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro pre-crisi dipende essenzialmente dal fatto che si tratta di anni di crescita relativamente più alta rispetto agli anni successivi. Ciò che appare evidente è che misure di flessibilità del lavoro poste in essere in condizioni di caduta della domanda hanno effetti significativamente negativi sull’occupazione.

Vi è poi da considerare che gli anni novanta sono anni caratterizzati da una deregolamentazione molto meno incisiva rispetto a quella attuata nel periodo successivo, accreditando, anche per questa ragione, l’idea che le dinamiche dell’occupazione non risentono in modo significativo dal grado di protezione del lavoro e che in contesti di riduzione della domanda la deregolamentazione del mercato del lavoro può semmai contribuire ad accrescere il tasso di disoccupazione. Si può aggiungere – dato importante – che se le misure di precarizzazione del lavoro sono state anche pensate per attrarre investimenti, non sono neppure riuscite a ottenere questo obiettivo, dal momento che negli ultimi anni, per l’Italia, il saldo dei flussi in entrata e in uscita è di segno negativo. 

I quesiti referendari non agiscono in via diretta su questi aspetti (data l’inammissibilità giuridica di una radicale revisione per via referendaria di queste misure), però possono costituire un importante segnale per chi ritiene necessaria un’inversione di rotta sulle politiche del lavoro in Italia. Essi ribadiscono la centralità della tutela dei diritti dei lavoratori e la necessità di ripartire da questi per provare a contrastare la lunga recessione italiana. Si tratterebbe peraltro di assecondare una dinamica che altrove si sta generando (p.e. in Germania), prendendo atto che, come tutta l’evidenza empirica mostra (compresi i più recenti Rapporti del Fondo Monetario Internazionale), puntare sulla crescente precarizzazione del lavoro nuoce alla crescita economica, all’occupazione, alla qualità del lavoro.

(24 marzo 2017)

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