mercoledì 1 marzo 2017

Nel migliore dei mondi possibile. Caporalato, il caso dell’agro pontino: i braccianti sikh hanno cominciato a denunciare. Intervista a Marco Omizzolo, sociologo e presidente di "In Migrazione"

Sfruttati per lavorare come schiavi. Tantissime ore al giorno, con una paga misera, pochi diritti, una fatica immane da sopportare che ha portato qualcuno a doparsi, ad assumere oppio, metamfetamine, antispastici per reggere il dolore alle mani e alla schiena.
A denunciare le condizioni di sfruttamento lavorativo dei braccianti sikh nell’agro pontino è da anni la cooperativa In Migrazione, che nel tempo si è conquistata la fiducia dei lavoratori indiani. Oggi In Migrazione continua a lavorare con i braccianti, fa consulenza legale gratuita, si scontra con quanti nell’agro pontino vorrebbero continuare a operare nel buio e nel grigio di uno sfruttamento lavorativo diventato sistema. E invece qualcosa sta cambiando, e molto: ad aprile del 2016 i braccianti sono scesi in piazza in un primo grande sciopero. Hanno cominciato a denunciare caporali e sfruttatori. È cambiata la legge.
Merito anche di Marco Omizzolo, sociologo e presidente di In Migrazione. Da anni lavora con i sikh che popolano le campagne di quel territorio che va da Sabaudia a San Felice Circeo, da Terracina ai campi dell’agro pontino con tutta la sua produzione ortofrutticola. Una produzione legata a doppio giro con fenomeni radicati di sfruttamento lavorativo, denunciati a più riprese da Omizzolo, che s’è guadagnato ormai una buona collezione di minacce da parte di chi vorrebbe lucrare ancora sullo sfruttamento dei lavoratori. Omizzolo sui campi c’è stato, “infiltrato” con i sikh nell’inferno del caporalato. Così lo raccontava qualche tempo fa: “Braccianti che dovevano obbedire, senza discutere. Uomini con le mani callose e sporche di terra, la schiena piegata per 10, 12 e a volte anche 14 ore al giorno per raccogliere pomodori, cocomeri, ravanelli o insalata. Il tutto per circa 20-30 euro al giorno. Accade ogni giorno nelle campagne del pontino.

In provincia di Latina si contano circa 30mila punjabi, in prevalenza residenti nei Comuni costieri a spiccata vocazione agricola. Uomini, oggi sempre più anche donne, costretti a coltivare e a raccogliere gli ortaggi che poi prendono le autostrade della Grande distribuzione Organizzata, filiera sporca responsabile di tanta parte dello sfruttamento lavorativo, per finire nei piatti dei cittadini-consumatori di tutta Europa”. Ma le cose stanno cambiando e anche se il lavoro da fare per sradicare questi fenomeni è molto – in provincia di Latina ci sono circa 9 mila aziende agricole e almeno il 15% ricorre al caporalato – non si è più all’anno zero.

Tu denunci da anni lo sfruttamento lavorativo degli indiani nell’agro pontino, costretti a lavorare in condizioni al limite dello schiavismo. Insieme all’associazione In Migrazione, hai scoperto l’assunzione di sostanze dopanti per sopportare la fatica. Dalla vostra denuncia del 2014 è cambiato qualcosa?
Come In Migrazione siamo stati i primi a occuparci della questione. E per questo siamo stati minacciati. Abbiamo ottenuti risultati non risolutivi ma importanti. Uno è stato il primo e più importanti sciopero dei braccianti indiani in Italia, organizzato a Latina il 18 aprile 2016: in duemila lavoratori e lavoratrici sono scesi in piazza e sotto la Prefettura, in un giorno lavorativo, hanno manifestato contro caporalato, sfruttamento, tratta internazionale, per chiedere libertà, giustizia e rispetto del contratto di lavoro. Altro straordinario risultato è rappresentato, dallo sciopero in poi, da una serie di vertenze che si sono aperte contro i datori di lavoro, quelli stessi che pretendevano di essere chiamati padroni dai lavoratori, che sono stati denunciati e portati in tribunale. Ora per la prima volta nella storia giudiziaria della provincia di Latina alla sbarra ci sono quei padroni, imprenditori agricoli e caporali, protagonisti del sistema di sfruttamento. Come In Migrazione ci siamo costituiti parte civile nei processi. Altro risultato straordinario è la consapevolezza dei lavoratori e il fatto che ora nessuno potrà dire che lo sfruttamento, il caporalato e la tratta in provincia di Latina non esistano. Il fenomeno esiste ed è diffuso e drammatico. Poi c’è la nuova legge contro il caporalato, la legge 199/2016, frutto di queste battaglie. Una nuova legge, votata quasi all’unanimità, che rappresenta davvero un passo in avanti. Non risolutivo, certo, ma è un passo in avanti che finalmente imputa una responsabilità penale anche al datore di lavoro. Con la legge precedente poteva essere denunciato solo il caporale, mentre la nuova norma mette fra gli imputati anche il datore del lavoro, e prevede il sequestro e la confisca dell’azienda quando questi esercita attraverso il caporale un potere di ricatto e vessatorio verso i lavoratori e li impiega in condizione di particolare e grave sfruttamento lavorativo. Esattamente come avviene in provincia di Latina, ovviamente non in tutte le aziende, e come accade in altre parti d’Italia. Non abbiamo vinto la battaglia, c’è da costruire un altro tipo di welfare e un sistema contrattuale migliori. Ma non siamo più all’anno zero.

