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La vicenda che ha condotto da due settimane in
carcere il giornalista tedesco di origine turca Deniz Yucel è di quelle che,
coinvolgendo gli affari loschi di famiglia del presidente Erdoğan, ha ricadute
pesantissime. Il sultano da oltre un triennio è impegnato su due terreni di
scontro politico-giudiziario. Il principale coinvolge l’accentramento
autoritario del suo modello di Islam politico, l’altro ha risvolti sugli
intrighi economico-politici del suo clan. Entrambi i terreni vedono impegnate
le forze dell’opposizione, soprattutto quella sociale che ne contesta contenuti
e modalità, più la pattuglia dell’informazione impegnata a indagare e rivelare
i tragici giochi di potere del padre-padrone, intento a rinnovare la patria
secondo voleri e interessi personali. Yurcel inseguiva la pista delle
rivelazioni di Wikileaks sulle mosse
del ministro dell’Energia, nonché genero del presidente, Berat Albayrak,
rafforzate dall’operazione di hackeraggio del gruppo RedHack, che nei mesi scorsi ha scaricato una gran quantità di
gigabyte dell’account postale dell’uomo politico. Questi, ben prima
dell’incarico istituzionale e dei legami familiari con gli Erdoğan e anche
dopo, dal 2000 al 2016, ha intrattenuto contatti con l’azienda PowerTrans
interessata al commercio petrolifero. Un mercato che si è aperto all’Isis,
proprio nel periodo in cui la sigla jihadista ha creato il Daesh, imponendo la
macabra presenza nell’area siro-irachena e controllando almeno una dozzina di
giacimenti di idrocarburi. Alcune delle 58.000 email pubblicate da Wikileaks, riguardavano l’impacciato
tentativo del ministro turco di cercare coi suoi legali escamotage per
dimostrare di non aver rapporti con quella ditta.
Oltre all’imbarazzante posizione di mister Albayrak,
diventato un politico di grido nelle gerarchie dell’Akp dopo essersi accasato
con Esra, la maggiore delle figlie del Capo di Stato, all’epoca premier, le
lettere trafugate rivelavano tutte le mosse realizzate dal cerchio magico del
sultano per contrastate l’aggregazione social-progressista che la contestazione
del Gezi park andava creando. Siamo nella primavera 2013. Un fenomeno
prettamente istanbuliota, con echi allargati a qualche altra città
metropolitana, un po’ Ankara e la sempre repubblicana Izmir, che mette però in
palpitazione l’establishment turco e accentua la divisione con alcune figure di
primo piano. Su tutti l’allora presidente Gül che prende le distanze dalla dura
repressione ordinata da Erdoğan. Frattanto nel sud-est anatolico montava la
rivendicazione kurda confortata dalla grande avanzata del nuovo soggetto
politico, il Partito democratico dei popoli, allargato a elementi marxisti e
progressisti. La polarizzazione che, con crescendo rossiniano, ha raggiunto i
picchi oggi conosciuti, parte da lì. Coinvolgendo altri scenari e altri
soggetti, ma in tal senso l’individualismo egocentrico di Erdoğan ha ampliato e
intrecciato visuali d’incontro, trasformandole in terreni di contrasto, un po’
con tutti: kurdi, gülenisti, jiahadisti. Si dirà: è la politica ‘a tuttotondo’,
in realtà l’uomo che vuol impersonare la Turchia e propone un’accettazione passiva
dei suoi piani, lascia in alternativa solo ‘il tuttoscontro’. Fra i nemici
acerrimi da combattere ci sono i giornalisti. In questo l’uomo forte anatolico,
non è diverso da altri megalomani avvinghiati al potere, con l’ausilio delle
urne o di giochi delle parti, per conservarlo a vita. Statisti pronti a
screditare, arrestare, eliminare i ficcanaso dei media. In alcune latitudini
anche fisicamente.
Ed eccole le persecuzioni delle testate d’opposizione: la filo
kurda Özgür Gündem, la progressista Cumhuriyet; oppure il repulisti attuato
verso il gruppo mediatico Koza-İpek
Holding (quotidiani Zaman, Bugun,
Millet e la tv Kanaltürk)
afferente alla cerchia di Fethullah Gülen e perciò perseguitato con chiusure, epurazioni e
sostituzione di direttori e corpo redazionale (diversi giornalisti della
vecchia gestione sono finiti in prigione, alcuni ci sono rimasti). Poi, quando
si tocca il terreno minato d’interessi di clan, che sono oLa vicenda che ha condotto da due settimane in
carcere il giornalista tedesco di origine turca Deniz Yucel è di quelle che,
coinvolgendo gli affari loschi di famiglia del presidente Erdoğan, ha ricadute
pesantissime. Il sultano da oltre un triennio è impegnato su due terreni di
scontro politico-giudiziario. Il principale coinvolge l’accentramento
autoritario del suo modello di Islam politico, l’altro ha risvolti sugli
intrighi economico-politici del suo clan.vviamente coinvolgimenti
anche politici perché la faccenda dell’acquisto del petrolio dall’Isis che fa
il paio con quella delle granate nascoste nelle casse dei medicinali, hanno
valenza pubblica e statale, allora al presidente che si sente intoccabile
fumano gli occhi. Così attacca pure il reporter Yucel che è turco, ma lavora
per la testata tedesca Die Welt, e la
sua detenzione sta avendo una ricaduta diplomatica, visto che la cancelliera
Merkel ha, per ora, espresso il proprio “disappunto”
e sotto la pressione di colleghi di Yucel, ripresa da diversi parlamentari del
Bundestag, dovrebbe tornare sul tema. Per ora s’è mosso il ministro degli
Esteri di Berlino, Gabriel, rimarcando il differente approccio verso la stampa fra la propria
democrazia e le misure attuate da Ankara. Vedremo il seguito, non dimenticando
che l’Unione Europea, e la Merkel in persona, debbono a Erdoğan i
patteggiamenti sui profughi siriani e l’autunno elettorale tedesco si
preannuncia di fuoco. Così Yucel potrebbe rimanere ostaggio fino ad allora, se
non oltre.
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