Qual è la responsabilità della grande distribuzione organizzata in questo tipo di pratiche lavorative? Tu hai parlato di “schiavi di questo capitalismo”…
La Grande distribuzione organizzata ha un ruolo centrale nello sfruttamento. Diversi dossier come quello di Filiera Sporca dimostrano la capacità della Gdo di condizionare il mercato dell’ortofrutta e il mercato del lavoro che ne consegue, perché riesce a imporre i prezzi ai produttori, che avendo pochi margini di guadagno soffocano le retribuzioni di lavoratori e lavoratrici. Un altro elemento centrale è la penetrazione delle mafie in provincia di Latina. E questo porta al ruolo centrale del mercato ortofrutticolo di Fondi, un grande hub nel quale bisognerebbe indagare in modo serio rispetto a una serie di traffici che condizionano le politiche del mercato e le condizioni di lavoro nei campi agricoli.

Nel libro “La quinta mafia” (Radici future, 2016) denunci la penetrazione delle mafie a Latina e provincia come fenomeno sottovalutato. Tutto si tiene?
Il caporalato e la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo nel Pontino stanno dando vita a una proto-mafia, a un sistema molto simile a quello mafioso, che sfocia nella cancellazione dei diritti, nello sfruttamento, nella subordinazione, nei casi più estremi anche nella riduzione in schiavitù. Probabilmente non ha collegamenti diretti con le mafie tradizionali però ne utilizza la stessa logica e la stessa metodologia. Esiste poi un intervento diretto delle mafie nella produzione ortofrutticola attraverso i mercati ortofrutticoli, e alcune aziende sono state già sequestrate, come l’intervento fatto contro il clan Moccia a Latina. Ormai a Latina parliamo di radicamento delle mafie, insieme a una certa classe di professionisti che sono fondamentali perché le mafie riescano a organizzarsi. Caporalato e tratta internazionale non sono stati gestiti direttamente dalle mafie tradizionali ma sono diventate esse stesse qualcosa di simile alle mafie, appunto una proto-mafia.

C’è qualcosa che il cittadino-consumatore può fare per sapere di non comprare prodotti basati sullo sfruttamento lavorativo?
C’è qualcosa che i cittadini possono fare e c’è qualcosa che la politica può fare. La politica può rendere trasparente la filiera, può investire nell’etichetta narrante, può dare maggiori informazioni. E lo Stato può entrare nelle campagne scardinando il sistema di reclutamento. I cittadini possono informarsi, possono acquisire una coscienza civile radicata e così orientare i propri consumi verso i prodotti che vengono da una filiera chiara e pulita. E possono iniziare a mettere in campo una serie di comportamenti “politici” nell’accezione più alta del termine, evitando di comprare prodotti da quelle aziende e da quella Gdo che non è chiara nei confronti delle filiera produttiva. Il cittadino ha un ruolo centrale: poiché ultima parte della filiera, se orienta la sua capacità di consumo verso prodotti etici non solo dal punto di vista ambientale ma anche sociale, aiuta il contrasto alle agromafie.

Cosa hai in programma per il futuro con In Migrazione?
Continuiamo a girare per le campagne e raccogliamo storie. Nel corso degli ultimi mesi io personalmente, in modo anche pericoloso, ho girato con un avvocato facendo avvocato di strada e consulenza legale di strada, informando i lavoratori dei loro diritti e aiutandoli nelle pratiche giudiziarie – naturalmente gratuitamente – facendo capire che si può denunciare il caporale e il datore di lavoro. Da febbraio abbiamo fatto più di cento vertenze di lavoro con lavoratori indiani, in alcuni casi denunce nei confronti dei caporali, in altri verso soggetti che avevano fatto della debolezza dei lavoratori un oggetto di business. Naturalmente la denuncia avviene solo se il lavoratore ci racconta. E questo è frutto di un grande rapporto di fiducia che si è costruito negli anni con In Migrazione. 

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